Archivio di novembre 2015

MY QUIET COMPANION – MY Quiet Companion

di Paolo Crazy Carnevale

24 novembre 2015

my quiet companion

MY QUIET COMPANION
MY Quiet Companion
(MQC Records 2015/Hemifram)

I nordici, si sa, hanno sempre avuto un debole particolare per le sonorità yankee, non è un caso che quando da noi vedere su un palco le star d’oltreoceano era un’utopia ben più grande di quella di Tommaso Moro, in Scandinavia passavano a suonare come se niente fosse Hendrix, Love, Delaney & Bonnie, Blind Faith e chi più ne ha più ne metta. Non solo, in anni meno lontani fior di artisti del giro folk/country/rock sono transitati per i paesi del nord Europa, talvolta piantandoci radici, tal altra semplicemente per suonare o per trovare una label che pubblicasse i loro lavori nel vecchio continente: mi vengono in mente Eric Andersen, Tom Russell, Rick Danko, Doug Sahm…

Questa premessa è necessaria per orientarsi nelle scelte musicali della Hemifram, etichetta distributrice svedese che ci spedisce puntualmente i lavori degli artisti che promuove. In particolare questo trio che è svedese a sua volta e ci offre un apprezzabile saggio delle proprie canzoni dalle atmosfere delicatamente acustiche.

Nulla di originale, diciamolo subito a scanso di equivoci, c’è tanto di già sentito nelle tracce di questo debutto dei My Quiet Companion, formatisi un paio di anni fa e caratterizzati da un uso di strumenti acustici. Ne fanno parte Henrik Cederblom, nella fattispecie colui che si occupa di chitarra e mandolino, e i cantanti e autori Sofia Eckberg e Patrick Rydman che cantano e suonano le chitarre. Con una strumentazione simile è facile capire da che parte si vada a parare, ossature sonore ridotte all’osso, quasi minimalismo, di gran gusto e con gli interventi di Cederblom che si inserisce nelle composizioni dei due soci con adeguata misuratezza. La maggior parte dei brani sono cantati in inglese, a partire dall’iniziale (ed eponima per il gruppo ed il disco) My Quiet Companion che però non brilla più di tanto, all’eccellente Circle Of Stone, ma ci sono anche suggestive composizioni in svedese, magari un po’ ostiche lì per lì a causa dell’idioma, ma tutto sommato ben inserite nel contesto. Tra le cose migliori c’è anche lo strumentale Drömmen composto da Cederblom, e particolare menzione meritano le armonie vocali imbastite dal trio.

THE ORPHAN BRIGADE – Soundtrack Of A Ghost Story

di Ronald Stancanelli

19 novembre 2015

ORPHAN BRIGADE

The Orphan Brigade : Soundtrack of a Ghost Story nasce in modo particolare quando tre cantautori che rispondono ai nomi di Ben Glover, Neilson Hubbard e Josua Britt decidono contemporaneamente sia di incidere un album che di redigere un film-documento.

Quindi in un edificio del Kentucky, precisamente nell’Octagon Hall di Franklin, casa che situata nel bel mezzo di una piantagione che ha vissuto eventi vari nel corso della guerra di secessione e che pare da tempo infestata dai fantasmi, si dilettano, bontà loro, in questa duplice e temeraria esperienza. Pare che questa magione sia considerata come uno dei posti più inquietanti di tutti gli Stati Uniti.

Il nome dell’operazione è tratto da l’Orphan Brigade che era un gruppo operativo bellico di quel periodo operante in zona. Quattordici tasselli che compongono un racconto di musica di radici sudiste che formano appunto un concept album molto accattivante, piacevole ed interessante sia dal punto strettamente musicale che ovviamente da quello storico e che ci porta alla memoria un’operazione similare del 1978 quando una cerchia di artisti tra cui John Dillon, Steve Cash, Waylon Jennings, Bernie Leadon, Jessy Colter ed Eric Clapton diedero vita al ormai mitico progetto-album The White Mansion.

Tornando ad Orphan Brigade il film ha vinto un premio al festival cinematografico del Bayou, è stato selezionato per quello di Nashville, ha avuto una nomination per la miglior canzone e ha vinto un premio al Southern Spotlight Award.

