Archivio di dicembre 2010

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/11

di admin

29 dicembre 2010

BBB COVERBUTTERED BACON BISCUITS
From The Solitary Wood
2009 Black Widow CD

 

Buttered Bacon Biscuits chi sono costoro? Forse un nuovo psichedelic breakfast di recente fattura? No, solamente un intrigante gruppo di musicisti che arrivano dalla Romagna e assemblatisi in questa avventura dopo aver suonato in varie band locali. Una per tutte la citazione va ai Goldrust dei quali abbiamo parlato precedente su queste pagine. La loro è una ricerca tesa a ricreare sonorità tipiche degli anni ‘70 che miscelano nello spazio di poco più di cinquanta minuti rock, prog, metal, southern e psichedelia occulta. La sua principale prerogativa è quella di essere molto ben suonato e di rendere l’anima al diavolo sotto forma di suoni a tutto tondo, esattamente al loro posto e assolutamente ben delineati. Perfettamente azzeccata la voce che si unisce in modo mirabile alla notevole ritmica strumentale con tastiere e chitarre di eccellente livello. In attività dal 2008, i BBB ci regalano decisamente un ottimo gioiellino che recensiamo sul nostro sitoblog grazie al consiglio dell’amico Eufrosini che ben gliene incolse quando ebbe l’illuminazione di illuminarci e alle sempre attiva Black Widow che ne cura la distribuzione e alla quale abbiamo chiesto e ottenuto il dischetto. Suona come le migliori cose di tranta/ quaranta anni fa ma come detto arriva dai giorni nostri per questo crediamo che Ricky, Aro, Alex, Pera e Steve, pur disdegnando nelle note del libretto i loro cognomi, possano considerarsi decisamente promossi e data la loro forza, bravura ed energia attesi al prossimo esame con immenso piacere. Il problema a volte è sempre quello della provenienza, ovvero che se detti personaggi con tutto il loro dischetto arrivassero che ne sappiamo dall’Ohio o da qualche sperduta cittadina dell’Ontario o da Abilene allora forse susciterebbero maggior interesse. Ma visto che arrivano da lidi nostrani rischiano di passar inosservati. Ci fa piacere comunque di aver trovato recensione del loro lavoro su una nota testata musicale di qualche mese fa, questo ci conforta e ci stimola ad andar avanti, sempre avanti, abbiamo superato anche il fatidico numero 100. Eccellente la copertina che ci trasporta indietro magicamente nel tempo, peccato sia penalizzata dalle misure del CD, un cartonato formato vinile sarebbe stato straordinario. Per concludere cercate su www.myspace.com/butteredbaconbiscuits quando e dove ci sarà un loro concerto e non fatevelo scappare.

Ronald Stancanelli

BODEANS
Still
2008 Shy Songs CDbodeansstill_cov

 
Carriera altalenante quella più che ventennale dei Bodeans di Kurt Neumann e Sam Llanas, con almeno due lavori da avere assolutamente: l’esordio Love & Hope & Sex & Dreams del 1986 e lo splendido doppio dal vivo Homebrewed del 2005. L’ultimo capitolo, Mr. Sad Clown, uscito quest’anno, francamente non è un gran che, quindi vi parlo del disco precedente, datato 2008 e intitolato Still. Album sicuramente da ascoltare, molto ispirato e ricco di belle canzoni, prodotto da “Re Mida” T-Bone Burnett. Belle canzoni come l’iniziale scheletrica Pretty Ghost o la splendida The First Time che ci riporta ai monumentali Del Fuegos di Smokin’ In The Fields (disco da recuperare e rivalutare assolutamente) e che ti si appiccica addosso senza staccarsi più. Willin’ (non quella) è springsteeniana fino al midollo, Lucile invece l’abbiamo già sentita molte volte, con altri titoli, negli ultimi quarant’anni, ma è destinata comunque a fare faville dal vivo. Mi piacciono molto anche la più tirata Waste A Lifetime (via di mezzo fra Gin Blossoms e Jesse Malin), la ballata Everyday e l’autunnale e malinconica Hearing; anche se in realtà tutti i pezzi sarebbero degni di menzione perché, pur senza la pretesa di cambiare la storia del rock, e ce ne vuole, non ce n’è uno di brutto. Ad accompagnare i due leader ,chitarre e voci, un gruppo di tutto rispetto, con quell’autentico mantice di Kenny Aronoff alla batteria, sempre alla batteria e percussioni in un paio di brani troviamo Jay Bellerose e Noah Levy. Bukka Allen (figlio d’arte) alle tastiere e alla fisa, Michael Ramos al B3 più Eric Holden al basso. Una piccola nota di demerito invece per il libretto interno, con i testi scritti a caratteri microscopici, a toglierci per lo sforzo anche le ultime diottrie rimasteci. Un po’ più grandi non si poteva proprio? Non inventano niente i Bodeans, ma si lasciano ascoltare veramente con molto piacere, fatelo anche voi.

