Archivio di novembre 2014

A Natale siamo tutti più vinilici!

di admin

27 novembre 2014

Late Vinilmania Natale

Il Natale si avvicina e il cuore si riempie di gioia. E, comunque, sarebbe anche ora di farci un bel regalo: c’è qualcosa di meglio di un sano e balsamico vinile?

Per tutti coloro i quali credono ancora nella musicale magia del Natale c’è la WINTER EDITION di VINILMANIA. Tutti i dettagli nella locandina: si parcheggia gratis, si entra gratis… che cosa volete di più, dal Natale? Come al solito, ci vediamo là.

MASSIMO PRIVIERO – Sulla Strada

di Gianfranco Vialetto

25 novembre 2014

priviero cover

MASSIMO PRIVIERO
Sulla Strada
2009 Universal

Massimo Priviero, veneto di Iesolo, località balneare in provincia di Venezia, classe 1962 può essere a ragione considerato come il più valido candidato all’appellativo di Springsteen italiano.
Teoria avvalorata anche dal fatto che il suo secondo album, Nessuna Resa Mai del 1990 vanta la prestigiosa firma alla produzione di Little Steven.
Questo Sulla Strada del 2009 è un “best of” con inediti in cui i brani selezionati vengono però reincisi per l’occasione dalla band di Massimo (voce, chitarra acustica ed armonica) che comprende l’ottimo Alex Cambise alle chitarre e mandolino, il bravissimo Onofrio Laviola alle tastiere (il suo Roy Bittan), la sezione ritmica formata da Mauro Piu al basso ed i batteristi Giovanni Massari e Fabrizio Mele, con la ciliegina sulla torta del violino di Michele Gazich.
Tutti gli album di Priviero sono rappresentati da qualche brano a testimoniare la bontà del percorso artistico del cantautore/rocker veneziano di nascita ma ormai da vari anni milanese di adozione.
Difficile scegliere un brano piuttosto che un altro. Sono tutti bellissimi.
Certo canzoni come Diluvio, Nessuna Resa Mai, Dolce Resistenza (la sua Born To Run) e gli intrecci fra piano ed organo in Bambina Di Strada sono springsteeniane fino al midollo, e pure Fragole A Milano, da applausi, poesia pura, pare provenire dai momenti più notturni dei primi anni dell’uomo del New Jersey, con lo struggente violino del sempre fenomenale Michele Gazich a ricoprire il ruolo che al di là dell’oceano sarebbe stato del sax di Big Man.
Una menzione a parte la meritano le commoventi Nikolajevka e La Strada Del Davai ispirate alla tragica ritirata dal fronte russo dell’esercito italiano nei primi mesi del 1943 durante la Seconda Guerra Mondiale. E per chi volesse approfondire le proprie conoscenze su questa triste pagina della nostra Storia consiglio la lettura di libri come Nikolajevka C’Ero Anch’Io, raccolta di testimonianze di alcuni reduci (fra questi anche uno mio zio paterno) curata da Giulio Bedeschi e, sempre di Bedeschi, Centomila Gavette Di Ghiaccio. Oppure i racconti di un altro veneto, però di montagna (Asiago), Mario Rigoni Stern, ad esempio Il Sergente Nella Neve, o di Nuto Revelli.
Del resto Massimo può parlare di questi fatti con cognizione di causa, sia in virtù della sua laurea in Storia Contemporanea, sia perché alcuni suoi zii hanno combattuto durante la guerra.
Vorrei chiudere con una considerazione. Ligabue è quasi coetaneo di Massimo Priviero, per la precisione due anni più vecchio, ed il suo debutto discografico è venuto addirittura un anno dopo. Ora, io non ho nulla contro il Luciano nazionale, anzi, ma francamente non capisco perché lui abbia avuto tutto questo successo mentre Massimo no. Forse dipende da quel bel faccione con mascella volitiva che tanto piace alle donne, o dal saper vendere meglio il proprio prodotto, inteso anche e soprattutto come immagine; il fatto è che Priviero meriterebbe senza dubbio la stessa fama, se non di più.
Noi, nel nostro piccolo, possiamo solo acquistare ed ascoltare i suoi dischi, facendoli conoscere al maggior numero di persone possibili. Magari iniziando proprio da questo Sulla Strada.