L’album che a più ascolti ci risulta estremamente gradevole è decisamente di livello superiore soprattutto nei brani Pale Horse, We were marching on Christmas Day, nel traditional Good Old Flag che assomiglia notevolmente al brano di Tom Russell Tonight we ride, nella marcia alquanto irish Cursed be the Wanderer e nella ballata Goodnight Mary.

Tutti i brani escluso appunto il traditional sono a firma dei tre musicisti dei quali ricordiamo due essere statunitensi e uno, Glover, irlandese. Un’altra decina di musicisti collaborano all’opera tra cui Heather Donegan, Brad Talley, Ryan Beach e vari altri mentre la produzione è affidata al solo Hubbard.
This is a Ghost Story set to Music in a House full of Life, Death Love, War and unimagionable Loss. Significativamente d’epoca e d’antichissima memoria la copertina.

VARIOUS ARTISTS – Look Again To The Wind

di Paolo Crazy Carnevale

16 novembre 2015

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VARIOUS ARTISTS
Look Again To The Wind
(Sony 2014)

La moda degli album tributo, che a cavallo tra secondo e terzo millennio ha spopolato fino a “rompere I cabbasisi” – per dirla con Andrea Camilleri –, pur attenuata continua a supplire alla mancanza di idee ed inventiva che ha fiaccato il mercato discografico nell’ultimo paio di decenni. Per carità, di cose belle se ne sono ascoltate tante anche recentemente, diciamo che bisogna scremare molto di più di quanto non si dovesse fare in altre epoche. Tra le varie tipologie di disco tributo quella che stiamo per affrontare è forse la più particolare e interessante – come idea di base, poi bisogna sempre vedere come viene svolto il compitino a casa. Si tratta del tributo non ad un artista, ad un gruppo o a un movimento musicale, bensì dell’omaggio ad un disco particolare, cosa a suo modo difficile da fare, soprattutto se si tratta di disco importante e particolarmente significativo. Ci sono tributi di diversa natura: da quelli di band consolidate come Gov’t Mule e Phish che in determinate occasioni eseguono dal vivo e per intero un disco altrui a cui sono particolarmente legati (ricordo ad esempio i primi alle prese con Who’s Next e House Of The Holy ed i secondi con il White Album e Waiting For Columbus), o band meno note come i Confederate Railroad intenti a risuonare per intero Tonight’s The Night. Ci sono poi i tributi di genere, come uno recentemente uscito in cui Tommy subisce il trattamento in stile bluegrass, cosa per altro accaduta anche The Joshua Tree, o quello jazz di Fared Haque a Deja Vu.

Il disco di cui sto per occuparmi è del tipo “vari artisti uniti nello spirito evocativo di un disco mitico”: era già accaduto con una analoga rivisitazione di Frisco Mabel Joy, ora la cosa si ripete con altri protagonisti che rileggono accoratamente il disco di Johnny Cash Bitter Tears, pubblicato nel 1964 e omaggiato con questa rilettura a cinquant’anni dalla sua uscita. Non si tratta di un disco qualunque: quando vide la luce nel 1964 i tempi non erano certo maturi per un’apologia dei nativi americani, tanto meno attraverso le canzoni di un loser totale come Peter Lafarge, ma Johnny Cash era Johnny Cash e la sua coraggiosa operazione fu comunque premiata con un secondo posto nelle classifiche country ed un quarantasettesimo in quelle pop, senza scordare il terzo posto del singolo tratto dal vecchio vinile, The Ballads Of Ira Hayes.

Nel disco originale, Cash univa alle splendide canzoni (soprattutto nelle liriche) di Lafarge un paio di brani in tema scritti di suo pugno ed uno di Jimmy Horton, il risultato fu un bell’omaggio ad una razza in via di estinzione attraverso a canzoni cantate con quel piglio combat-country di cui Cash solo era capace.

E forse proprio qui risiede il problema di questo tributo, pur bello e accorato, che celebra i cinquant’anni di Bitter Tears: il piglio con cui erano suonate e cantate le canzoni sull’originale.

