Archivio di settembre 2018

ISMAEL – Quattro

di Paolo Baiotti

21 settembre 2018

ISMAEL[953]

ISMAEL
QUATTRO
Macramè Dischi 2018

Sandro Campani, artista multiforme dell’area appenninica tosco-emiliana, ha già al suo attivo quattro libri tra il quali il più recente è Il Giro Del Miele (Einaudi 2017). Alla passione per la scrittura affianca quella per la musica, non solo come autore dei testi, ma anche come cantante e chitarrista degli Ismael, quintetto di indie-rock nato intorno al 2006 dalle ceneri dei Sycamore Trees, che tra il 1997 e il 2002 avevano pubblicato tre cd autoprodotti, in quanto nella ultima formazione della band militavano come chitarristi Campani e Giulia Manenti. Gli Ismael aggiungono Barbara Morini al basso, e Claudio Congliocchiali ai campionamenti, affiancando new wave elettronica e riff bluesati. Il primo cd esce nel 2008, ma la formazione si assesta in seguito con l’inserimento di Piwy Del Villano al sax e clarinetto e del cugino Luigi Del Villano alla batteria, con Andrea Fontanesi come sesto uomo alle tastiere e al missaggio. Dopo Due (2010) e Tre (2014) eccoci arrivati a Quattro, inciso nel reggiano con il fido Fontanesi. Un disco aspro, amaro, a tratti cupo, con dei testi che, come anticipato da Campani, cercano di raccontare lo sradicamento dal territorio, la scomparsa di un’Emilia da cartolina, una terra in cui la gente vive o meglio sopravvive dimenticandosi delle proprie radici, come se fosse morta dentro.

L’intenso rock ammorbidito dal sax di E Dove Andrai, Luchino? cantato con inflessioni che possono richiamare i cantautori degli anni settanta (De Gregori e De André) apre il dischetto, seguito da Canzone del Melo, mid-tempo cadenzato con un testo dolente sullo stato di un vecchio che gradatamente dimentica cose e persone. Tra i dodici brani emergono il rock robusto de Il Nocciolo della Questione che affianca un testo acre sulla morte e sul disfacimento del corpo (non necessariamente di un morto), il ritmo lento di Quante Case Spente sullo spopolamento, la dura e inquietante Canzone della Vedova, la morbida Canzone dello Specchio, amara fotografia di un’etica del lavoro che ha perso ogni valore e Canzone dei Salici, introdotta da un’armonica incisiva.

Nel finale del disco il punk rabbioso di La Gente Che Vive e la vigorosa Barbaj confermano la vitalità della band, che si può vedere come un rifugio e una reazione alla drammaticità della situazione raccontata dai testi.

Il 29 e 30 settembre, a Busto Arsizio, la seconda edizione della Fiera del Vinile

di admin

19 settembre 2018

BUSTO-2[952]

Dopo il grande successo della prima edizione, Busto Arsizio si appresta a ospitare il secondo appuntamento con la Fiera del Vinile & Vintage, sempre presso il Museo del Tessile, in Via Volta, 6.

come sempre, ingresso libero.
Late presente
VI ASPETTIAMO!

WHITERWARD – The Anchor

di Paolo Crazy Carnevale

17 settembre 2018

whiterward[948]

WHITERWARD – The Anchor (Whiterward/Hemifran 2017)

