Archivio di dicembre 2018

JAY PINTO – Jay Pinto

di Paolo Crazy Carnevale

26 dicembre 2018

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JAY PINTO – Jay Pinto (Jaypintomusic 2017)

Nativo della costa orientale, di Boston per la precisione, Jay Pinto ha cercato fortuna artistica sulla West Coast, risalendola tutta partendo da sud fino a stabilirsi in quel di Seattle ed ha pubblicato sul finire del 2017 il suo terzo disco, escludendo quello registrato in seno alla band dei Bananafish).

L’atmosfera della città natale – una delle principali location per la musica dei cantautori d’ispirazione folkie negli anni novanta, complice l’essere attigua all’universitaria Cambridge, in cui come soleva dire il mio amico Patrick c’era da andare ad ascoltare musica del vivo otto sere per settimana (eight nights a week) – e il calore della California, terra d’elezione per molto cantautorato a stelle e strisce, hanno contribuito a forgiare lo stile musicale di Pinto, che con questo lavoro consegna ai posteri un piacevole dischetto, suonato quasi in punta di piedi, atmosfere acustiche con giusto un paio di chitarre, la sua voce, qualche coro, un’armonica dolce in stile Graham Nash.

Il risultato, pur non raccontando nulla di nuovo, è decisamente gradevole, dieci canzoni dalla struttura accattivante e funzionale. D’altra parte è difficile inventare qualcosa di nuovo in quest’ambito musicale e spesso si finisce con l’ascoltare nuovi cantautori davvero sonnacchiosi e senza brio. Pinto no.

Pinto propone qui canzoni scritte nel corso di una carriera pluridecennale visto che non è più un ragazzino: bella l’iniziale Stray e altrettanto si può dire della seguente Through The Eyes Of A Fisherman, appena più arrangiata è From Pineapple Avenue To Marginal Way, ballata particolarmente riuscita, ed è più ritmata Change Of Heart che in qualche passaggio ricorda vagamente Neil Young, ma la voce di Pinto gira totalmente altrove.

Da menzionare, almeno, ancora, Sad Jack.

BOB MALONE – Mojo Live

di Paolo Crazy Carnevale

26 dicembre 2018

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BOB MALONE – Mojo Live (Appaloosa/IRD 2018)

Bob Malone è un funambolo del pianoforte, le sue dita danzano letteralmente sui tasti: non c’è quindi da stupirsi che fior di musicisti di grido lo abbiano voluto nei loro dischi e nei loro tour: su tutti John Fogerty, della cui band Malone fa parte.

Non è però scontato che la bravura e la classe come strumentista vadano di pari passo con la capacità di scrivere canzoni in proprio e con l’essere in grado di sostenere una carriera solista agli stessi livelli dei colleghi che lo ingaggiano.

Questo è il problema di Malone e da questo live pubblicato recentemente su etichetta Appaloosa, i problemi emergono tutti. Innanzitutto, come molti turnisti, Malone ha il difetto di non saper dare un indirizzo preciso al proprio repertorio, cercando piuttosto di stupire con virtuosismi a buon mercato destinati ad un pubblico di bocca buona che si entusiasma con poco.

Sinceramente non mi capacito del fatto che un’etichetta che solitamente punta sulla qualità non scontata abbia potuto pubblicare un disco così così, ma non è il lavoro dell’etichetta che va qui giudicato, quanto piuttosto quello del Malone che, si passi il turpe gioco di parole, ne esce malino.

Seppure accompagnato da un gruppo solido, in questo live registrato tre anni fa a San Pedro, California, nell’ambito della promozione del quasi omonimo disco di studio, il tastierista sforna una quindicina di brani, quasi tutti autografi se si eccettuano una cover di Rod Stewart (Live With Me), abbastanza solida ma non certo competitiva, un accenno a Miles Davis all’interno di Toxic Love e She Moves Me di Muddy Waters.