Il manipolo di artisti coinvolti è un team da brivido, bravura e capacità al limite dell’immaginabile, alle prese con un repertorio quasi da leggenda, riproposto però in maniera un po’ sommessa. I suoni sono splendidi, e vorrei vedere, con calibri del tipo Greg Leisz, Norman Blake, Sam Bush, Bill Miller, David Rawlings, Patrick Warren che tessono trame molto raffinate. Per non dire dei vocalist! Ma secondo me manca la spinta, il disco sembra troppo adagiato, quasi adeguato al buonismo eccessivo degli ultimi anni, persino Steve Earle, uno che quanto ad essere “combat” non ha rivali, canta la canzone su Custer con tono remissivo. Non si discute la bravura, Emmylou Harris è fantastica nel dare voce ad Apache Tears (ripresa a metà disco con arrangiamento analogo da Rawlings e da Gillian Welch), e che dire del vero e proprio inno As Long As The Grass Shall Grow eseguita in doppia versione? Forse troppo: la prima è praticamente acustica e cantata dalla Welch e Rawlings (che sono un po’ i coordinatori del progetto), dura oltre nove minuti, troppi, soprattutto alla luce del fatto che verso la fine del disco, i due – accompagnati dai coniugi Blake riprendono il brano per altri tre minuti e mezzo. I contenuti sono sacrosanti, non si discute, ma forse si poteva stringere un po’…

Lo stesso vale per The Talking Leaves, brano di Cash sui trattati con gli indiani, tirato per oltre sei minuti. Tra le cose più apprezzabili del disco c’è sicuramente Drums, uno dei più bei brani di Lafarge, qui cantato da Norman Blake – che suona naturalmente anche la chitarra – accompagnato dai soliti Welch e Rawlings, peccato che più o meno in contemporanea lo stesso brano sia uscito su un dieci pollici uscito per il Black Friday in una più robusta versione ad opera del redivivo Floyd Westerman (ricordate “Balla coi lupi”?) e dall’ex Doors John Densmore.

Le cose meglio riuscite sono sicuramente la Ballad Of Ira Hayes cantata da Kris Kristofferson – lui sì che ha l’approccio giusto per cantare queste canzoni! – e The Vanishing Race (il brano di Jimmy Horton) cantato in maniera stentorea da Rihannon Giddens (quella dei Carolina Chocolate Drops e dei New Basement Tapes) . Rispetto al disco originale, questo tributo include un ulteriore brano a firma Lafarge, quello che da il titolo al disco, cantato da Bill Miller con un filo di voce ed un arrangiamento minimale ma bello.

Domenica 29 novembre la Fiera del Disco di Mariano Comense

di admin

16 novembre 2015

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Presso Il Circolo di Via d’Adda, 13, dalle 10 alle 18,30.

Vendita e scambio di dischi, spettacoli dal vivo e ristoro.

Ingresso libero.

INTERVENITE NUMEROSI!

BOCEPHUS KING – The Illusion Of Permanence

di Ronald Stancanelli

16 novembre 2015

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BOCEPHUS KING
The Illusion Of Permanence
2015 Appaloosa IRD

Avevamo ascoltato recentemente questo nuovo lavoro di Bocephus King che però ci aveva lasciato perplessi e lo avevamo messo da parte per riascoltarlo con calma ma onestamente era poi restato nel classico cassetto. Poi essendo il musicista canadese stato la vera anima allegra e festosa di tutto il Buscadero Days da poco svoltosi a Pusiano abbiamo rimesso il suo cd sul piatto e lo stiamo riascoltando riscoprendolo sotto un’altra luce.

Nei vari show nei quali lo abbiamo visto, due da solo e vari assieme ad altri artisti, Bocephus King ha dato l’idea di essere un vero animale da palcoscenico, superbo assieme a Bob Rondelli, e di divertirsi a fare il suo mestiere in modo impeccabile. Veramente il tocco in più che ha illuminato i due giorni di festa e musica sul lago di Pusiano. Ricordando che il suo vero nome è James Perry e che arriva da Tsawwassen, un piccolo paese canadese di pescatori sull’Oceano Pacifico che molto lo ha ispirato a scrivere le sue canzoni a volte brevi o minimali che sono un compendio di rock, blues, folk, country e dense di tante altre sfaccettature musicali. Nella stranezza di vari suoi brani e dei loro particolari arrangiamenti l’artista canadese ci ricorda sia Jonathan Richamn che Ben Vaughn e questo The Illusion of Permanence è il suo sesto lavoro. Ricordiamo anche che Bocephus, che ha trovato nell’Italia il suo secondo paese, ha prodotto i due dischi solo del cantautore Andrea Parodi e che insieme hanno partecipato con Suzanne al tributo a Fabrizio De André 1000 PAPAVERI ROSSI del 2003.

