Archivio di dicembre 2017

MARTY STUART AND HIS FABULOUS SUPERLATIVES – Way out West

di Paolo Crazy Carnevale

28 dicembre 2017

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MARTY STUART AND HIS FABULOUS SUPERLATIVES – Way out West (Superlatone Records 2017)

È stato un anno prolifico di bei dischi il 2017. Spesso anche di dischi molto belli, oltre che di ritorni inattesi e di notevoli conferme. Credo però che la mia palma di disco più bello sia da consegnare a questo elaborato disco di Marty Stuart. Il non più giovanissimo chitarrista di fiducia del Johnny Cash pre Rick Rubin ha un gruppo che è letteralmente da strapparsi i capelli tanto i musicisti sono bravi (il nome della formazione non è sicuramente scelto a caso); Stuart poi è sempre stato un chitarrista con i controfiocchi, ma mai come in questo disco ce lo aveva dimostrato. Avrebbe potuto fare uno dei tipici stanchi dischi nashvilliani, senza troppa fatica, di quelli d’effetto, ben suonati e con gran poca anima, invece ecco il colpo di genio: un affresco western di grande spessore, con una cura dei suoni ineccepibile (e con Mike Campbell alla consolle era difficile aspettarsi di meno) ed un’ispirazione davvero da competizione.

Potrebbe essere considerato quasi un concept questo disco, un omaggio alla musica americana senza essere dichiaratamente “americana” (il gioco di parole è una tentazione troppo grande e irresistibile): Stuart scrive quasi tutti i brani da solo o in compagnia dei suoi superlativi favolosi e il risultato è degno del nome del gruppo, sia nei brani strumentali che in quelli cantati: si parte con l’assaggio brevissimo di Desert Prayer in cui emergono ancestrali richiami alle popolazioni native, e poi via con uno strumentale dagli echi twang, Mojave, una sorta di bisnipote dell’Apache di shadowsiana memoria anche se credo che il riferimento sia più al deserto omonimo che alla tribù indiana che diede il titolo ad un vecchio albo di Tex Willer.
A questo punto la statura del disco è già chiara, poi arriva l’unica cover, Lost On The Desert, già affrontata da Johnny Cash nei primi anni sessanta, come se Marty volesse gettare un ponte tra la sua musica e quella del suo vecchio datore di lavoro. Con la title track siamo al cospetto invece di un brano quasi parlato, con echi della storica Ode To Billy Joe, ma qui ci sono dei lavori di chitarra degni di un gruppo superlativo, lavori di chitarra snocciolati con un equilibrio sonoro che colpisce cuore e orecchie.

Marty Stuart si divide le parti chitarristiche (acustiche ed elettriche) con Kenny Vaughan, mentre Harry Stinson si occupa dei tamburi e Chris Scruggs (figlio d’arte di antica e nobile stirpe) suona il basso: e a proposito di chitarre, va ricordato che Stuart è anche il possessore della Telecaster che fu di Clarence White, quella su cui Gene Parsons installò il primo stringbender della storia del chitarrismo e dell’umanità. Non stupitevi dunque se qua e là, in maniera felicissima vi sembrerà di cogliere echi stilistici del chitarrista dei Byrds.

El Fantasma Del Toro (firmata dal batterista) è di nuovo strumentale una sorta di via di mezzo tra un tango e la musica d’oltre Rio Bravo, altra bella composizione, seguita da Old Mexico il cui titolo la dice lunga su cosa ci si debba aspettare ascoltandola. Il lato A del disco si chiude con la riuscita Time Don’t Wait, in odore di jingle jangle visto che Vaughan si dedica alla 12 corde, e ospita il producer in qualità di terzo chitarrista e tastierista.