PUSS’N'BOOTS – No Fools, No Fun

di Paolo Crazy Carnevale

23 novembre 2014

puss'n'boots

PUSS’N’BOOTS
No Fools, No Fun
(Blue Note 2014)

Talvolta, per fortuna, capitano tra capo e collo dei dischetti come questo: semplice, senza pretese, quasi fatto in casa – nonostante la presenza di una soggetta della portata di Norah Jones, che, detto per inciso piace molto di più quando si lancia in questi progetti che non quando fa la cantante un po’ laccata e di cassetta – ma al tempo stesso fresco, godibile, onesto. Mi piacciono già dal nome queste Puss’n’Boots, non hanno il phisique du rôle aggressivo delle Pistol Annies o l’esperienza artistica del Trio di Emmylou Harris, Linda Ronstadt e Dolly Parton, ma il loro debutto, per quanto casuale nel suo assemblaggio, è un disco che va bene per ogni occasione, sia che si voglia avere della musica da viaggio, da canticchiare sotto la doccia o più normalmente della musica da ascoltare con attenzione.
Musica americana nella più classica accezione del termine, piedi ben piantati in certe radici ma anche composizioni originali tutt’altro che disprezzabili. E ve lo dice uno che i dischi al femminile li apprezza a piccole dosi e, anzi, solitamente storce il naso al cospetto del proliferare di cantanti donne.
Non solo, queste tre signore oltre a cantarsi le canzoni, in buona parte a scriversele, se le suonano anche. Dalle note di copertina – bella confezione in cartoncino con appunti essenziali –apprendiamo infatti che oltre a loro non c’è assolutamente nessun altro a suonare, la Jones oltre che a cantare s’impegna anche con l’elettrica ed il violino, Sasha Dobson canta, suona l’acustica, il basso e la batteria, Catherine Popper canta e suona basso e chitarra acustica. E tutto fa supporre che il trio si sia occupato anche della produzione.
Dodici brani di varia ispirazione, tre incisi dal vivo e gli altri in studio, qualche cover scelta con attenzione, un colpo di frullatore e via, il disco è servito: si inizia con Leaving London di Tom Paxton e Bull Rider di Rodney Crowell, belle, ma il disco decolla con Twilight, una cover tratta dal tardo repertorio di The Band, qui proposta in punta di piedi, con grande rispetto per l’originale, ma al tempo stesso con creatività. Molto convincente il primo originale del disco, firmato dalla Dobson, il cui titolo ironico è Sex Degrees Of Separation, ancor meglio il successivo, Don’t Know What It Means della Jones, che qui sembra quasi un’emula dei Lone Justice prima maniera. Dal repertorio di Neil Young c’è una bella versione live di Down By The River, azzeccatissima, non sarà un caso se il canadese le ha volute all’ultimo Bridge Benefit lo scorso ottobre.
Tarnished Love, sempre dal vivo, è forse il brano più roots del disco, con una chitarra baritonale. Dal repertorio dei Wilco viene pescata Jesus Etc. e mi sento di dire che la voce della Jones rende onore al brano (ammetto di non sopportare Jeff Tweedy, non abbiatevene a male). A firma della Popper arriva Always, il meno interessante dei brani originali, GTO è invece di Jeb Loy Nichols e non è particolarmente interessante. A chiudere il disco gli ultimi due brani originali, Pines, ancora della Popper, dall’arrangiamento minimale a base di chitarra pizzicata e violino, e You’ll Forget Me che conferma l’ottima vena d’autrice di Sasha Dobson, una sorta di slow swing roots, se il termine può rendere l’idea di un brano dalle fumose atmosfere da jazz club suonato però con una chitarra in bilico tra fuoco di bivacco e inflessioni baritonali di tutt’altra natura.
Provate ad ascoltarlo questo disco, senza chiedergli niente, vedrete che sarà lui a darvi…

MORAINE – Groundswell

di Paolo Crazy Carnevale

21 novembre 2014

moraine

MORAINE
Groundswell
(Moonjune 2014)

Moraine è una delle varie formazioni che orbitano intorno al chitarrista di Seattle Dennis Rea, raffinato e intraprendente alfiere di un jazz rock in continua evoluzione, sempre proiettato verso differenti forme di esplorazione del mondo sonoro.
I Moraine, oggi un quintetto che Rea guida insieme alla violinista Alicia DeJoie, erano il gruppo più orientato verso il rock strumentale con cui Rea suonasse (con gli Iron Kim Style infatti si battevano i territori di caccia del Miles Davis elettrico, con il disco solista di Rea affioravano elementi orientali e ulteriori altre esplorazioni musicali sono quelle come chitarrista della Jim Cutler Jazz Orchestra). Con questo terzo lavoro, che arriva dopo l’ottimo live di qualche anno fa, Metamorphic Rock, la direzione cambia, e, per gusto mio, non necessariamente in meglio.
Il nuovo lavoro, si spinge oltre l’art-rock strumentale che si era apprezzato nei due dischi precedenti, i Moraine decidono qui di sfruttare al massimo le possibilità del lavoro in studio, allineando una serie di brani molto complessi, strutturati rigorosamente, non esenti da dissonanze volute, forse eccessive. Le note di accompagnamento del disco parlano di “dramatic sonic experience with plenty of surprises” e credo non servano traduzioni.
Il risultato però non convince appieno, se da un lato, tra le dieci tracce del disco, emergono interessanti spunti come Fountain Of Euthanasia, The Okanogan Lob, Spiritual Gatecrasher, brani spesso ottimi che rispondono alle aspettative dell’ascoltatore avvezzo al sound del gruppo, in altri casi i suoni sembrano andare troppo per conto loro, come se il quintetto (che si completa col sassofonista James DeJoie, il bassista Kevin Millard ed il batterista Tom Zgonc) avesse l’urgenza di dimostrare qualcos’altro, al di là dell’assodata bravura che gli conosciamo.