Sezione ritmica imponente, due chitarre e addirittura tre coriste non bastano ad impedire lo strafare di Malone che sembra voler dominare a tutti i costi con mirabolanti interventi pianistici (il brano di Muddy Waters ne è la prova lampante) che suonano però vuoti nonostante la quantità incalcolabile di note sparate. Non c’è dubbio che l’effetto sortito sul pubblico sia positivo, nella lunghissima Ain’t What You Know, l’artista sembra crogiolarsi praticamente nei propri assoli con applausi a scena aperta di prammatica. Ma manca la sostanza, basterebbe un solo passaggio sulle tastiere delle mani di Chuck Leavell per cancellare tutto il concerto di Malone. Si va da ballate colorate di soul – ma la voce non è delle migliori e il soul vero non abuserebbe di assoli tanto lunghi e monotoni – al blues, a tinte più rockeggianti, ma nulla che faccia risvegliare dalla sonnacchiosa atmosfera in cui il disco fa precipitare. Peccato.

NEILSON HUBBARD – Cumberland

di Paolo Crazy Carnevale

16 dicembre 2018

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NEILSON HUBBARD – Cumberland Island (Appaloosa/IRD 2018)

È ormai un dato di fatto, i component del trio Orphan Brigade ha ampiamente trovato casa sotto l’egida dell’Appaloosa Records: due dischi di studio, uno dal vivo, per non dire dei dischi solisti dei componenti del gruppo, il tutto nel giro di due anni o poco più.

Se il valore del trio è indiscutibile (ed il recente disco dal vivo registrato a Osimo ne è la prova), forse la carne sul fuoco comincia ad essere un po’ troppa.

Personalmente avevo cominciato ad averne il sentore col disco di Ben Glover uscito la scorsa primavera, e questo solo album di Hubbard me lo conferma.

Nulla da dire riguardo all’accurata produzione (in regia ci sono proprio Hubbard e Glover), i suoni sono belli, ma il fatto che i due in questo sono eccellenti era cosa assodata. L’impressione è piuttosto che le canzoni suonino un po’ tutte simili e qualunque. Le voci funzionano bene quando la brigata degli orfani lavora di concerto, ma in solitudine il risultato è un po’ debole, e se Glover nel suo disco aveva ovviato impiegando qualche voce di supporto, qui la carenza pare più tangibile.

È un peccato, perché i momenti validi non mancano, il refrain di Save You ad esempio, però lo stesso tema che ha ispirato il disco è un po’ carente. Viene in mente lo Springsteen tutto miele e zucchero di Tunnel Of Love (difatti lo spunto per il disco arriva dal viaggio di nozze intrapreso da Hubbard e signora in quel di Cumberland Island): il disco è drammaticamente lento e sonnacchioso, peccato, perché la stoffa si sa, c’è. Ma dopo il secondo ascolto (uno è troppo poco), la necessità di levarlo dal lettore diventa impellente. Sorry.

BLACKBERRY SMOKE – Find A Light/Tour Edition

di Paolo Baiotti

13 dicembre 2018

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BLACKBERRY SMOKE
FIND A LIGHT – TOUR EDITON
Earache 2018