La facciata B si apre con un altro strumentale, Quicksand, di nuovo con echi twang che preludono ad Air Mail Special, brano molto spedito in cui le chitarre sviluppano una serie di belle intuizioni che richiamano lo stile di Clarence White. Torpedo, ancora strumentale, è puro surf western, non è difficile immaginare di vedere scorrere le immagini di un film di Tarantino sulle note di questo brano; il disco procede con l’epicità di Don’t Say Goodbye in cui gli elementi fin qui ascoltati si mescolano con un arrangiamento affidato ad una sezione d’archi che a tratti ricorda quello usato per i temi principali delle pellicole dedicate a James Bond, sicuramente un altro grande brano. Whole Lotta Highway ospita tra i suoi solchi il produttore Campbell e la pedal steel di Gary Carter, col risultato di un autentico trionfo chitarristico che ancora una volta emana echi byrdsiani post 1968. Per riportare un po’ di tranquillità c’è una breve ripresa a cappella del brano che aveva aperto il disco, poi la dolente ballata Wait For The Morning, sempre all’insegna di un’atmosfera e di una ricerca sonora ineccepibili: non escluderei che nel (superlativo) solo centrale, per il quale s’impongono applausi e scappellamenti, Marty stia suonando davvero la chitarra con lo stringbender che fu di Clarence White.

L’atto di chiusura è la ripresa della title track, in versione arrangiata con gli archi e con chitarre morriconiane che suggeriscono un tema western da titoli di coda in cui possiamo immaginare un galoppo di cavalieri tra cui non è difficile, a questo punto distinguere Johnny Cash, con ai lati Clarence White, Duane Eddy e Quentin Tarantino.

E scusate se è troppo!

JUDY KASS – Beyond The Ash And Steel

di Paolo Baiotti

17 dicembre 2017

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JUDY KASS
BEYOND THE ASH AND STEEL
Judy Kass 2017

Cresciuta in una famiglia newyorkese di musicisti, Judy è stata instradata allo studio del pianoforte classico da bambina, spostandosi alla chitarra e alle tastiere nell’adolescenza, quando ha iniziato a scrivere canzoni. Influenzata da cantautrici come Joni Mitchell, Laura Nyro e Janis Ian e dal jazz di Miles Davis e Keith Jarrett, ha affiancato la passione per la musica agli studi universitari, rinviando l’idea di proseguire da professionista. Tuttavia è rimasta nel campo dell’educazione musicale, fondando nel 2008 il programma MusicWorks che ha aiutato molti ragazzi di famiglie non agiate a sviluppare il loro talento con lezioni e aiuti privati.

Nel 2001 Judy lavorava come impiegata in un’azienda che aveva sede al 48° piano del World Trade Center. Per un motivo personale era assente l’11 settembre; in quella tragica giornata ha perso trecento colleghi. In seguito ha aiutato e consigliato le loro famiglie, impegnandosi con tutte le sue forze. Superata l’emergenza, ha riversato le sue emozioni nella scrittura, riprendendo a comporre e pubblicando nel 2014 il primo disco solista Better Things, seguito da Beyond The Ash And Steel.

Destreggiandosi abilmente tra influenze jazz e blues e dimostrando doti vocali non indifferenti, Judy ha inciso un disco vario e sincero, con riflessioni sui momenti positivi e negativi della vita e con un apprezzabile messaggio di serenità e pace. L’accorata pianistica title track, scritta dopo avere assistito al funerale di un collega morto l’11 settembre, non si sofferma sulla tragedia, ma sul percorso da affrontare per superare il dolore e trovare la forza per affrontare il futuro. Chili Pepper Nights, che apre il disco, è un blues profumato di Sudamerica arricchito dall’armonica di John Sebastian. Le influenze jazz emergono nella leggera Laugh e in Reckless Driving, quelle folk nella cover del tradizionale The Snows They Melt The Soonest e in Turn Us Around. In chiusura la dolente e poetica ballata Selfless Deed ribadisce l’importanza degli atteggiamenti e dei comportamenti positivi per cambiare le cose.

17 Dicembre, Appuntamento con Malpensa Vinile

di admin

12 dicembre 2017

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si avvicina la data del 17 dicembre, quando presso il NOVOTEL MALPENSA AEROPORTO
si svolgerà la nuova edizione di Malpensa Vinile, Mostra mercato del disco, Cd e DVD
come sempre, ingresso LIBERO e parcheggio LIBERO, ecco le coordinate:

NOVOTEL MALPENSA AEROPORTO
Cardano al Campo (VA) – Via Al Campo, 99
(SS336 della Malpensa – Uscita Cardano al Campo/ Ferno)
ORARIO 10-18

BAR DEDICATO
Info: 346 1832254
Facebook: Fiera del Disco Varese

TAJ MAHAL & KEB MO’ – TajMo

di Paolo Crazy Carnevale

9 dicembre 2017

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TAJ MAHAL & KEB MO’ – TajMo (Tajmo Records/Concord/Universal 2017)

Un disco bello, non scontato e, soprattutto non scontatamente bello.