Un lavoro interessante anche se fruibile in modo più semplice solo dopo alcuni ascolti questo The Illusion of Permanence, titolo molto significativo e profondo, mescola in alcuni frangenti sonorità folkeggianti a influenze orientali talvolta lente e strascicate (The Light that has lighted the World) mentre in altri momenti una lunga distesa country illumina il percorso (Hummingbird) e ancora in altra circostanza propone una geniale ballata di estesa ampiezza con la voce in tracimante forma di gran crescendo e una chitarra acustica lancinante che ne fanno il gioiello del disco (Roadside Shrine). Disco che nel coloratissimo ed eccellente libretto ha le liriche sia in inglese che in italiano e nel quale Bocephus suona oltre una mezza dozzina di strumenti coadiuvato da altri nove artisti tra cui Max Malavasi alla batteria e percussioni che abbiamo anche sentito a Pusiano in più set musicali appunto alle percussioni.

La quasi totalità dei brani è a firma del musicista canadese o da solo o con altri artisti mentre due sono le cover, una da Reverendo G . Davies e l’altra di George Harrison. Un percorso musicale quello di Bocephus King sinceramente non facile e che ovviamente non mira certamente alla canzone da classifica e nemmeno, diremmo, alla sua orecchiabilità; ma ciò non toglie che questo disco possa essere assimilato ed apprezzato da una buona schiera di ascoltatori appassionati di buona e sperimentale musica. I testi, aiuta la traduzione, sono intelligenti e profondamente rivolti a una ricerca sia essa interiore che esteriore verso un approdo, un porto che per un attimo fermi il troubador, sognatore, viaggiatore e gli dia il tempo giusto per la riflessione. Un bel profondo lavoro che non esitiamo a consigliare. Stramba, e non poteva non essere che così, la cover nel cui interno le dediche sono rivolte per due terzi ad interlocutori del nostro paese. Prodotto dalla nostrana Appaloosa è distribuito da IRD.

ANDREA ZONN – Rise

di Ronald Stancanelli

14 novembre 2015

Andrea Zonn

Anche questo dischetto è della Compass Records, distribuito nel nostro paese dalla IRD. Andrea Elizabeth Zonn nata nel 1969 e cresciuta nell’Illinois a Urbana è considerata una delle violiniste contemporanee più brave ed in più dotata in una piacevolissima voce che unisce al suono del suo violino, connubio che da pienamente risalto a questo suo terzo lavoro di eccellente ed incantevole fattura.

Aggiungiamoci un’ egregia sezione ritmica affidata al bassista Willie Weeks già collaboratore di nomi noti del mondo rock mentre il famosissimo Steve Gadd si produce ad un ritmato e ponderato suono di batteria che condisce mirabilmente il tutto. Quindi se mescoliamo ai tre ottimi personaggi già citati una selva di ospiti illustri come Sam Bush, Allison Brown( toh chi si risente) , Vince Gill, Jerry Douglas, James Taylor( col quale la Zonn ha collaborato più volte) e Keb’ Mo abbiamo un risultato finale dato da dieci affascinanti tracce che rasentano la perfezione.

Andrea Zonn, rammentiamo che in molti paesi del mondo Andrea è appunto un nome femminile, ha prodotto sia questo lavoro che il precedente Hands Across the Water del 2005. Ricordiamo infine che nel Tour 2010 che rivide sul palco James Taylor e Carole King dopo tempo immemorabile lei faceva parte del gruppo che li accompagnava! Dosata e misurata la durata di quaranta minuti come erano soliti essere una volta gli lp di malcelata memoria! Profondamente intensa e bella la foto di copertina.

A Varese la Fiera del Disco e del Fumetto

di admin

11 novembre 2015

Pub. Varese novembre Late

Il tradizionale appuntamento con musica & comics si svolgerà sabato 14 e domenica 15

Anche Late sarà presente con il suo banchetto.

NON MANCATE!