Originari di Atlanta, capitale della Georgia, i Blackberry Smoke nel giro di una decina d’anni sono diventati il più popolare gruppo di rock sudista della generazione del nuovo millennio. In realtà la loro musica riprende tematiche e suoni del southern rock degli anni settanta, inserendo una dose non indifferente di country, influenze di rock classico e hard rock, folk e bluegrass e una buona capacità di scrivere melodie radiofoniche che li ha aiutati ad imporsi. Sono sempre rimasti indipendenti, avviando la loro ascesa con il secondo album A Little Piece Of Dixie, suonando il più possibile in ogni zona del paese e non trascurando l’Europa, visitata quasi ogni anno, entrando in classifica la prima volta con l’ottimo The Whippoorwill (top 40 in Usa, Top 30 in Gran Bretagna), crescendo con il successivo Holding All The Roses e sfondando con Like An Arrow (n. 12 in Usa, n.1 nella classifica country, n. 8 in Gran Bretagna). Find A Light, sesto album in studio pubblicato nell’aprile di quest’anno, ha confermato la posizione raggiunta, con un leggero calo. Anche musicalmente l’album, superiore al precedente troppo condizionato dalla produzione di Brendan O’Brien, non raggiunge l’apice di The Whippoorwill dal punto di vista compositivo. Charlie Starr, voce e chitarra, è l’indiscutibile leader nonché il principale autore dei brani da solo o con aiuti esterni. Find A Light alterna rock energici come Flesh And Bone e The Crooked Kind a ballate come Medicate My Mind, permeata di influenze psichedeliche, Seems So Far e Let Me Down Easy, con il tocco di bluegrass di Mother Mountain, la radiofonica Till The Wheels Fall Off e il coinvolgente southern rock di I’ll Keep Ramblin’.
In occasione del recente tour europeo è uscita una tour edition dell’album che aggiunge sei tracce acustiche registrate a Nashville nello studio dell’amico Zac Brown, The Southern Ground Sessions pubblicate anche separatamente sia in vinile che in cd dalla Earache in Europa e dalla 3 Legged Records negli Usa. Non è una novità, i ragazzi amano le registrazioni acustiche, già nel 2015 avevano pubblicato il 10’’ Wood, Fire & Roses. Vengono ripresi cinque brani dal disco senza particolari stravolgimenti: la scorrevole Run Away From It All, la ballata Medicate My Mind dove si esprime al meglio la voce melodica di Starr, mentre il finale è affidato all’organo e alla chitarra acustica, la ballata country Let Me Down Easy con Amanda Shires alla voce e violino, la ritmata Best Seat In The House e il bluegrass Mother Mountain con Oliver Wood dei Wood Brothers, molto simile alla versione del disco. L’ultima traccia è un omaggio a Tom Petty, You Got Lucky con Amanda Shires, eseguita con rispetto da Starr, unendo nell’arrangiamento organo e violino alle chitarre. Un Ep piacevole, un’aggiunta non essenziale alla discografia del quintetto georgiano, che verrà apprezzata dai appassionati più fedeli.

LINDSAY BEAVER – Tough As Love

di Paolo Crazy Carnevale

12 dicembre 2018

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LINDSAY BEAVER – Tough As Love (Alligator /IRD 2018)

Quando questo dischetto comincia a girare nel lettore, la prima cosa che balza all’occhio è la grinta della performer. A ruota, col secondo brano, arrivano i rimandi alle sonorità del rhythm’n’blues anni cinquanta, con quel pianoforte che strizza l’occhio al vecchio Fats Domino (a suonarlo, nella circostanza è la compagna di etichetta Marcia Ball).

Allora vi chiederete cosa ci sia di strano in tutto questo, ebbene, la cosa strana è che Lindasy Beaver è canadese, e solitamente dalle foreste del nord siamo abituati ad accogliere sui nostri impianti stereo singer songwriter e affini, poi c’è che la Beaver, sulla copertina stringe in mano le bacchette da batterista e andando a leggere le note nel booklet vien fuori che la solida batteria che si ode in tutto il disco la suona lei.

Direi che ce n’è abbastanza per stupirsi.

Il disco poi è registrato e prodotto in Texas (il suo scopritore è tale Jimmy Vaughan), patria adottiva della Beaver, ma non suona assolutamente come il blues di quei posti.

Rispetto al recente disco inciso sempre su Alligator da Marcia Ball, questo è assolutamente più fresco, più godibile, un passo avanti pervaso da suggestioni molto coinvolgenti, a partire dalla solida chitarra di Brad Stivers, che in un brano si concede anche al canto. Nel panorama del blues contemporaneo questo della Beavers è un disco che si colloca molto bene, si concede alla modernità pur strizzando continuamente l’occhio al passato: Too Cold To Cry, il brano con la Ball al piano è fifties che di più non si può, in You Hurt Me tornano alla mente echi del vecchio Screamin’ Jay Hawkins, su Don’t Be Afraid Of Love la Beaver e Stivers si lanciano in una tirata alla Blasters, quasi ci fosse anche Gene Taylor a far parte della partita. I Got Love If You Want It è quasi blues punk, sottolineato dall’armonica di Dennis Gruenling, presente anche nel brano d’apertura, You’re Evil.