FABRIZIO POGGI & CHICKEN MAMBO – Spaghetti Juke Joint

di Paolo Crazy Carnevale

19 novembre 2014

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FABRIZIO POGGI & CHICKEN MAMBO
Spaghetti Juke Joint
(Appaloosa 2014)

Oltre vent’anni di attività alle spalle e una dozzina di dischi non sono pochi per una formazione italiana che opera nell’ambito della musica d’oltreoceano, tanto più con riconoscimenti di riguardo da parte dei musicisti a cui Fabrizio Poggi e soci si ispirano. Gli apprezzamenti sono evidenti scorrendo le note di copertina dei loro dischi, spesso ricchi di guest star, texane o chicagoane che siano, da Jerry Jeff Walker a Garth Hudson a Zachary Richard fino agli ospiti che si uniscono ai Chicken Mambo in questo nuovo disco tematico.
L’idea di base è quella che gli immigrati italiani di fine ottocento – andati a raccogliere cotone in luogo degli afroamericani che con la schiavitù ormai abolita se ne erano andati a cercare occupazione e fortuna nel nord industriale – possano aver avuto qualche implicazione col blues che usciva dalle juke joint in cui trascorrevano il tempo libero i neri che erano rimasti a lavorare nei campi di cotone del Mississippi. E chissà, magari uno di loro potrebbe aver gestito una di queste juke joint il cui nome avrebbe potuto essere proprio quello che suggerisce il titolo del CD di cui stiamo parlando.
Fabrizio Poggi ha sempre avuto un debole per gli album tematici e lo si evince in quasi tutta la sua produzione recente: la nuova fatica è tutta blues, un omaggio al blues considerato sia nelle radici rurali che nell’estensione urbana elettrica che nella seconda metà del novecento ha favorito la diffusione commerciale del genere. Da Slim Harpo a Little Milton a Sonny Boy Williamson (non dimentichiamo che Poggi oltre ad essere dotato di una voce molto soul è in primis un armonicista con i controfiocchi), passando per il Junior Parker di Mistery Train, il Tom Waits di Way Down In The Hole e l’immancabile B.B. King di Rock Me Baby, questo Spaghetti Juke Joint è una bella raccolta di classici del genere, con qualche brano a firma dello stesso Poggi, apprezzabili I Want My Baby e Devil At The Crossroad, più di routine e ripetitiva Mojo.
A rinforzare i Chicken Mambo ci sono le tastiere di Claudio Noseda, la voce di Sara Cappelletti e le chitarre americane di Sonny Landreth, Ronnie Earl e Bob Margolin.

MARBIN – The Third Set

di Paolo Crazy Carnevale

16 novembre 2014

marbin

MARBIN
The Third Set
(Moonjune Records 2014)

Terzo disco e terzo tripudio su etichetta Moonjune per il gruppo chicagoano facente capo a Dani Rabin – chitarrista israeliano – e Danny Markovitch – sassofonista – che unendo le proprie forze hanno dato vita ad una miscela sonora realmente interessante, oltre che esplosiva. In realtà la formazione, prima di accasarsi con la label di Leonardo Pavcovich, aveva realizzato un primo disco altrove, ma i tre dischi Moonjune sembrano voler costituire – per ora – una sorta di trittico, intuibile fin dal titolo di questo nuovo disco.
Il nuovo disco però, a differenza dei suoi predecessori, è un disco dal vivo, e i brani che contiene, per buona parte inediti, sono quelli che il gruppo ha suonato come “bis” (il terzo set del titolo va in realtà inteso in questo senso) nel corso di alcuni dei numerosi (quasi trecento all’anno) concerti tenuti nel tour del 2013. Una scelta originale, nonché curiosa, visto che gli unici brani già reperibili su disco sono Redline e Volta (tratti dal disco precedente) e Crystal Balls, dal disco d’esordio. La registrazione sul campo, di cui è responsabile il tecnico Caleb Willitz, rende molto bene il sound del quartetto (che si completa col basso di Jae Gentile e con la batteria di Justyn Lawrence) e testimonia l’atmosfera live trascinante con buona risposta da parte del pubblico degli States centrali – i concerti sono tutti tenuti in piccoli locali di Wisconsin, Iowa, Nebraska, Missouri e Kansas.
Naturalmente tutto si regge sul dualismo tra gli strumenti suonati dai due leader, che nella dimensione live acquistano uno spessore rock più consistente rispetto alle atmosfere di stampo fusion dei dischi di studio: la chitarra è aggressiva, potente, distorta quando deve esserlo, effettata in altri frangenti; il sax assume sempre più connotazioni di carattere klezmer o quanto meno yiddish, facendo della mescola musicale del gruppo qualcosa di estremamente originale oltre che, le due cose non vanno sempre di pari passo, fruibile.
Talvolta si captano certe urgenze frenetiche riconducibili ai King Crimson di brani come 21st Century Schizoid Man – si veda l’iniziale Special Olympics – talaltra è la sperimentazione a dettare legge (Volta, il brano finale), ma nel disco c’è respiro per tutto e Vanthrax, Splaw, Rabak, The Depot sono tutte nuove composizioni che fanno ben sperare per il futuro di questa formazione.