THE PIEDMONT BROTHERS BAND – Compass And Maps/A Piedmont Christmas

di Paolo Crazy Carnevale

9 novembre 2015

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THE PIEDMONT BROTHERS BAND
Compass And Maps (MRM/Appaloosa 2015)
A Piedmont Christmas (MRM/Appaloosa 2015)

Il 2015 è stato un anno intensissimo per Marco Zanzi e la sua Piedmont Brothers Band. Soprattutto perché per Marco è finito dannatamente troppo presto: lo scorso agosto la sua vita terrena è stata stroncata da un male incurabile che lo aveva colpito un paio di anni prima. Da quando aveva saputo della sua malattia, Marco aveva cercato di curarsi ma aveva anche vissuto ogni giorno come se fosse l’ultimo, cercando di fare tutto quello che gli girava per la testa a livello musicale, avviando progetti, suonando dal vivo, concretizzando e cercando di portare a termine più progetti possibile. Se il 2014 si era concluso con la pubblicazione di due suoi dischi solisti, il 2015 è cominciato all’insegna dello stesso spirito e della stessa volontà di fare: in poco più di sette mesi Marco è riuscito a concretizzare e portare a termine il tour al fianco di Greg Harris (di cui aspettiamo ora il testamento sonoro ufficiale), a pubblicare il nuovo disco della Piedmont Brothers Band e ad andare in tour con questa nel mese di luglio e a finire un disco di canzoni natalizie a cui stava lavorando da tempo e in cui credeva davvero parecchio.

Era una gran persona Marco Zanzi, non l’ho mai incontrato di persona ma tramite le chiacchierate telefoniche e negli scambi epistolari, oltre che a sentirmi accomunato a lui dalle passioni musicali, ho scoperto altre affinità, soprattutto per quanto concerne il lanciarsi a capofitto nei progetti credendoci fino in fondo.

Oltre ai ricordi, rimangono ora anche la ventina di brani (o poco più) disseminati nei due dischi pubblicati dalla Maremmana Records/Appaloosa tra luglio e ottobre. Il primo, “Compass & Maps” è per così dire quello con le canzoni nuove, “A Piedmont Christmas” è quello natalizio, come il titolo rivela fin da subito. La ricetta è quella che abbiamo apprezzato e conosciuto nei dischi precedenti del gruppo (cinque se la memoria non m’inganna) e nei due dischi solisti di Zanzi: una piacevole miscela di country rock – quello di matrice californiana/pedemontana (Colorado e dintorni, ma chiaramente anche le nostre Alpi e i monti Appalachi) – suonato con devozione alterando brani originali a belle riletture di classici e meno classici, d’autore e meno d’autore.

Con Zanzi impegnato tra chitarre, mandolini, banjo, pedal steel e il suo “fratello” musicale Ron Martin (del North Carolina) al canto, in un altalena di duetti con voci femminili angeliche (Cecilia Zanzi – figlia di Marco –, Jesse Furay Lynch, Katherine Kelly Walkzyc, Rossella Cellamaro) e vecchi padri fondatori del country-rock, come Richie Furay (Buffalo Springfield, Poco), Gene Parsons (Byrds), Patrick Shanahan (Rick Nelson Band, New Riders), Rick Roberts (Flying Burrito Brothers), Doug Rorrer.

Rispetto ai dischi precedenti, “Compasses & Maps” ha una preponderanza di cover, avvisaglia forse della malattia di Marco – che per altro i suoi brani nuovi li aveva però convogliati nei due dischi solisti –, eppure il disco scorre bene, Ron Martin canta quasi più ispirato del solito e le sonorità sono sempre più curate. Merito di certo degli altri Piedmont Brothers, quelli di cui si parla meno ma che fin dal primo disco fanno parte del progetto di Martin e Zanzi: da Mike Gallivan oltreoceano ai nostrani Francesco Fugiuele, Alessandro Grisostolo, Manuel Corato, Anna Satta, Chiara Conti, Franco Svanoni…

Il disco si apre con la bella “Message From Michael” con un grande intervento di Gene Parsons alla pedal steel e alla voce, e ugualmente bella è la title track, composta da Ron Martin che qui canta con la figlia di Zanzi. Altrettanto convincente “She Blew This Place” scritta in coabitazione dai due leader. Per il resto il disco ci offre l’occasione di riascoltare classici intramontabili come “Tequila Sunrise” al femminile, “Indian Summer”, le classicissime “Sweet Baby James” (qui riletta in chiave irish), “It Doesn’t Matter” (reinventata alla grande) e “Teach Your Children” ma anche la meno nota e bellissima “Pick Me Up On Your Way Down” di Harlan Howard e una toccante, pianistica e intramontabile “Here Without You” dell’imprescindibile Gene Clark, tanto distante dalla spiritualità di Marco Zanzi quanto amato profondamente dallo stesso.