Gianfranco Vialetto

MARILLION
Marbles
2004 Intact Recordings CDmarillionmarblescop

 
I Marillion sono un nome storico del prog; storico perché hanno, nel 1983, quando nessuno o quasi si filava più questo genere musicale, rivitalizzato la scena con un album meraviglioso come Script For A Jester’s Tear e dato il “la” a un movimento che ha tra i suoi protagonisti altri gruppi validissimi come Pallas, Pendragon, Jadis, It Bites, IQ e molti altri. Perso per strada il cantante e frontman Fish, si sono dovuti ricostruire una nuova immagine e verginità, ma hanno avuto la fortuna di incontrare il validissimo Steve Hogarth, per tutti semplicemente H. Molto diverso, sia come personaggio che musicalmente, dal suo predecessore, H ha saputo dare un nuovo sound, molto più moderno, al gruppo e ha vinto le naturali e comprensibili perplessità dei fan, riuscendo a entrare nel cuore di tutti con una evoluzione (e come potrebbe essere altrimenti) che tiene conto delle sonorità del nuovo millennio (Radiohead?) album dopo album. Qui ci occupiamo di Marbles, pubblicato nel 2005, tredicesimo prodotto della loro discografia e registrato grazie al finanziamento dei fan tramite prenotazione anticipata del lavoro finito (quasi tredicimila adesioni). Molti i momenti memorabili in questo Marbles. Ascoltate l’evolversi delle tastiere in The Invisibile Man, quattordici minuti di prog assolutamente moderno e adatto al XXI° Secolo, con un pizzico di psichedelica che non guasta; oppure il crescendo di You’re Gone, potenziale hit single, vagamente U2, ritmata, orecchiabile e bellissima. Se Bono avesse deciso di entrare in un gruppo progressive, avrebbe cantato così. I componenti storici del gruppo, Steve Rothery alla chitarra, Pete Trevawas al basso, Ian Mosley alla batteria e Mark Kelly tastiere, sono sempre in grandissima forma e si dimostrano eccellenti strumentisti. Ascoltateli nella stupenda Angelina, che da soffuso pezzo quasi blues, si trasforma in un brano dolcissimo con delle chitarre e tastiere quasi pinkfloydiane, ma con un senso del pop che fu dei primi 10cc. Come resistere all’intro di Don’t Hurt Yourself, altro brano che farebbe un figurone in qualsiasi scaletta radiofonica degna di tal nome, con un ritornello di quelli che “acchiappano” al primo ascolto. Affascinante poi il crescendo di Fantastic Place, che da un inizio molto d’atmosfera, si eleva fino a coinvolgere e trasportare chi ascolta fin lassù, fra le nuvole. Provate ad ascoltarla a occhi chiusi. Concettualmente, come trasporto emotivo, sembra di essere tornati ai tempi dei migliori U2, anche se si tratta di generi musicalmente abbastanza diversi. Drilling Holes è un ideale punto d’incontro fra Beatles, XTC (citati anche nel testo) e i Porcupine Tree, il cui tastierista, ex Japan, Richard Barbieri, è amico di H e suona nei dischi solisti di quest’ultimo. Degna chiusura di uno splendido album, la pianistica Neverland, anche questa, come tutte, molto coinvolgente e con uno splendido lavoro alla chitarra da parte del solito, sempre più bravo, Steve Rothery. Undici minuti che passano veramente in un batter di ciglia, e vorresti non finissero mai. Bello anche il concepì di copertina con la foto del bimbo che sovrappone agli occhi delle colorate biglie di vetro, Marbles appunto, come quelle con cui giocavamo da piccoli, e che sono un po’ il filo conduttore dell’intero lavoro. Se il senso del prog letteralmente deve essere quello di progredire costantemente, e musicalmente è soprattutto uno stato della mente, bene, i Marillion sono ancora fra i suoi esponenti migliori. Album fantastico questo Marbles, di cui mi sono letteralmente innamorato. Procuratevelo nella versione in doppio CD con quattro brani in più (fra i quali i diciotto strepitosi minuti di Ocean Cloud, prog allo stato puro, e la meravigliosa Genie, canzone che ti ritrovi a canticchiare quasi senza accorgertene) o, meglio ancora, in quella lussuosissima in vinile. Entrambi sono rintracciabili solo sul sito del gruppo. Grandi Marillion!