Di solito le operazioni di questo tipo, dischi collaborativi in cui due o più artisti dal nome altisonante uniscono le forze, rischiano di essere dei buchi nell’acqua, a volte le collaborazioni si limitano alla presenza, a volte invece è la non presenza a brillare: la storia del rock è piena zeppa di esempi in cotal senso e purtroppo la critica si fa per lo più accecare dall’importanza dei nomi, senza magari cogliere gli argomenti che possono destare perplessità.

Keb Mo’ e Taj Mahal invece il disco in duo l’hanno fatto a tutti gli effetti, e che disco!

Qui si fa prima a dire cosa non piace che cosa piace, perché, per il sottoscritto, di brani poco convincenti ce n’è uno solo – ed è solo una questione di arrangiamento.

Qualcosa è composto a quattro mani dai due consumati bluesmen, qualcosa dal solo Keb Mo’ e qualcos’altro è ripescato tra tradizione e repertori altrui: il lato A si apre subito con stile e collaborazione, Don’t Leave Me Here è una composizione molto convincente in cui i due si alternano alle voci mentre chitarra, fiati e armonica ne disegnano le solide connotazioni blues, She Knows How To Rock Me, è più vicina a suoni tradizionali, le voci dei due funzionano alla perfezione anche qui e l’intreccio tra l’acustica di Taj e la resofonica di Mo’ è pressoché perfetto.

All Around The World è invece il brano che mi convince meno, penso complice il drumming troppo secco e preciso di Chester Thompson, ad esempio, la canzone che segue, più o meno nella stessa ottica, ma con un batterista differente ha tutt’altro impatto, è sempre un brano di Mo’ e s’intitola That’s Who I Am, ci sono i fiati come nel precedente, ma la sostanza è più convincente, le tastiere sono ottime e c’è il mandolino di Colin Linden che calza a pennello.

In Shake Me In Your Arms c’è ospite Joe Walsh che suona la solista, la struttura del brano è più blues che nei due brani precedenti in cui erano evidenti le influenze della cosiddetta world music. A chiudere la prima facciata una breve composizione di John Mayer, cantata in parti uguali dai due titolari coadiuvati da Bonnie Raitt, e tutta sorretta su voci e chitarre acustiche, blues moderno potremmo definirlo, eseguito e presentato con eleganza e sostanza.

Il lato B parte senza perdere colpi, Ain’t Nobody Talkin’ funziona al la perfezione, i suoni sono equilibrati, le chitarre di Mo’ si inseriscono gran bene sul tappeto delle tastiere suonate da Phil Madeira, Divin’ Duck Blues invece è del vecchi Sleepy John Estes, quattro minuti e mezzo di beatitudine acustica, solo Mahal all’acustica e Mo’ alla resofonica, e naturalmente le loro voci, sembra di trovarsi al cospetto di un vecchio disco di Ry Cooder. Con Squeeze Box, si omaggia il songwriting di Pete Townshend, la versione è naturalmente tex mex e zydeco, con largo uso di fisarmoniche, come il titolo vorrebbe, ma nell’introduzione è riconoscibilissimo l’attacco in stile Who, a sorreggere ben il brano ci sono anche le percussioni di Sheila E. mentre all’elettrica c’è di nuovo Joe Walsh e Linden si occupa del mandolino.

Le implicazioni con la world music – che sia Mahal che Mo’ hanno sempre tenuto più che d’occhio – tornano con l’ottima Soul, contagiosa composizione scritta a quattro mani dai titolari, dal ritmo orecchiabile ma non scontato. Taj suona ukulele e banjo; fiati e percussioni sono in bella vista, ma soprattutto si ascolta uno stuolo di vocalisti imprimono al brano quelle atmosfere che rimandano a certe cose del Graceland di Paul Simon.

La conclusione è affidata a Om Sweet Om, una composizione dalle atmosfere vagamente pop in cui troviamo Lee Oskar all’armonica, le elettriche di Walsh e Philip Hughley mentre Mo’ qui si occupa dell’acustica, oltre a cantare con Taj Mahal e l’ospite Lizz Wright.

