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MICHAEL McDERMOTT – What In The World…

di Paolo Crazy Carnevale

31 luglio 2020

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Michael McDermott – What In The World… (Appaloosa/Pauper Sky/IRD 2020)

Sembra inarrestabile il flusso d’ispirazione di Michael McDermott, non passa anno che il musicista di Chicago non lasci la sua zampata nel mondo delle sette note, che si tratti di lavori a proprio nome o come leader dei Westies, che poi sarebbe la stessa cosa, visto che a conti fatti i musicisti coinvolti sono in pratica gli stessi e anche la produzione sonora non si discosta.

Va da sé che a lungo andare, per quanto si tratti sempre di dischi di buon livello, la cosa si fa un attimo monotona: il copione è abbastanza fedele, canzoni di stampo rock robusto e ballate a cavallo tra folk e rock, sempre corredate da testi molto pregni di storie cupe e introspezioni sul proprio percorso umano e musicale, talvolta attraversate da momenti di buio pessimismo, tal altra più serene o quantomeno illuminate da bagliori di speranza.

McDermott è soprattutto un grande raccontatore di storie, storie di gente comune, di gente disperata se non addirittura perduta: va da sé che i temi forti sono sempre il proprio vissuto, la caduta nelle dipendenze, il baratro toccato fino a grattare il fondo del barile, la riabilitazione, il ritorno alla vita, alla musica ovviamente, l’incontro con la moglie Heather Lynn Horton, musa e collaboratrice musicale in qualità di violinista, sia con i Westies che nei dischi solisti.

E va da sé anche che se cercate la novità, questo disco non fa per voi, a meno che siate digiuni delle ultime opere di Michael: perché What The World ripercorre le orme dei suoi predecessori, passo dopo passo, siano essi il più riuscito Willow Springs, il secondo album dei Westies, Out from Under o il recente Orphans, disco di outtakes dei precedenti lavori.

In particolare nei testi (ma in maniera più oscura) e nelle musiche dei brani più intimisti, McDermott sembra più orientato verso certe cose dello Springsteen anni ottanta e novanta: le storie di personaggi come quelle dei protagonisti New York, Texas, di Veils Of Veronica o come la barista dagli occhi blu ricordano da vicino quelle dei personaggi delle canzoni di Bruce, solo attualizzate dalla presenza di temi come il disturbo da stress post traumatico dei reduci di guerra (nel senso che il termine è diventato tristemente di moda negli ultimi anni).

In certi momenti, soprattutto nei pezzi meno elettrici fanno capolino anche riferimenti al folk irlandese, ma personalmente trovo più avvincente il McDermott elettrico della title track, o di Mother Emmanuel e The Thing You Want: il suono corposo è opera di Lex Price, bassista e coproduttore, dalle chitarre di Will Kimbrough e dalle tastiere di John Deaderick, mentre alla batteria si alternano Steven Gillis e Fred Elthringham.

What in The World…, che intitola il disco è particolarmente felice nella sua sostanza rockettara che non fatichiamo a ricollegare al miglior Tom Petty (ma curiosamente come bonus track vi è incluso il demo acustico che invece suona più come certe cose del coguaro dell’Indiana): è un ottimo brano che rende merito ad un testo molto politicizzato, come se McDermott volesse dare la sveglia al suo paese nell’anno delle elezioni! Molto elettrica, anche se molto più lenta è la stoffa di Veils Of Veronica, altro punto di forza del disco. E ancora fa spicco Mother Emanuel, rock urbano dal tessuto sonoro a cavallo tra Asbury Park e il nervosismo di certo Lou Reed, e anche qui il testo sembra di particolare attualità, all’indomani dei recenti fatti di sangue che durante il nostro lockdown hanno funestato gli Stati Uniti, non fosse che il brano è stato registrato prima.
Come nel disco precedente, anche qui McDermott chiude all’insegna della speranza con un paio di canzoni più introspettive, più personali: l’invito a non abbandonarsi di No Matter What e l’omaggio alla moglie di Until I Found You. Il disco termina – prima della bonus track – con Positively Central Park, ballata alla Springsteen in cui si fa riferimento alle problematiche dei nativi.

Come sempre sono sempre molto gradite le trascrizioni e traduzioni dei testi a cui l’Appaloosa ci ha abituati da tempo!

MICHAEL McDERMOTT – Orphans

di Paolo Crazy Carnevale

3 giugno 2019

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MICHAEL McDERMOTT – Orphans (Appaloosa/IRD 2019)

Il prolifico McDermott sembra ormai un fiume in piena: la sua vena compositiva è talmente ricca che dalla stesura di Willow Springs (2016) e di Out From Under (2018) sono rimasti nei cassetti abbastanza brani da mettere insieme un terzo disco, pubblicato dall’Appaloosa lo scorso febbraio.