Gianfranco Vialetto

THE PINEAPPLE THIEF
Somenone Here Is Missing
2010 Skope153 CDPINEAPPLE

The Pineaaple Thief. Ma chi li conosceva sino a un paio di mesi fa! Poi al festival prog di Veruno un volantino ne pubblicizzava il concerto nell’interland milanese da li a pochi giorni. Data la straordinaria suggestione della copertina del loro disco che troneggiava sul volantino ne sono restato notevolmente colpito e interessato. Più tardi, in uno dei vari banchetti che contornavano la famosa Piazzetta della Musica ove era collocato il palco, trovavo in una bellissima confezione cartonata a mo’ di libro rilegato il loro CD e, a dispetto di un prezzo non certamente a buon mercato, ma sulla fiducia della copertina che mi aveva magicamente stregato, acquistavo questo sconosciuto CD. È un disco strano ma che al primo ascolto ti colpisce per la sua disarticolata peregrinazione musicale, parte e va e non si riesce a capire dove voglia arrivare. Non ricorda praticamente altri gruppi per fare paragoni o esempi. O, forse, in alcuni frangenti sembra di trovarsi in un deja vu senza però venire a capo della radice della questione. Un amico mi dice rammentino i Muse. Boh, sarà ma io sinceramente non li ho mai ascoltati! Ormai l’ho sentito oltre una decina di volte e ogni ascolto mi colpisce positivamente in maniera maggiormente preponderante alla precedente. I suoni passano veloci, sincopati, si rincorrono e vari crescendo esaltano l’ascoltatore dandogli la sensazione di scoprire qualcosa di nuovo a ogni ascolto. Mi ero ripromesso di andare a vederli, poi, non avendo trovato alcuna anima pia disposta ad accompagnarmi ho desistito mangiandomi però le dita ora che i miei ascolti mi hanno portato a considerare questo CD uno dei più interessanti dell’ultimo periodo, ma ahimè il concerto è passato la festa andata e il santo gabbato e chissà quando ci sarà una successiva occasione. Della particolare e fantasiosa copertina si è già detto come del fatto che sia stata la stessa a incuriosirmi e così complice anche un adesivo che li bollava come prog-rock adesso detto CD gira nel mio lettore. Ho al momento Internet non attivo e non posso quindi documentarmi in questo momento su di loro. Scartabellando la messe di innumerevoli libri che ho sull’argomento nessuno li cita o ne parla. L’unico tomo, plauso agli autori, è “Prog40” da noi recensito nei numeri scorsi che così ci erudisce: trattasi di band britannica nata inizialmente come progetto spin off dei Vulgar Unicorn. Il gruppo si appoggia totalmente alla figura del cantante chitarrista Bruce Sord, infatti testi e musiche di tutti i brani sono a sua firma. Gli altri componenti sono Jon Skykes ai bassi, Steve Kitch alle tastiere e Keith Harrison alla batteria. Secondo “Prog 40” la loro musica potrebbe far pensare a qualcosa che in ambito di space rock (!) erano soliti proporre i Pink Floyd nel primissimo loro periodo. Sinceramente a me non hanno dato questa impressione! Diciamo che la loro caratteristica, che è poi quella che mi ha colpito nei vari ascolti, è la capacità di attuare inizialmente suoni soffusamente pacati ed eterei per portarli con sistematica bravura a crescendi che focalizzano in toto l’attenzione dell’ascoltatore. Queste sospensioni psichedeliche in maniera decisamente garbata, pulita ed elegante, ne fanno decisamente un gruppo da prendere in seria considerazione. Esiste un loro precedente lavoro del 2007 dal titolo What We Have Sown. Per quanto concerne invece questo abbiamo nove splendidi momenti musicali con uno decisamente stratosferico dal titolo So We Row, ma ribadiamo che è tutta l’opera nella sua interezza che colpisce in modo diretto e preciso verso un risultato che alla fine non può non appagare. Le tematiche musicali sono alquanto simili come se si trattasse di un’unica suite cementata con notevole soluzione di continuità. I musicisti suonano con imperitura maestria col risultato finale di proporre un disco di grande interesse e un supporto dai suoni puliti, decisamente precisi e delineati come quelle giornate in cui la visione sino all’orizzonte è nettamente chiara e incisiva. Questa versione cartonata, comprendente ottime e curiose fotografie nell’interno del libretto, contiene due bonus track di cui una totalmente inedita e l’altra che è versione acustica di un pezzo facente parte dell’ossatura dell’album. Sicuramente un CD e un gruppo su quale gettare un occhio e un orecchio.