Dangerous è in linea con il sound a cavallo tra fifties e sixties, Oh Yeah è rock blues abrasivo e in meno di due minuti mette l’ascoltatore K.O. con Stivers che duetta con la chitarra di Eve Monsees scambiando assoli da un canale all’altro dello stereo. C’è spazio anche per il blues più torrido e nella fattispecie è Lost Causes il brano che ci mostra quanto sia duttile la Beaver nell’adattarsi a tutte le sfaccettature del genere. Più risaputa la seguente She’ll Be Gone, meglio la classica Let’s Rock di Art Neville che porta verso la chiusura affidata all’autografa Mean It To Me.

Il 16 dicembre il vinile atterra a Malpensa

di admin

12 dicembre 2018

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Si svolgerà il prossimo 16 diecembre, presso il Novotel MIlano Malpensa Aeroporto, la 7° Edizione di MALPENSA VINILE
fiera del disco, del CD e del DVD.

Il Novotel si trova in Via Al Campo, 99

INGRESSO LIBERO

PARCHEGGIO LIBERO

KATE CAMPBELL – Damn Sure Blue

di Paolo Baiotti

12 dicembre 2018

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KATE CAMPBELL
DAMN SURE BLUE
Large River Music 2018

Ci siamo occupati di Kate nel 2016, in occasione dell’uscita di una raccolta, The K.O.A. Tapes Vol. 1 che raccoglieva brani incisi prevalentemente sul cellulare in diversi periodi, spogli e minimali. Damn Sure Blue è il suo ultimo disco inciso da Will Kimbrough, che in passato ha prodotto Rodney Crowell, Todd Snider, Kim Richey, Garrison Starr, Matthew Ryan e Josh Rouse e collaborato con quasi tutti (da Mark Knopfler a Steve Earle, da John Prine a Mavis Staples) nel suo studio di Nashville. Oltre a produrre Will ha collaborato nella scrittura e ha suonato chitarra, basso, tastiere mandolino e banjo, coadiuvato da Bryan Owings alla batteria, Chris Carmichael al violino e Phil Madeira alla fisarmonica.
Nata a New Orleans nel 1961, cresciuta nel Nord del Mississippi in un ambiente tradizionale con un padre pastore battista, Kate è vissuta in una casa piena di musica, con una madre cantante e pianista e una nonna violinista. Ha studiato piano classico e clarinetto, poi si è spostata alla chitarra, coltivando anche l’interesse per lo studio, ottenendo la laurea in storia all’università di Auburn. Dopo essersi trasferita a Nashville, ha debuttato nel ’95 con l’ispirato Songs From The Levee seguito da una corposa discografia in cui ha evidenziato qualità non comuni di scrittura in ambito folk e Americana, influenzata dalla letteratura del Sud (in particolare da Flannery O’Connor), creandosi un seguito di nicchia che non si è mai espanso a livelli più alti che avrebbe meritato di raggiungere. Probabilmente le mancano l’immagine di altre colleghe e il sostegno di una casa discografica solida, ma è un peccato. Damn Sure Blue difficilmente cambierà la situazione, pur essendo un album curato dal punto di vista degli arrangiamenti che scorre fluido, facendo risaltare capacità compositive e interpretative notevoli. Tra i brani autografi citerei la disinvolta title track e il country Long Slow Train (ispirato dal suono di Johnny Cash), entrambe composte con il cantautore Tom Kimmel, il folk acustico della dolce This, And My Heart Beside, il roots spigliato di When You Come Back Home e la notevole ballata Sally Maxcy, arrangiata con chitarra acustica e piano. Quanto alle cover spiccano una coraggiosa rilettura di Ballad Of Ira Hayes più narrata che cantata e i due brani posti in chiusura, la ballata Forty Shades Of Green di Johnny Cash con una fisarmonica struggente e il gospel-folk Peace Precious Peace di David Akerman.
Damn Sure Blue è un disco curato e profondo di un’artista da riscoprire.