Questa formazione, facente capo a due cantautori – la bionda Ashley E. Norton e il nero Edward Williams – è sulla breccia da qualche anno, in maniera assolutamente indipendente, muovendosi nell’ambito di quell’indefinibile groviglio musicale che è il genere Americana. Negli ultimi tempi il gruppo si è consolidato in un quartetto dalle incredibili capacità e sonorità che oltre ai due cantanti e autori include il bassista (acustico ed elettrico) Patrick Hershey e la polistrumentista Stephanie Groot (viola, violino, mandolino, xilofono): proprio questa formazione ha realizzato The Anchor, il proprio sforzo più recente, uscito lo scorso anno e ancora in promozione, tanto che sono in previsione anche dei concerti europei per il 2019, e chissà che qualcuno accorgendosi di loro non provi a portarli anche in Italia. La musica dei Whiterward – mi piace pensare che sia una sorta di folk-rock da camera – sfugge abbastanza alle definizioni: ci sono influenze che li collocano in molti filoni, ma sostanzialmente il bello di quanto possiamo ascoltare in questo disco è proprio l’essere originale e, al di là delle similitudini e dei rimandi, di suonare molto personale. Le voci dei due sono molto caratteristiche e il mélange che si crea è come se le Indigo Girls incontrassero Steve Wynn, magari qualche brano ricorda anche da vicino le Indigo Girls, complice l’uso degli archi, ma l’approccio è meno folkie. Anzi, nei primi brani si fatica a comprendere dove il disco voglia andare a parare, per via dell’uso di un po’ di elettronica ed effettistica applicata alla chitarra elettrica ma è subito evidente quanto contino l’affiatamento degli archi e le voci diversissime delle varie chitarre elettriche. L’iniziale title track è già una buona composizione, anche se la successiva Free non quadra troppo. Il disco si riprende subito con Deaf, Dumb And Blind che rimette le cose a posto. Dopo Burn The Roses, la breve Interlude prepara il terreno per una lunga sequenza di brani da ricordare: Are You There? funziona egregiamente, con dei bei cori e suoni che calzano come un guanto, il mandolino che si inserisce alla perfezione e il leggero tocco del batterista Tony King, presente in parecchi brani; non da meno è Haunted By Me (dove il paragone con il duo di Amy ray e Emily Saliers è più evidente) costruita molto bene e a sua volta da annoverare tra i migliori momenti del disco. Parallel Universe, con un bel solo di chitarra elettrica e con la partecipazione del rapper Jhan Doe osa verso territori più pop, sempre profondamente legati al sound del quartetto. In Nepew la Norton sfoggia un cantato che ricorda certa enfasi di Freddy Mercury, ma state tranquilli, il suono è sempre quello dei Whiterward. Sempre lei dà la voce a Teeth, bella ballata blues con tastiere e solo di chitarra acido. Poi il microfono passa a Williams che tira fuori una voce per Isadora composizione acustica con la Groot allo xilofono. Acustica è anche la seguente The Night I Fell For You, chitarra arpeggiata e la voce di Ashley, eseguita quasi in punta di piedi, il contrabbasso che dialoga col violino ed un coro in crescendo che inspessisce il risultato. Un brano da applausi. Il finale è affidato alla pianistica e riuscita Wasteland, sempre scritta da Ashley, con tanto di effetto LP che salta nel finale e con la puntina che gratta a vuoto il vinile sulla brusca interruzione. Un nome, quello dei Whiterward, da segnarsi in agenda.

ESTERINA – Canzoni Per Esseri Umani

di Paolo Baiotti

17 settembre 2018

esterina[946]

ESTERINA
CANZONI PER ESSERI UMANI
Pippola Music 2018

Gruppo indie toscano originario di Massarosa, gli Esterina sono attivi dal 2008 cercando di coniugare nella loro produzione influenze cantautorali, una musicalità post-rock e testi piuttosto particolari. Le loro scelte sono poco ortodosse, tanto che nelle note bibliografiche della casa discografica vengono presentati come “un emblema di biodiversità musicale e di divergenza parallela con la scena indie contemporanea”. Una definizione che può sembrare poco comprensibile, ma che rende l’idea della loro originalità e specificità.
Canzoni Per Esseri Umani è il quarto album in studio, dopo l’esordio Diferoedibotte prodotto da Guido Elmi (Vasco Rossi), il secondo Come Satura e il terzo Dio Ti Salvi, prodotto da Ale Sportelli (Raw Power, Prozac). Nel 2016 hanno vinto il Premio Ciampi per la miglior cover (Fino all’Ultimo Minuto), poi si sono dedicati alla preparazione di questo disco, registrato e prodotto con Marco Lega (CCCP, Marlene Kuntz), ad eccezione del primo singolo Santo Amore Degli Abissi, mixato da Gareth Jones, un’autorità in ambito post-rock (Depeche Mode, Erasure, Interpol, Erasure…). Proprio questo brano, introdotto da un synth analogico, è un elettro-pop influenzato dai Depeche Mode avvolgente e drammatico, accompagnato da un video nel quale due appassionati di skateboard si lanciano in spericolate evoluzioni in mezzo alle colline emiliane. Gli Esterina prediligono i brani d’atmosfera come l’iniziale Chiamarsi, Meraviglia Normale percorsa da squarci di chitarra elettrica, le ballate Te E Io in cui la voce richiama le tonalità di Vasco Rossi (la voce, non la musica) e Più di Me, forse il brano più ortodosso della raccolta. Nell’obliqua e disturbante Si Che Lo Merita in cui si incrociano chitarre ed elettronica, dinamiche particolari e cambi di ritmo e in Cometa, impregnata di suoni elettronici, si rivelano i tratti più sperimentali del gruppo che chiude l’album con la lunga Esterno Notte, traccia lenta e cadenzata che si apre in un finale strumentale in crescendo di indubbia efficacia. Un quintetto intrigante da seguire con attenzione.