Ronald Stancanelli

DARK QUARTERER
Symbols
2008 My Graveyard Prod. CDdarkquarterercov_

È proprio vero che nascere in un luogo anziché in un altro ti modifica l’esistenza. Se i Dark Quarterer provenissero infatti da qualche città industriale inglese, tipo Sheffield o Birmingham, anziché dalla Toscana, sarebbero delle stelle di prima grandezza del firmamento heavy metal. Sono più di trent’anni che il gruppo di Gianni Nepi, voce e basso, Paolo “Nipa” Ninci, batteria, Francesco Sozzi, chitarre, e Francesco Longhi, tastiere si sbatte per farsi un nome nell’ambito del panorama metal internazionale. E alla luce di questo Symbols sarebbe un vero peccato non ci riuscisse. Sì, perché questa loro quinta prova sulla lunga distanza è davvero un monolite di incredibile potenza e bellezza, e il fatto che arrivi da un gruppo italiano riempie di orgoglio. Sessantotto minuti per solo sei brani, il più corto dei quali ne dura nove, il più lungo quasi quindici. Non un solo secondo è però da buttare, tutti i passaggi, raffinati e tecnicissimi sono essenziali allo svolgersi del pezzo. Il comun denominatore fra i brani dell’album è che sono tutti ispirati e dedicati a famosi personaggi storici. Il giovane faraone egizio Tutankhamen parla di sé in Wandering In The Dark (grandissimo l’assolo di chitarra di Francesco Sozzi). Ides Of March è ovviamente dedicata a Caio Giulio Cesare. Parte con delle tastiere molto evocative e cresce davvero potente con intervalli più soffusi quasi progressive e un’ottima prova interpretativa del cantante e autore (anche se in comproprietà) di tutti i brani Gianni Nepi. Una dovuta menzione va anche ai testi, molto curati nel descrivere e ripercorrere la vita del protagonista del brano. Pyramids Of Skulls parla di Gengis Khan, e sembra davvero di trovarsi nel bel mezzo delle scorrerie della cavalleria dell’esercito mongolo. Nella voce e nel canto di Gianni Nepi si sente tutta la potenza, la cattiveria e la ferocia del condottiero. Maestosa nel suo incedere, The Blind Church racconta di Giovanna D’Arco e descrive fin dal tono nel canto la fede della pulzella d’Orleans. Un brano bellissimo con una chitarra elettrica che mi ricorda a tratti il ritornello di Child In Time dei Deep Purple. Bravissimi. Tutti. Il senso del titolo, Symbols, sta nel fatto che, come spiegato nelle note di copertina, ogni sentimento umano può essere simbolicamente identificato nei soggetti protagonisti dell’album, che, come simbolo per la copertina ha scelto L’Uomo Vitruviano di Leonardo Da Vinci, in quanto rappresentazione della perfezione del corpo e della spiritualità. Ultimi due brani Shadows Of Night, molto ritmato e con accenni quasi jazz, con protagonista lo schiavo Kunta Kinte e la sua fuga per la libertà, e Crazy White Race, che inizia sulle note di una inconfondibile marcetta dell’esercito confederato all’epoca della guerra di secessione, dove siamo trasportati nel tepee del capo Apache Chiricaua Geronimo che, nel momento della caduta, chiede aiuto per sé ed il suo popolo a Manitou. Veramente grandioso. Forse ai nostri per sfondare davvero manca un po’ il cosiddetto physique du role, ma noi, che del look ce ne fregiamo, dischi come questo li vorremmo sempre in cima alle classifiche. Lasciate perdere l’ultimo lavoro degli Iron Maiden e prestate invece attenzione ai Dark Quarterer. Nel suo genere questo disco è un capolavoro. Credetemi.