THE DOOBIE BROTHERS – Southbound

di admin

14 novembre 2014

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THE DOOBIE BROTHERS
Southbound
Arista Nashville 2014

Senza dubbio una operazione nostalgia questo Southbound, quattordicesimo lavoro in studio per The Doobie Brothers, band sparita dai radar della creatività da oltre trent’anni. L’age d’or della formazione californiana, infatti, è tutta racchiusa negli anni Settanta, quando, nel complicato equilibrio fra le diverse cifre stilistiche dei fondatori, Tom Johnston e Patrick Simmons, e di Michael McDonald, entrato in piena corsa nel 1975, la band modellò un irresistibile crossover tra rock, funk bianco e country. E proprio a quest’ultima anima si rivolge questo greatest hits, reinterpretato con la complicità di una dozzina abbondante di protagonisti, vecchi e nuovi, della scena country. Una operazione più di marketing che di sostanza, perché il tratto caratteristico della band, e soprattutto in questa carrellata di brani gloriosi come Jesus Is Just Allright, Long Train Running, China Grove, What A Fool Believes, Takin’ In To The Streets, solo per citarne alcuni, continua ad essere quella miscela di chitarre potenti e melodie irresistibili in continuo divenire tra le barriere di genere. Una operazione che funziona, soprattutto quando gli ospiti si limitano ad aggiungere la propria sensibilità di cantanti, duettando con i tre leader e lasciando alla band, oggi irrobustita da sessionmen impeccabili, il compito di far scorrere le canzoni. Tra le collaborazioni più intriganti, i duetti tra McDonald e Sara Evans in What A Fool Believes e, ancora meglio, con Amanda Sudano Ramirez l’erede, non solo naturale di Donna Summer in You Belong To Me, e la rielaborazione country di Black Water ad opera della Zac Brown Band. Il gusto dolce della nostalgia.

Mauro Eufrosini

CAT STEVENS/YUSUF – Tell ‘em I’m Gone

di admin

12 novembre 2014

yusuf

CAT STEVENS/YUSUF
Tell’Em I’m Gone
Legacy Recordings 2014

Cinque nuove canzoni, cinque cover scelte con cura, la stessa con la quale si è circondato di collaboratori d’eccezione, la produzione di Rubin. Così Cat Stevens/Yusuf si gioca il suo terzo lavoro dal ritorno alle scene di otto anni fa, un album nel quale tutto sembra tornare a nuova sintesi nella veste antica e, per lui non scontata, del blues. Nonostante la corposa presenza delle cover, alcune davvero ingombranti come You Are My Sunshine, lanciata nel mondo pop da Bing Crosby negli anni Trenta e da allora riletta decine di volte, Yusuf riesce, infatti, a trovare un equilibrio tra il suo passato e la sua nuova identità artistica, tra le proprie origini culturali e formative, e la ricerca di una faticosa universalità, sia pure rinchiusa nei codici dell’Occidente. E anche se non tutto funziona allo stesso modo nell’alternanza di acustico ed elettrico, questo suo quattordicesimo lavoro ha tutte le carte in regola per riconciliare i vecchi fan, che apprezzeranno la carezzevole e favolistica Cat & Dog Trap, l’elegiaca Dyin’ To Live (da Edgar Winter), il folk blues elegante dell’apertura I Was Raised In Babylon (con la chitarra di Richard Thompson), il pop di chiusura di Doors. Ma è nelle riletture degli standard più frequentati, la già citata You Are My Sunshine e la title track, un tradizionale caro a Leadbelly, nel tentativo di riportarle in Africa grazie alle voci dei Tinariwen, che Yusuf/Cat Stevens pare raggiungere la propria personale pacificazione.

Mauro Eufrosini

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