MIKE SPINE – Forage & Glean Volumes I & II

di Paolo Baiotti

7 settembre 2018

mikespinecover[938]

MIKE SPINE
FORAGE & GLEAN VOLUMES I & II
Global Seepej 2018

Musicista di Seattle attivo dagli anni novanta, dopo l’esperienza con la band The Help sfociata in un album nel ‘96 ha esordito da solista nel 2000, fondando successivamente la band At The Spine che ha inciso tra il 2003 e il 2012 cinque dischi in studio in equilibrio tra punk e rock con influenze grunge. D’altra parte ha coltivato anche la sua passione per il folk e il rock melodico con la band The Beautiful Sunsets che ha inciso Coalminers & Moonshiners nel 2012 e da solista con il recente Don’t Let It Bring You Down. Questi due aspetti della sua esperienza musicale sono equamente rappresentati in Forage & Glean, raccolta antologica di 32 tracce equamente divise tra folk rock (il primo volume) e punk rock (il secondo volume), con alcuni brani presenti in entrambe le vesti. Figlio di una insegnante e di un pilota di elicotteri impegnato per molti anni in Vietnam in missioni segrete, Mike è anche un attivista politico impegnato soprattutto nella difesa dell’ambiente. Ha lavorato come insegnante in aree socialmente problematiche a South Bronx, South London, Seattle, Portland e San Diego fino al 2011, quando ha smesso di insegnare dedicandosi a tempo pieno all’attivismo e alla musica. I testi riflettono il fervore e la passione che hanno contraddistinto la sua vita impegnata nel sociale. Musicalmente Spine riconosce influenze diverse, rappresentate dalle scelte di Forage & Glean: da una parte il punk di The Clash, Fugazi e Offspring e il grunge di Nirvana e Soundgarden, dall’altra la scrittura di Neil Young, Bob Dylan e Hank Williams. Il disco più rappresentato sul primo volume è Coalminers & Moonshiners con nove brani tra i quali l’accattivante Delirious che apre il dischetto, la melodica Sand In Your Teeth con un testo sullo sfruttamento del lavoro, The French Girl cantata in falsetto e Crumble, ballata che ricorda i Coldplay (la voce di Mike può essere accostata a quella di Chris Martin nei brani melodici). Dall’album solista spiccano la spagnoleggiante La Frontera e il folk-pop di Sinaloa, mentre l’eterea Nora e l’epica Spanish Anarchy sono tratte da Vita di At The Spines. Il secondo volume attinge prevalentemente da due dischi di At The Spines, Sonic Resistance del 2006 e l’omonimo del 2012. Le chitarre e la ritmica si induriscono, il ritmo accelera, la voce cambia assumendo tonalità rabbiose e intransigenti. La robusta Second Hand con un testo sul problema del riscaldamento globale, la cupa e tesa Transylvania, il rock duro di Power Broker che affronta il tema della corruzione, l’intensa Meteorite, la versione rock di La Frontera, la sognante The Ointment che accelera a metà strada nella sezione strumentale e l’aspra Battle In Seattle dimostrano le capacità di Spine in ambito punk-rock. E’ difficile scegliere tra i due dischi; probabilmente la dote migliore del musicista è quella di riuscire ad affiancare genere diversi riuscendo ad essere sempre credibile e sincero…un merito non da poco

MARK HUFF – Stars For Eyes

di Paolo Baiotti

7 settembre 2018

stars_for_eyes_image[932]