BORN 53 – A Talent Unrecognized

di Paolo Baiotti

9 dicembre 2017

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BORN 53
A TALENT UNRECOGNIZED
Big Note Production 2017

Quartetto svedese originario di Stoccolma attivo dal 2003, Born 53 è formato da Jorgen Larsson (batteria e percussioni), Hans Birkholz (chitarra, lap steel, Wessenborn, ukulele, charango, kalimba), Asa Kallen Lindh (voce, chitarra, mandolino e percussioni) e Anders Lindh (voce, chitarre, basso, piano). Influenzati dal blues e dai grandi cantautori, in primis Bob Dylan al quale hanno dedicato un disco, suonano un mix di roots music e folk.

A Talent Unrecognised è il loro quinto album, pubblicato cinque anni dopo Thieving In The Alley, composto da 12 covers di Dylan, mentre questo nuovo disco comprende dieci brani scritti da Anders Lindh e Hand Birkholz e un paio di covers, Forgetful Heart dell’amato Dylan trasformata in un tango nordico interpretato dalla voce calda di Asa Lindh e da una lap steel intimista e Devil Came a’ Callin’ di Paddy McAloon (Prefab Sprout) che acquisisce sapori sudamericani. Tra i brani autografi emergono la ballata Morning Song con un testo sull’amore universale, la sarcastica The Great Liberator nella quale la voce di Anders sembra ispirata da tonalità dylaniane, la scanzonata opener Looking for Marie Jones ondeggiante tra folk e Americana, la blueseggiante A Talent Unrecognized e il raffinato strumentale The Trail. Il disco è chiuso dalla paludosa Man In A Statson Hat, registrata dal vivo al Real Music Bar di Stoccolma nel dicembre del 2016.

BEV GRANT – It’s Personal

di Paolo Baiotti

9 dicembre 2017

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BEV GRANT
IT’S PERSONAL
Bev Grant 2017

Attivista del movimento femminista e per i diritti civili dalla seconda metà degli anni sessanta, quando frequentava la Princeton University, Bev Grant ha partecipato con passione all’opposizione alla guerra in Vietnam e alle manifestazioni di protesta di quel periodo turbolento, alternando l’attività musicale a quella sociale.

Nei primi anni settanta ha formato The Human Condition, un gruppo folk-rock fortemente politicizzato, attivo nella scena di New York (e riformato nell’86 con un suono vicino alla world music). In seguito ha proseguito nell’impegno a favore delle minoranze e dei lavoratori, ma non ha abbandonato l’attività di autrice e musicista. Nel 1997 ha fondato il Brooklyn Woman’s Chorus con il quale ha inciso un paio di dischi in cui materiale autografo si alterna a covers contemporanee e storiche di rilevanza sociale. Inoltre nel 2006 ha pubblicato un Ep con The Dissident Daughters e poi un cd con la cantautrice May Wool (in coppia si presentavano come Wool & Grant).

It’s Personal è il suo nuovo disco, registrato a Woodstock negli studi Dreamland con la produzione di Daniel A. Weiss. Un disco elettrico, vigoroso, tra folk e rock, nel quale tematiche politiche e comunitarie si alternano a riflessioni personali e autobiografiche che, tuttavia, in questa occasione prevalgono. Tracce jazzate come The Space Between, il rock scorrevole della scanzonata Hang On Girl e di Throw Me The Ball (sull’ostracismo nei confronti delle donne che vogliono giocare a baseball), la mitteleuropea I Am A Sewing Machine e l’autobiografica Small Town Girl, un raffinato jazz notturno, affiancano brani più affini al folk quali I Felt The Earth Shake (sul terremoto ad Haiti del 2010), Poor Daddy e la ballata You’re Not The One formando un ritratto credibile di un’autrice degna di rispetto e attenzione, pur essendo rimasta sempre in secondo piano rispetto a nomi più altisonanti.

PASSERINE – Harbingers

di Paolo Baiotti

6 dicembre 2017

passerine

PASSERINE
HARBINGERS
Passerine Music 2016

Formati nel 2009 in Florida da Carmela Pedicini (voce e chitarra) e David Brain (dobro, lap steel e voce), dopo alcuni cambi di formazione i Passerine si sono assestati con l’aggiunta di Sara Stovall (violino e voce) e Doug Conroy (basso e voce). La band ha esordito con Another Song About a Bird nel 2012, seguito da Nest Of String nel 2013 e dal più recente Harbingers.