Il disco di canzoni natalizie ci riserva ulteriori sorprese, innanzitutto la metà dei brani porta la firma di Zanzi o Martin, poi non ci sono le canzoni di Natale ultra sentite e sfruttate, i nostri sono riusciti a mettere insieme una bella carrellata di brani meno noti, quando non originali, tutti in tema. Ascoltate gli attacchi strumentali di “Christmastime In The Blue Ridge” (firmata da Martin) o “Back Home (On Christmas Eve)” e vi stupirete del fatto che le registrazioni sono state fatte all’ombra del varesino monte Golico e non nel Kentucky dell’erba blu. E che dire di “Colorado Christmas” con la voce solista dell’amico e reverendo Richie Furay? È un disco che si ascolta tutto d’un fiato, con piacere per la musica, ed una lacrima che ci solca le guance pensando al fatto che Marco non c’è più.

Ma a suo nome aspettiamo ancora almeno il live condiviso con Greg Harris, la cui pre-produzione, ascoltata in anteprima, promette davvero bene, per non dire benissimo.

ALISON BROWN – The Songs Of The Banjo

di Ronald Stancanelli

9 novembre 2015

ALISON BROWN

ALISON BROWN
The Songs Of The Banjo
COMPASS Records 2015

Alison Brown, cantautrice e banjoista e precedentemente componente del gruppo degli Union Station ha preso ispirazione per il titolo di questo suo nuovo album da una poesia di Rudyard Kipling del 1894 chiamata appunto The Song of the Banjo. Vari ospiti, tra cui Amy Ray delle Indigo Girls, Rob Ickes al dobro, il batterista Steve Gadd, il violinista Stuart Duncan, il chitarrista John Doyle, il bassista Todd Phillips e ben tre pianisti affiancano la bionda musicista in questo album mediamente piacevole come sottofondo ma nulla più. Senza scomodare nomi altisonanti se abbiamo voglia di ascoltare un buon banjo un nome come Larry Mc Neely ci può soddisfare pienamente. Se invece consideriamo questo lavoro, a differenza del titolo, non un album banjo oriented ma bensì un disco misto di strumentazioni varie con aggiunte di voci qua e la forse possiamo considerarlo con più ponderazione e magnanimità. Ciò non toglie che la sua durata di quasi un’ora non ci porti alfine a sentirci un po’ stressati dal tedio e che la ripresa di I’ll never fall in Love again con tal Colin Hay ci poteva tranquillamente essere risparmiata. Bella invece la bonus track – che troviamo nella versione deluxe del cd – ovvero What’s going on di Marvin Gaye nella quale la bionda fanciulla e uno dei tre pianisti sono coadiuvati da un eccellente Keb’ Mo. Per il resto e qui forse ci ripetiamo una copertina peraltro piacevole ma fuorviante tutta imperniata, foto e titolo sul banjo, ci propone poi un cd con cover varie tra cui una anche piacevole pur se trascurabile, ma decisamente migliore del pezzo di Bacharach, Time After Time della Lauper e poi un po’ di pop mescolato a sonorità celtiche, pennellate di bossanova, spruzzate di swing, attimi jazzati, tappeti di tastiere, insomma troppa carne sul fuoco che in più punti sa di bruciato!

AA.VV. – Silver Lining

di Ronald Stancanelli

3 novembre 2015

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Nel novembre dello scorso anno fui invitato da John Strada, valido cantautore emiliano,  in quel di Rovereto sul Secchia ove  Carrie Rodriguez e Luke Jacobs avrebbero fatto un concerto nello  studio di registrazione Music Inside di Daniele Andinetti,  che sarebbe stato registrato per estrapolarne poi un paio di pezzi  per un cd benefico di artisti vari  i cui proventi sarebbero serviti per persone colpite dal terremoto avvenuto in quelle zone il 20 maggio del 2012.