MARK HUFF
STARS FOR EYES
Exodus Empire 2018

Nato a Las Vegas Mark Huff, dopo avere esordito con la garage-punk band Smart Bomb, ha pubblicato il primo album da solista Happy Judgement Day nell’89, seguito da una serie di dischi tra i quali Skeleton Faith nel ’99, premiato in un sondaggio locale. In questo periodo ha aperto per Willie Nelson, Chris Isaak e Bob Dylan, dando l’impressione di essere pronto al salto di categoria. Nel 2003 si è trasferito a Nashville: è stato accolto con attenzione dalla comunità locale e invitato in breve tempo da Alison Moorer ad aprire il suo tour. Gravity del 2005 e Feels Like California uscito cinque anni dopo sono stati apprezzati, ma il suo nome non è uscito al di fuori di una ristretta cerchia di appassionati. Con l’Ep Down River e con Stars For Eyes l’artista cerca di fare il grande salto, aiutato dalla produzione dell’esperto Chad Brown (Ryan Adams, Mike Farris, Tom Russell, Faith Hill…) e da un gruppo di musicisti tra i quali spiccano Doug Lancio alla chitarra (John Hiatt), Russ Pahl alla pedal steel (Pretenders, John Hiatt, Dan Auerbach) e Mike Vargo al basso (Alison Moorer), oltre a un quintetto di coriste guidato da Julie Christensen (Leonard Cohen).

Stars For Eyes è un disco contraddittorio ed eccentrico, affiancando melodie tradizionali a squarci di sperimentalismo e modernità negli arrangiamenti, una voce affascinante e a tratti soave a testi foschi e oscuri basati su storie vere. Pur essendo considerato un cantautore country-roots Mark è atipico e obliquo, per questo meritevole di attenzione. Tra i brani spiccano Stars For Eyes, una ballata caratterizzata da una chitarra sognante, voce e cori avvolgenti e un tocco di psichedelia che può persino ricordare i Pink Floyd, il ringraziamento a Nashville di Big City Down, mid-tempo melodico country-pop con pedal steel e piano in evidenza, l’intima Heart Beating With You percorsa da suoni più sperimentali e la minimalista I Know You Don’t Want My Love, ballata soffusa tra country e tocchi di ambient alla Lanois. Meno convincenti il rock di Albatross e God In Geography che mischia un organo new wave con un riff robusto. L’unica cover è una jazzata Almost Like The Blues di Leonard Cohen che, pur non sfigurando, sembra in disarmonia con l’atmosfera del disco, ma si giustifica per l’affetto di Mark nei confronti del grande artista canadese, che gli ha dato preziosi consigli alcuni anni fa e per la presenza ai cori di Julie Christensen.

Il 16 settembre la Fiera del Disco di Cormano

di admin

7 settembre 2018

CORMANO-VINILE-2018-STAMPA (FILEminimizer)[931]

Appuntamento per i vinilomani (e i cdlomani) a Cormano, il prossimo 16 settembre, presso il Centro Commerciale Cormano in Via Antonio Gramsci angolo S.P. 44.Uscita dell’A4 – Cormano.

orario: dalle 10 alle 19, ingresso libero.

Ristoro, e soprattutto negozi e supermercato per le gentili consorti, così voi vi potete vedere i dischi in santa pace.

ACCORRETE!!!

CALLE KARLSSON – Monterey Shoreline

di Paolo Baiotti

7 settembre 2018

calle[929]

CALLE KARLSSON
MONTEREY SHORELINE
Paraply Records 2018

Cresciuto a Traslovslage, sulla costa occidentale della Svezia, in una famiglia amante della musica (il padre, pescatore da generazioni, suonava la fisarmonica, la madre il piano), Calle ha iniziato a cantare nel coro della chiesa. Più tardi, all’epoca delle scuole superiori, ha imparato a suonare la chitarra. Per molti anni ha lavorato in un negozio di fotografia a Varberg, alternando questa attività con l’interesse per auto, moto e musica. Nell’85 ha inciso un album con la band Blue Light ma, non essendo riuscito a sfondare, si è dedicato all’attività solista, diventando un intrattenitore di successo in vari ambiti (dai matrimoni alle feste aziendali), incidendo sei dischi, sia in svedese che in inglese. Nel 2013 ha anche pubblicato un disco nel dialetto della sua regione.