JENNIFER MAIDMAN – Dreamland

di Paolo Baiotti

5 dicembre 2018

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JENNIFER MAIDMAN
DREAMLAND
jennifermaidman.com 2018

E’ difficile descrivere in poche righe le attività e partecipazioni di Jennifer Maidman, nata Ian Maidman nel ’58 a Upminster in Gran Bretagna. Cantante, polistrumentista (in primis bassista, ma anche tastierista, chitarrista e batterista), produttrice e autrice, ha collaborato con artisti di vario genere e popolarità. Negli anni ottanta ha lavorato con David Sylvian, Ian Dury, Proclaimers, Shakespears Sister, Paul Brady, Sam Brown, Gerry Rafferty, Annie Whitehead (sua compagna anche nella vita), Robert Wyatt, Murray Head e altri. Ha fatto parte della Penguin Cafè Orchestra dall’84 al 2007, partecipando anche a programmi televisivi sul gruppo, su Paul Brady e Robert Wyatt. Negli ultimi anni ha suonato regolarmente con The Orchestra Thet Fell On Earth (che comprende parecchi ex Penguin Cafè Orchestra), Murray Head, Kokomo, Terry Reid e la trombonista Annie Whitehead. Inoltre è psicologa e membro dell’Associazione Britannica di Psicoterapia; su questo argomento ha scritto articoli e ha partecipato alla stesura di importanti pubblicazioni. Insomma, un talento multiforme che finalmente è riuscita a pubblicare il suo primo disco solista, registrando tra Woodstock e il Kent, le due aree in cui risiede. Viste le ampie conoscenze non è stato difficile raggruppare il gruppo base con il quale ha inciso il disco: il batterista Jerry Marotta (Peter Gabriel, Hall & Oates, Indigo Girls), il chitarrista David Torn (David Bowie, Jeff Beck, Tori Amos, Bill Bruford, David Sylvian…) e Annie Whitehead (Elvis Costello, Dr. John, Eric Clapton) al trombone e filicorno, nonché responsabile degli arrangiamenti dei fiati. Dreamland, che è anche il nome dello studio di registrazione della Maidman a Woodstock, è un disco sui desideri e sui sogni, ispirato dalla travagliata esperienza di transgender di Jennifer; un viaggio affascinante tra jazz, rock, musica sperimentale, folk, psichedelia, brani narrati (che allentano un po’ la tensione) e world music. La prima traccia Conspiracy Of Dreamers è emblematica, contenendo elementi di funky, gospel, jazz e soul, guidati dalla voce un po’ mascolina di Jennifer e dai controcanti dei coristi, con inserimenti incisivi di fiati e chitarra. La ballata Outside esprime la solitudine vissuta dalla Maidman, mentre Red Heart ritorna al funky-soul dell’opener. La lunga This Man Is Dangerous è una traccia avvolgente ed emozionante con Sam Brown ai controcanti e un assolo esemplare di Torn, come la seguente riflessiva The Letting Go, mentre nella cover della ballata O Caroline partecipano l’autore Robert Wyatt alla tromba e Paul Brady al flauto. No Man’s Land è uno dei brani migliori, misterioso e jazzato, con un arrangiamento orchestrale e qualche tocco pinkfloydiano. Nella parte finale del disco, complessivamente un po’ troppo lungo, emergono l’eterea Land Of Dreams, il pop tipicamente british The Magic Voice tra Kinks e Beatles e lo strumentale conclusivo Crow Dance, di ispirazione irlandese.
Dreamland è un disco ambizioso, una miscela molto particolare e personale che risulta interessante e stimolante, non liquidabile in pochi ascolti.