Gianfranco Vialetto

 

THE SADIES
Darker Circles
2010 YepRoc Records CDsadiescov_

I canadesi Sadies sono come il buon vino, invecchiando migliorano. Dopo una serie di album (sette prima di questo) disseminati in dodici anni di carriera, ma mai andati oltre un vago interesse solo per pochi e informati appassionati, e alcune collaborazioni, più (Neko Case) o meno (John Doe) riuscite, giungono a questo Darker Circles che, prodotto dall’ex Jayhawks Gary Louris, inconfondibile il suo tocco, è senz’altro il loro parto più riuscito. Piacciono i Sadies, sia quando giocano a modernizzare i Byrds, quelli degli inizi come in Violet And Jeffrey Lee o nell’iniziale, strepitosa e leggermente più garage Another Year Again, e quelli più country in Postcards, sia in brani come Whispering Circles, dove giocano invece a fare i R.E.M. che giocano a fare i Byrds. Quelli di Reckoning, forse i miei preferiti. Bellissima anche Cut Corners, con la sua epicità da frontiera americana, piacerà sicuramente a Sid Griffin. Solo trentasei minuti, che passano in un lampo, tra il garage/ fuzz con richiami anche a Link Wray di Another Day Again e una ballata come Tell Her What I Said, a metà strada fra il primo Neil Young e i Green On Red più rilassati e tradizionalisti. Sono molti i riferimenti rintracciabili in questo disco, oltre ai già citati Byrds e, per ovvie ragioni, ai mai troppo rimpianti Jayhawks. Si va dal Paisley Underground al country rock californiano di Idle Tomorrows; da una ballata come The Quiet One, che avrebbe fatto un figurone in un qualsiasi disco delle più titolate band degli anni ’80 e mi ricorda un po’ anche i monumentali Church di The Blurred Crusade, al country/ punk di Choosing To Fly col suo tripudio di fidale e banjo fino alla strumentale conclusiva 10 More Songs, dove si possono trovare anche richiami alle colonne sonore di Ennio Morricone e perfino alcune cose degli Shadows. Un ultimo gruppo che viene in mente, attivo una decina di anni fa, sono i Cosmic Rough Riders, britannici, che ormai forse non se li ricorda più nessuno. Davvero bravi Sean Dean, Mike Belitsky, Dallas e Travis Good. Si fossero formati trenta o quarant’anni fa adesso sarebbero un gruppo di culto. Ma non è mai troppo tardi, i bei dischi non hanno data di scadenza, e noi di “Late For The Sky”, che di sterili questioni cronologico/ anagrafiche ce ne freghiamo, non possiamo assolutamente perderci questo gioiellino senza tempo. Grande Disco.

Gianfranco Vialetto

 

 

CHEAP WINE
Stay Alive
2010 Cheap Wine Records 2CDStay_ALive[1]

 
Da tempo non ascoltavo un disco come questo nuovo doppio dal vivo dei Cheap Wine, registrato nell’aprile del 2010. La band marchigiana è maturata incredibilmente, specialmente negli arrangiamenti e nella qualità delle composizioni, ponendosi ormai ai vertici della scena rock europea. Non sto scherzando! Il primo dischetto, incentrato sulla produzione più recente, è semplicemente perfetto. La voce calda e insinuante di Marco Diamantini e la raffinata chitarra del fratello Michele guidano l’opener Just Like Animals; poi il suono si inasprisce nello splendido boogie The Sea Is Down, nel quale emergono il prezioso piano dell’ospite Alessio Raffaelli (dei riminesi Miami & The Groovers), una slide paludosa e l’armonica di Marco. La ballata Circus Of Fools e le atmosfere da frontiera americana dell’evocativa A Pig On A Lead (la chitarra acustica di Michele e il piano si completano alla perfezione) completano il poker di brani tratti da Spirits, il recente indispensabile disco in studio della band. Ma ogni brano merita una citazione: l’intensa Murdered Song, la cantautorale Nothing Left To Say (quell’inizio di armonica e piano è un evidente richiamo a Springsteen, anche se la voce ricorda Steve Wynn), la gloriosa Among The Stones tratta dall’esordio del 1998, l’evocativa e malinconica Evil Ghost con un emozionante crescendo strumentale di slide e piano, una bella cover di Youngstown, lenta nella parte cantata, trascinante nella lunga coda strumentale e la ritmata Shakin’ The Cage. Il secondo dischetto è più elettrico e trascinante, con tracce provenienti in prevalenza da Moving del 2004 e Freak Show del 2007 che evidenziano ancora di più le qualità prorompenti della chitarra di Michele. Il cambiamento di clima si percepisce in Dance Over Troubles che parte con un riff potente, accoppiato con il piano rock ‘n roll di Raffaelli, l’armonica e la voce di Marco e un assolo di chitarra distorto il giusto; un’impressione confermata nella sparata Reckless, un rock punk tiratissimo. Il resto si mantiene su ottimi livelli, ma una citazione è inevitabile per il fulcro del dischetto, il tour de force della strepitosa Loom And Vanish, un brano epico con un inizio acustico che si sviluppa con un progressivo crescendo, raggiungendo l’apice nel magnifico assolo di Michele. Un doppio live degno dei classici degli anni ‘70; il riassunto glorioso della storia di una band che, se prevenisse da Seattle o da Birmingham, godrebbe di ben altra considerazione e popolarità.