Monterey Shoreline è un Ep in inglese pubblicato da poco, che segue un altro Ep di due brani in svedese, tra Americana e suono della West Coast, permeato di venature country. Cinque brani melodici e agili, nei quali si apprezza particolarmente il contributo strumentale di Olle Bergel (fisarmonica e tastiere), Berra Karlsson (pedal steel) e Goran Sjowall (flauto), ad eccezione dell’ultimo brano composto e cantato con l’artista folk Annika Fehling, della quale ci siamo occupati recentemente. Monterey Shoreline è un dischetto rilassante e disinvolto, adeguato sia nel cantato che negli arrangiamenti, non molto originale dal punto di vista compositivo. La ritmata Monterey è un’apertura soddisfacente, con un impasto di flauto e chitarra nella sezione strumentale e un’interpretazione vocale melodica, appena sporcata, seguita da Shoreline, un’immersione nella west coast, con una fluida pedal steel e un organo brillante. Il tempo medio di Carry On incrocia influenze country e easy, mentre il motivo lento e avvolgente di The Sun Song rallenta al momento giusto il ritmo che accelera nella conclusiva Seize The Day, un po’ troppo easy nella costruzione e negli arrangiamenti. Venti minuti che scorrono velocemente, senza scossoni, lasciando un’impressione complessivamente positiva.

AA.VV. – Yayla, musiche ospitali

di Paolo Crazy Carnevale

2 settembre 2018

Yaila-DGpack4

Various Artists – Yayla, musiche ospitali (Appaloosa 2018)

Un progetto nobile, intelligente, variopinto questo CD realizzato dall’Appaloosa su input del Centro Astalli, una struttura che si occupa di accoglienza per i migranti.

E difatti, il titolo è già molto esplicativo riguardo ai contenuti sonori e lirici qui contenuti: si tratta di una parola turca che significa “transumanza”. E di transumanza, in tutte le sue varietà si parla e soprattutto si canta nelle trenta tracce spalmate sui due CD contenuti nella confezione, riunendo sotto un unico tetto artisti italiani, artisti dei paesi da cui il flusso migratorio verso il mediterraneo arriva, e, perché no musiche e artisti più vicini al catalogo Appaloosa tradizionale.

Il risultato è decisamente interessante, nonostante la presenza di più brani parlati (sono ospiti del progetto attori e poeti, su tutti l’immenso Erri De Luca, ma anche Donatella Finocchiaro, Valerio Mastandrea) che richiedono un ascolto diverso da quelli musicali.

Tra canzoni nuove, canzoni meno recenti date in dono al progetto da artisti di rilievo, atmosfere tradizionali tipiche di tutta l’area di quel “mare nostrum” dei latini che a ben vedere è nostrum nel senso di tutti coloro che vi si affacciano.

Antonella Ruggiero regala quindi al progetto un differente mix di Nuova terra, una sua canzone di diversi anni fa ma che pare scritta alla bisogna, e così fanno i Gang, che rispolverano dal loro ultimo disco di brani originali quella Marenostro che (pur ricordando nella musica altre cose della band marchigiana) sembra davvero ispirata per finire in un progetto come Yayla. Suggestivo il brano proposto da Michele Gazich in compagnia di Isaac De Martin e Alaa Arshed e intitolato Itaca o Milano, e che dire della rilettura che il Coro popolare della Maddalena fa di Sinan Capudàn Pascià e de Il pescatore, cucendo insieme le due composizioni deandreiane. Sempre sul primo disco vale senz’altro la pena segnalare la Taranta migrante dei Traindeville, grande esempio di folk di protesta contemporaneo dall’effetto magistrale, e la conclusiva La memoria dell’acqua di Erica Boschiero.