Tralasciando le tragiche note inerenti quel terremoto che purtroppo tutti abbiamo direttamente o indirettamente vissuto ci soffermiamo su questa meritoria operazione che al di la dell’alto valore artistico è cosa decisamente nobile e degna di lode, lo stesso Andinetti perse in quel tremendo frangente  la sua abitazione e lo studio stesso, che ha una piccola stanza con tanto di palco per le esibizioni live,  ebbe notevoli danni.

Il titolo del disco ovvero Silver Lining deriva da un’espressione anglosassone  Every cloud has a Silver lining che pressappoco vuol dire che Ogni nuvola ha il suo lato positivo! Di questi tredici brani non possiamo non citare in primis visto che eravamo presenti sia She aint’ che la strepitosa  Church Bells,  che in coppia  la Rodriguez e Jacobs propongono con grande bravura e profonda passionalità.

Ricordiamo che la splendida musicista texana  vanta nel suo curriculum una manciata di eccellenti album e in alcuni è coadiuvata appunto dal Jacobs che l’accompagna con la chitarra oltre che alla voce. Due perle che rendono appetibilissimo questo cd e non solo per il nobile scopo per il quale è stato concepito. Vari artisti che si sono esibiti al Buscadero Day di luglio sono presenti a questa compilation e ci teniamo a citarli poiché autori nel festival buscaderiano di eccellenti performance che ci hanno entusiasmato e qua presenti con brani di alto valore professionale e agonistico. Due brani per la sorpresa di questo festival, lo svedese Ricard Lindgren autore di un’ora di grande musica che grazie all’apporto della sua fantastica band è stata probabilmente il punto più alto della manifestazione anche se il più atteso era James McMurtry che invece ha un po’ deluso con uno show alquanto monotematico penalizzato dalla mancanza di un’adeguata band di supporto.

Qua Lindgren è presente assieme a Riccardo Maccabruni e Marco Rovino con la toccante Sundown on a Lemontree, che è anche il titolo del suo ultimo cd, e la solare versione da Cohen di Famous Blue Raincoat con una splendida fisarmonica che la rende impedibile. Andrea Parodi che è stato il perno e il cardine del Festival in questione propone con Bocephus King, che è stato invece sicuramente l’anima allegra delle due serate con il suo entusiasmo e la sua splendida disponibilità, grandioso quando in una situazione di disagio creatasi nello show di Bobo Rondelli ha magicamente preso in mano la situazione, una fantastica e dolcissima dylaniana Baby Blue con strofe alternativamente in italiano e inglese, un piccolo masterpiece.

Il tostissimo John Strada assieme ancora al poliedrico Bocephus King ci regala una boccheggiante e solida Dust and Bloods, traduzione della sua Sangue e polvere dall’ultimo album dell’anno scorso Meticcio mentre Jono Manson che fu strepitoso assieme ai Brothers Keeper in questo contesto live propone una Silver Lining, che da poi il titolo alla raccolta, voce e chitarra molto pregna di pathos.   Inoltre rammentiamo con squisito piacere Michael McDermott che  qui regala due pezzi, So I am, dal disco Hey La Hey del 2009   eseguito alla chitarra e il secondo al piano dal titolo Ever After tratto dal cd del 2012 Hit me Back, entrambi piacevolmente affascinanti. Straordinari i redivivi Gang con la fisarmonica di Garth Hudson della Band e il violino di Jason Crosby in Ottavo chilometro dal loro recentissimo album, Sangue e cenere che consigliamo spassionatamente. Infine Mark Olson che propone dal suo album del 1992  Hollywood Town Hall assieme al suo gruppo dei Jayhawks una  straordinaria acustica Two Angels, gruppo che ricordiamo accompagnò Joe Henry in uno dei dischi più belli di quel periodo, l’indimenticato Short Man’s Room.

Chiudono questo splendido cd assolutamente da avere nella propria raccolta di supporti musicali due dolci fanciulle canadesi ovvero Skye Wallace e Miss Quincy in due pezzi dalle rudi e granitiche fattezze, Rumbling Soul e Baby the Should. Album strepitoso, intenti nobilissimi. Tutti i pezzi registrati nel Music Inside Studio eccetto Baby Blue inciso in quel di Como e Ottavo km regalata dai Gang in versione inedita diversa dal disco. Cercatelo assolutamente, farete un regalo a voi stessi e darete un piccolo aiuto a chi da cotanta forza della natura fu colpito. Appaloosa records distribuito da IRD. Perfetta e intensa nella sua drammaticità la copertina.