Questo nuovo disco si compone di ben dodici brani che erano rimasti fuori dalle precedenti pubblicazioni, tutti brani comunque all’altezza della situazione, debitori come sempre a certe sonorità molto legate a Springsteen e ai suoi accoliti, siano essi Miami Steve o Johnny Lyons, brani sempre caratterizzati da liriche torrenziali, magari non lunghissimi come ci aveva abituati in passato, ma sempre intriganti, sia quando a dominare sono le atmosfere elettriche sia quando Michael si rintana in preziose nicchie acustiche con appena una spruzzata di tastiere e sezione ritmica in punta di piedi (Never Do Well, Black Tree Blue Sky e Los Angeles A Lifetime Ago, quest’ultima tra le più riuscite a livello lirico).

Rispetto ai dischi precedenti e a quello con i Westies (di fatto un disco di McDermott a tutti gli effetti) i testi sono più introspettivi, riflessivi, mancano le tragiche ballate da storyteller quale siamo avvezzi a conoscerlo, quelle storie drammatiche ed intense: qui spiccano canzoni d’amore e brani velati da un tiepido ottimismo, di speranza, così come era accaduto nel disco dello scorso anno. Con timide eccezioni, come Sometimes When It Rains In Memphis, una delle canzoni più riuscite del disco.

Tra i brani che emergono va ricordata anche l’incalzante Givin’ Up The Ghost con il controcanto della consorte Heather Lynn Horton (presente anche altrove, come backing vocalist e violinista), The Wrong Side Of Town (forse però troppo simile a Dancin’ In The Dark, pur non essendo così spudoratamente commerciale ed infausta nelle sonorità), Richmond (dal buon break strumentale nel mezzo).

Se la copertina non è particolarmente invitante (un disegno della figlia Rain), la confezione è comunque ben curata e come da tradizione apprezzatissima l’Appaloosa Records ci mette i testi con tanto di traduzione. Le note di copertina sono invece abbastanza latitanti, giusto i nomi dei musicisti, senza gli strumenti: ci sono i fedelissimi Will Kimbrough (strumenti a corda), il bassista Lex Price, John Dederick (tastiere), Steven Gills (batteria).

MICHAEL McDERMOTT – Out From Under

di Paolo Crazy Carnevale

15 aprile 2019

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Michael McDermott – Out From Under (Appaloosa/Pauper Sky 2018)

A tamburo battente. Michael McDermott non cede di un centimetro, di cose da dire deve averne tante e uscito dalle sue varie dipendenze, rinato artisticamente pare avere l’urgenza di pubblicare senza troppi indugi tutto quello che sta uscendo dalla sua penna e dalla sua chitarra. Mentre sto scrivendo queste righe sul disco uscito lo scorso anno ne è già nei negozi uno nuovo. Tutti pubblicati dalla sua etichetta personale, Pauper Sky, titolo di un’ottima canzone incisa con i Westies (il progetto parallelo alla carriera solista) nonché nome dello studio chicagoano di casa sua, e in esclusiva per l’Europa per l’Appaloosa.

Questo Out From Under conferma il buono stato di salute di McDermott, undici tracce con storie di America profonda, quella delle lunghe strade perse nel nulla con stazioni di servizio che ricordano quelle viste in decine di film, dal bogartiano La foresta pietrificata in poi, ma anche le periferie più degradate e povere. McDermott, accompagnato dai soliti fedeli amici (dalla violinista Heather Lynne Horton al tastierista John Deaderick e al polistrumentista Will Kimbrough), fin dalla prima traccia lascia subito segni graffianti: Cal-Sag Road si apre con atmosfere desertiche, quasi fosse la colonna sonora di un film commentato musicalmente da Ry Cooder, con un testo che è un film a sua volta, un po’ pulp, un po’ hard boiled, coinvolgente; tanto quanto la successiva e acustica Gotta Go To Work, altro drammatico ritratto di quell’America lontana dai lustrini e dai sorrisi patinati, una storia da classe operaia incazzata. La stessa America cantata, sempre senza mezzi termini in Knocked Down un talking rock dalle inflessioni dylaniane con implicazioni sicuramente autobiografiche che raccontano il fondo toccato nei momenti più bui.

Sad Songs racconta della voglia di scrivere storie più allegre, una voglia che rimane però tale, come dice il titolo stesso di questo brano che musicalmente è molto debitore alla scuola di Johnny Lyons, in arte Southside Johnny. Il pessimismo regna anche in This World Will Break Your Heart, ma nella title track ecco la svolta, la volontà di farcela è il tema conduttore di questa song dall’andamento quasi western in cui il protagonista (l’autore) si rivolge così alla propria amata: “Svegliami da questo torpore crudele e insensato, per vivere una vita di amore, luce e stupore, oh so che un giorno riemergeremo”.