Il secondo disco, per tutta la prima parte si gioca su grandi voci femminili, con suggestioni orientaleggianti, sonorità balcaniche: sembrano particolarmente azzeccate Matri l’emigranti di Matilde Politi, che punta l’indice sul fatto che una volta i migranti eravamo noi, e la bella composizione di Andrea Parodi (mente occulta dietro alla scelta di parte del materiale) Rosamarina. E subito dopo uno dei brani simbolo – almeno nella tradizione nordamericana – sul tema della migrazione, quella Deportee composta da Woody Guthrie, dedicata ad una strage di migranti di molti decenni fa: qui la interpretano Sarah Jane Ceccarelli e Paul-Jones Kokou trasportandone la melodia tra Bretagna e Irlanda, con oculatezza. Bocephus King (con Saba Angiana e Flophouse Jr.) mette sul piatto un brano scritto appositamente per il disco, By Foot, By Boat, By Train, facendosi sedurre dalle sonorità mediterranee e fondendole con suoni più moderni, e il risultato è molto interessante.
Thom Chacon, una delle rivelazioni di maggior rilievo in casa Appaloosa, riprende dal suo recente disco I’m An Immigrant, una canzone davvero grande, che viene reincisa per l’occasione, con Rado Lorkovic, Paolo Ercoli e con Violante Placido a duettare col titolare. Gli applausi sono scontati.

Neri Marcorè e Giua cantano invece Perché ci hai messo tanto, di nuovo un brano di Andrea Parodi, riuscito e molto De André oriented, che la voce di Marcorè caratterizza particolarmente bene. Dal catalogo Appaloosa arriva poi James Maddock con The Mathematician, una delle migliori canzoni del suo recentissimo album, qui però reincisa con Tatè N’Songan. Meno interessante il contributo di Ben Glover, mentre a chiudere il progetto troviamo un’ottima Jamma scritta e interpretata da Marius Seck e Guido Tronconi e una rivoluzionaria rivisitazione dell’Isola che non c’è in cui Jono Manson riprende il brano traducendolo in inglese, rivestendolo di suoni e suggestioni insospettabili, coinvolgendo Saif Samejo e, udite udite, lo stesso Bennato. Manco a dirlo, gli applausi sono di rigore anche qui!

MARCIA BALL – Shine Bright

di Paolo Crazy Carnevale

2 settembre 2018

marcia_ball__shine_bright_cd_cover[925]

Marcia Ball – Shine Bright (Alligator 2018)

Alla vigilia dei settant’anni la pianista e cantante Marcia Ball pubblica un nuovo frizzante disco per la Alligator, l’etichetta che si occupa della sua discografia dall’alba del nuovo millennio in qua.

La Ball, texana di nascita ma di fatto cresciuta musicalmente a Vinton, Louisiana, è sulla breccia da parecchio tempo, il suo esordio discografico viene fatto addirittura risalire al 1972, e le assi dei palcoscenici le calcava anche da prima. La sua carriera ha però cominciato a decollare negli anni ottanta quando si è accasata presso la Rounder, etichetta che l’ha pubblicata dal 1984 fino al passaggio su Alligator.

Con questo disco, la Ball offre una nuova raccolta di composizioni per lo più autografe che riflettono alla perfezione il suo stile pianistico devoto alle tradizioni di New Orleans corredato con l’uso di una sezione d’ottoni usata in stile big band, pur contando solo sei elementi, cui si aggiunge il sax del produttore Steve Berlin (Blasters, Los Lobos, occorre dirlo?).

Naturalmente Berlin si limita a fare un bel lavoro di produzione, senza portare altre influenze alle coordinate della musica di Marcia e guardandosi bene dal modificarle.

Il risultato è un disco facile, da ascolto disimpegnato, di sicura presa tra coloro che amano le atmosfere di New Orleans meno pretenziose, abbastanza orecchiabili, ben suonate, ben cantate.

Non troverete in Shine Bright il blues lancinante e torrido di altre zone degli Stati Uniti, non vi troverete né polvere né sudore. Giusto una buona dose di musica da mardi gras di ottima fattura.

Alle classiche atmosfere evocate dalla title track e da I Got To Find Someone, fanno da contraltare la lenta e avvolgente What Would I Do Without You presa in prestito da Ray Charles, la rumba/honkytonk intitolata When The Mardi Gras Is Over, l’ispirato gospel World Full Of Love e soprattutto Life Of The Party, riuscita commistione tra trombe messicane e musica caraibica, molto in odore di Buster Poindexter o, se preferite, dei Mavericks prima maniera.

Un disco non indispensabile, ma godibile.