Flea, Vinyl & Brew a Vercelli domenica 9 dicembre

di admin

5 dicembre 2018

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Ancora un nuovo incontro birravinilico presso ilo BSA Beer Club di Vercelli, in via Cima Dodici, 22.

l’appuntamento è per il prossimo 9 dicembre, con ingresso gratuito dalle ore 14,30.

e poi, birra e dischi a gogò!

Il 16 dicembre il vinile atterra a Malpensa

di admin

5 dicembre 2018

LOCANDINA-7-MALPENSA-VINILE-2018[1020]

Si svolgerà il prossimo 16 diecembre, presso il Novotel MIlano Malpensa Aeroporto, la 7° Edizione di MALPENSA VINILE
fiera del disco, del CD e del DVD.

Il Novotel si trova in Via Al Campo, 99

INGRESSO LIBERO

PARCHEGGIO LIBERO

ALLAN THOMAS – Two Sides To Every Story

di Paolo Baiotti

5 dicembre 2018

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ALLAN THOMAS
TWO SIDES TO EVERY STORY
Black Bamboo 2018

Originario di Brooklyn, ma residente da oltre trent’anni sulla costa nord di Kauai’s, l’isola geologicamente più antica dell’arcipelago delle Hawaii, Thomas ha inciso recentemente il suo sesto album solista con alcuni dei musicisti locali più talentuosi, qualche partecipazione prestigiosa (Jimmy Johnson bassista di James Taylor, James Raymond figlio di David Crosby, Russell Ferrante…) e il missaggio di Paul Northfield (Rush, Dream Theater). Allan non è un novellino: il suo primo contratto discografico risale al 1966, quando ha inciso a 17 anni due singoli in Texas. Due anni dopo si è trasferito al Greenwich Village, partecipando alla scena locale, ma dopo qualche mese si è spostato a Los Angeles. Nel ’71 è uscito il suo primo album, A Picture (Sire Records) prodotto da Richard Gottehrer, che gli ha consentito di andare in tour come supporto a Cannonball Adderley, Marc Almond, Richie Havens, Livingston Taylor e Weather Report. In seguito ha abbracciato la meditazione orientale di un maestro indiano, suonando per gruppi religiosi, ha partecipato a un disco del Cannonball Adderley Quintet, è diventato insegnante di chitarra …insomma un sacco di iniziative e attività legate alla musica, fino alla decisione di trasferirsi a Kauai dove è diventato maestro di windsurf e ha ripreso con regolarità a incidere scrivendo canzoni e arrangiamenti che mischiavano blues, rhythm and blues, jazz e influenze locali, uno stile che ha chiamato Rhythm and Beach. The Island, prodotto da Stephen Barncard e uscito nell’89, ha raccolto brani incisi nel decennio, Coconut Culture del ’97 è stato prodotto da Mile Shipley (Joni Mitchell, Tom Petty, Alison Krauss…). Allan ha fatto il DJ per anni in una stazione locale e ha costruito uno studio di registrazione utilizzato tra gli altri da Donald Fagen per il suo terzo album solista. Nel 2007 è uscito Making Up For The Lost Time, due anni dopo Brooklyn Boy In Paradise, una raccolta di inediti degli anni ottanta e novanta e nel 2011 Deep Water, quinto album in studio al quale hanno partecipato anche David Crosby e Graham Nash ai controcanti. E dopo sei anni ecco Two Sides To Every Story, un disco che mischia più che mai elementi di rock, blues, jazz e soul, a volte un po’ troppo easy, come in Dating Game, brano suadente alla Steely Dan, If Only, davvero impalpabile e Is That Asking Too Much?, soffice lounge music. In altri casi il risultato mi sembra più soddisfacente, come nell’opener 15 minutes che ondeggia tra Donald Fagen e Paul Simon, in Could’ve Been Worse e Good To Go che possono richiamare Chris Rea o i Dire Straits più leggeri o negli strumentali jazzati Aquadesiac e On Another Note. Un disco estivo, da spiaggia al tramonto, chiuso male da Geezer Talk, brano rappato che c’entra poco con il resto del materiale proposto.