THE NEW BASEMENT TAPES – Lost On The River

di Paolo Crazy Carnevale

2 novembre 2015

new basement tapes

THE NEW BASEMENT TAPES
Lost On The River
(Harvest 2014)

Una doverosa premessa: non sono un grande estimatore dei dischi prodotti da T-Bone Burnett. Secondo me, ma ammetto che potrebbe essere un mio limite, suonano tutti uguali (con l’eccezione della colonna sonora del film dei fratelli Coen “Fratello dove si?”). Più o meno. Tanto meno mi piace come cantante e non ho mai apprezzato nemmeno la tanto esaltata Alpha Band di cui faceva parte con Steven Soles e David Mansfield.

Ciò detto vi sarà chiaro perché al momento dell’uscita di questo disco ho storto il naso. Di per sé mi pareva che l’operazione fosse un po’ studiata a tavolino per sfruttare il vento in poppa del “Bootleg Series vol.11”, dedicato ai Basement Tapes dylaniani, comunque alla fine mi sono lasciato tentare, ho aspettato che i prezzi calassero e ho comprato questo disco, che tra l’altro ha anche una bruttissima copertina.

Devo dire che a lungo andare, ascolto dopo ascolto lo trovo buono, meglio della prima volta che l’ho ascoltato – ammetto, distrattamente – in mp3. Ma l’mp3 è un palliativo.

Ero perplesso anche dalla scelta di cantanti: Costello mi piace a piccole dosi, idem Jim James, la Giddens così così, meglio Taylor Goldsmith, Mumford and Sons non mi entusiasmano proprio.

Presi insieme e mescolati come avviene in questo disco, sembrano però funzionare tutti meglio del previsto. E mi sembra che i suoni che alla fine siano ben riusciti, intriganti, con atmosfere folkie e siringate di rock e talvolta gospel, belle incursioni acustiche e anche lancinanti interventi elettrici.

L’idea di base sono alcune liriche riemerse miracolosamente da chissà quale baule, scritte da Bob Dylan nel periodo in cui se ne stava chiuso a Big Pink a cazzeggiare meravigliosamente con Robertson, Danko e soci: liriche che sono state affidate ai suddetti artisti e di conseguenza musicate, poi dal cappello a cilindro in cui le canzoni sono state infilate la produzione ha estratto quelle finite nel CD in questione, talvolta in versioni differenti, ossia con lo stesso brano musicato dall’uno o dall’altro, tipo la title track, presente in due versioni, la prima musicata da Costello e la seconda dalla Giddens e Mumford, e in entrambi i casi con un bel risultato.

I titoli inclusi nel disco sono venti (tre quelli ripetuti, anche se uno in realtà con titoli diversi), e proprio questi brani ripetuti fanno intuire come le liriche dylaniane fossero solo una specie di canovaccio su cui i cinque cantanti hanno operato anche a livello di testo e non solo musicale, in particolare Six Months in Kansas City (o Liberty Street) che evidenzia diverse differenze liriche tra la versione musicata da Costello e quella da Taylor Goldsmith (dei californiani Dawes). L’altro brano “doppio” è Hidee Hidee Ho, che non mi entusiasma in nessuna delle due versioni, a differenza degli altri due. Come non sono certo entusiasmanti il brano d’apertura del disco, Down On The Bottom e quello che lo segue Married To My Hack. Di tutt’altro spessore è invece Kansas City (nulla a che vedere col brano citato prima, Six Months in Kansas City), musicato da Goldsmith e Mumford, con Johnny Depp ospite e con una chitarra elettrica da urlo. Spanish Mary con la musica di Rihannon Giddens (dei Carolina Chocolate Drops) sembra abbia rubato parte della melodia alla tradizionale Gipsy Davy, mentre Nothing To It musicata da Jim James (My Morning Jacket) è forse il brano che richiama maggiormente alla mente il sound di The Band, o meglio certe composizioni scritte da Dylan con i membri del gruppo in occasione delle session in cantina. Tra le cose migliori metterei anche Card Shark, Diamond Ring, The Whistle Is Blowing e Duncan And Jimmy. Un risultato non male per un disco, forse un po’ troppo lungo, nei cui confronti ero partito assai prevenuto.