Celtic Sea, sembra la prosecuzione del brano precedente, con i due amanti che davvero ce la fanno, sulle note di una chitarra acustica che poi esplode in un arrangiamento più corposo, con le tastiere ben calibrate ed un sound che continua ad aggirarsi dalle parti di Asbury Park. Più qualunque il testo della scanzonata (anche musicalmente) Rubber Band Ring, mentre Never Goin’ Down Again sembra voler ribadire il concetto che i tempi duri sono terminati, con un refrain che suona proprio come un inno. Sideways, è un altro lungo racconto che pare rifarsi all’autobiografia di McDermott, poi, in conclusione troviamo l’elegiaca invocazione di God Help Us, lenta, rarefatta, essenziale: una preghiera.

MICHAEL McDERMOTT – Willow Springs

di Paolo Crazy Carnevale

23 agosto 2016

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MICHAEL McDERMOTT – Willow Springs (Pauper Sky/Appaloosa 2016)

Devo dire che quando mi è giunto questo disco di Michael McDermott sono rimasto alquanto perplesso: avevo appena terminato di recensire il secondo disco dei Westies, la formazione con cui McDermott suona da un po’ di tempo e che di fatto è il suo gruppo, anche se la moglie Heater Horton si alterna a lui cantando di tanto in tanto. Scorrendo poi Ie note di copertina del disco mi era parso evidente che buona parte dei musicisti coinvolti in questo album da solo fossero quelli che suonavano anche nel disco di gruppo.

Al primo ascolto però ho capito quale fosse la differenza: questo è a tutti gli effetti un disco “solo”, sia per l’approccio più intimo in gran parte dei brani, sia per le tematiche affrontate dalle canzoni che sono molto più personali rispetto alle “storie” con personaggi incontrate nel disco dei Westies. Willow Springs è un gran bel disco, non che l’altro fosse brutto, ma questo ha qualche buona carta in più.

McDermott gioca in casa in tutti i sensi: il disco si intitola come il posto in cui è stato inciso e in cui McDermott vive, Willow Springs, Illinois, ed è pubblicato dalla sua etichetta personale, la Pauper Sky (che ha il nome di un brano dei Westies presente nel disco di qualche mese fa), e per finire è distribuito in Italia dall’Appaloosa che ne ha realizzato una curatissima edizione con un ricco booklet che oltre ai torrenziali testi, contiene anche la traduzione in italiano che aiuta non poco ad entrare nel mondo-McDermott.

Dodici brani che si incanalano nel genere rock d’autore all’americana, suonati bene, senza troppi fronzoli, belle chitarre, tastiere come si deve, qualche percussione, strumenti acustici a corda e quell’urgenza di mettersi a nudo attraverso liriche spesso crude e realistiche che sono il marchio di fabbrica del protagonista, un rocker dalla vita difficile, dal passato burrascoso ma dal presente infinitamente più sereno.

I riferimenti sono chiarissimi, se nei primi due brani si sente molto il Dylan stile Blood On The Tracks (ascoltate in apertura la title track, dal testo lunghissimo e infarcito di immagini che si susseguono suggerendo un’infinità di soluzioni, oppure la successiva These Last Few Days), proseguendo con l’ascolto però salta fuori prepotentemente Bruce Springsteen quello a cavallo tra The River e Nebraska: Getaway Car ne è un esempio lampante, gran canzone, a tutti gli effetti, come la seguente Soldiers Of The Same War con i controcanti azzeccati della Horton. Butterfly è un brano dall’incredibile drammaticità mentre con Half Empty Kinda Guy, con un drumming insistente ed una gran spolverata di simil-hammond, vira verso quel rock anelato in Folksinger (un paio di tracce dopo), nel cui testo il nostro dichiara di non voler essere più un folksinger appunto, e di non voler essere più cristiano, né un becchino, né un soldato, il tutto espresso con quella voce che ondeggia tra quella del boss più rilassato e quella del vetusto rocker Elliott Murphy, sicuramente un altro punto di riferimento incrollabile del suo modo di fare musica.

E se fin qui tutto va bene, il disco va verso la chiusura con quattro brani ancora migliori: Let A little Light In è una botta di positivismo, appena smorzata dalla triste ma bella Shadow In The Window ispirata dalla morte del padre (come la finale What Dreams May Come), seguita dal brano che mi piace maggiormente, quella Willie Rain che è un’autentica dichiarazione d’amore da parte di McDermott per la figlia.