Fondendo limpide armonie vocali, chitarre acustiche, dobro e violino, alternando brani autografi e riprese di tracce tradizionali, i Passerine cercano di aggiornare il folk e il bluegrass con i quali sono cresciuti, inserendo elementi cantautorati e di Americana, pur restando fedeli ad una scelta acustica.

Le fonti di ispirazioni partono da lontano (Ralph Stanley e Bill Monroe), attraversano i grandi songwriters (Bob Dylan, Neil Young, Lucinda Williams, Nanci Griffith) e aggiungono nomi più recenti come Old Crow Medicine Show e Neko Case. Nel 2014 Carmela e Sara hanno aggiunto un’esperienza teatrale significativa suonando con Tim Grimm nell’ultima versione di The Grapes Of Wrath (Furore) di John Steinbeck, esplorando il repertorio di Woody Guthrie e della Carter Family, oltre a brani originali.

Harbingers è un disco piacevole e rilassato, nel quale tre composizioni di Carmela e due di Sara si alternano a brani tradizionali e a covers di Bill Monroe e Stanley Brothers. L’intenso folk di Fish (dove la voce può richiamare Stevie Nicks) e l’eccellente New Bride testimoniano le qualità compositive di Sara, mentre l’intimo strumentale Madra B’an (White Dog in gaelico) e Waiting For You sono le tracce migliori di Carmela.

Tra le covers spiccano la dolente ballata The One I Love Is Gone (Bill Monroe), il folk tradizionale britannico Wayfaring Stranger e Darling Corey (Monroe Brothers, Flatt & Scruggs, Doc Watson, The Weevers…). Disco consigliato per chi apprezza la musica tradizionale folk e bluegrass americana.

ANI DI FRANCO – Binary

di Paolo Baiotti

6 dicembre 2017

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ANI DI FRANCO
BINARY
Righteous Babe 2017

Nel corso di una carriera iniziata con l’omonimo album del 1990 e proseguita attraverso una ventina di dischi in studio e una serie altrettanto corposa di album dal vivo (molti bootleg ufficiali), Ani Di Franco è stata un esempio di coerenza e serietà, nonché l’archetipo dell’artista indipendente, avendo sempre inciso sulla sua etichetta Righteous Babe, orgogliosamente al di fuori del circuito delle multinazionali discografiche. Cantante dotata di una voce capace di variare i toni con naturalezza, chitarrista acustica e polistrumentista, poeta, autrice, attivista, icona femminista militante, riot girl, impegnata contro il razzismo e l’omofobia, è uno dei personaggi di punta del cantautorato femminile, stimata e rispettata da un pubblico di nicchia, ma non solo.

Dopo la seconda maternità nel 2013 e il trasferimento a New Orleans, Ani ha affrontato altre innovazioni, chiamando per la prima volta un produttore esterno al mixing, l’esperto Tchad Blacke, cambiando manager dopo venticinque anni e aggiungendo alcuni amici ai tradizionali collaboratori Todd Sickafoose (basso) e Terence Higgins (batteria). Mi riferisco a Justin Vernon (Bon Iver), alla violinista Jenny Scheiman, al tastierista Ivan Neville, al sassofonista Maceo Parker e alla bassista Gail Ann Dorsey. Se Allergic To Water (2014) era un album intimista e riflessivo influenzato dalla maternità, Binary è aperto al mondo esterno, sia nei testi politici che in quelli personali.

E’ anche un disco molto vario, più morbido rispetto ad altri della sua carriera, meno diretto e più saggio, musicalmente influenzato dal funky e dal jazz che si respirano a New Orleans. Il folk è in sottofondo, non è scomparso, ma è circondato dal funky di Binary, dal brillante soul carezzevole di Pacifist’s Lament, dagli esperimenti dell’eterea Zigging e di Sasquatch, dal jazz di Telepathic, dal robusto indie-rock di Spider, dal ritmo spezzato di Dear God (accompagnata da un pregevole video) e dal funky jazzato di Even More. Un disco intrigante da parte di un’artista che merita sempre di essere ascoltata.