Paolo Baiotti

 

 

BLUE COUPE
Tornado On The Tracks
2010 Blue Coupe CDblue_coupe[1]

 

I tre componenti dei Blue Coupe hanno un passato glorioso. I fratelli Albert e Joe Bouchard sono stati la sezione ritmica dei Blue Oyster Cult nel periodo d’oro della band americana, il primo alla batteria e il secondo al basso; entrambi sono ottimi compositori e cantanti discreti. Dennis Dunaway è stato il bassista di Alice Cooper sino al 1976, poi ha collaborato con Joe nel trio Bouchard Dunaway & Smith, mentre Albert ha formato i Brain Surgeons con i quali ha inciso numerosi dischi. Ovviamente, il suono è ispirato principalmente dall’hard rock classico degli anni ‘70, ma non solo. Joe in questi anni ha ripreso a suonare la chitarra, ha insegnato musica e ha affinato le sue capacità di compositore e cantante, mentre Albert ha mantenuto le caratteristiche di mistero e inquietudine presenti nei suoi brani migliori. E il disco è impregnato di questo particolare tipo di atmosfera che ha reso grandi i BOC, non a caso definiti le menti pensanti dell’hard rock americano. I Blue Coupe hanno iniziato a suonare insieme tre anni fa; qualche concerto e numerose prove sono sfociati nella registrazione di Tornado On The Tracks. L’inquietante opener You (Like Vampires) è stata nominata per i Grammy nella categoria di migliore canzone rock e se lo merita appieno, mantenendosi in equilibrio tra rock e gusto per la melodia. L’aspra Angel’s Well ha un testo del poeta Jim Carroll e la partecipazione di Robbie Krieger alla chitarra, mentre Deep End è una tipica composizione di Albert (anche voce solista). La melanconica ballata God I Need You Tonight scritta da Dunaway completa l’ottimo poker iniziale dell’album. I brani successivi sono più alterni; interessante la cover di Dolphin’s Smile, una traccia minore dei Byrds nella quale il trio evidenzia impasti vocali inattesi, ottima Untamed Youth che riesce a mantenere un clima di mistero con una melodia pop, dura e cadenzata Waiting For My Ship composta e cantata da Dennis nello stile dell’Alice Cooper Band. Un esordio promettente da parte di tre professionisti che non si accontentano di riproporre solo i brani classici del loro repertorio. Il sito della band è www.bluecoupeband.com.

Paolo Baiotti

 

 

IQ
The Wake Live At De Boerderij
2010 Gep/Spv CD+DVDiq_live[1]

 
La new wave del progressive britannico dei primi anni ‘80 ha prodotto alla fine una sola band di successo, i Marillion almeno fino a quando il cantante Fish è rimasto nella formazione e tante band rimaste confinate in una nicchia, tra le quali Twelfth Night, Pendragon, Pallas, IQ. Questi ultimi si sono sempre caratterizzati per una coerenza di fondo e la testardaggine nel restare fedeli ai dettami del prog (con una sbandata alla fine degli anni ‘80). Sono ancora sulla breccia faticando come tutte le band indipendenti, ma hanno mantenuto uno zoccolo duro di fan che hanno apprezzato la loro coerenza. Il secondo album The Wake è uno dei più amati dalla band; per celebrarne il venticinquennale ne hanno pubblicato un’edizione limitata quadrupla con demos, outtakes, qualche inedito e un DVD (di qualità video modesta) seguita da un tour nel corso del quale per la prima volta l’album è stato eseguito interamente. Dalla data olandese di Zoetermeer è stato pubblicato un doppio, con un CD che ripropone The Wake e un DVD che aggiunge i bis del concerto. The Wake è un disco emozionante, sicuramente debitore del prog dei Genesis, ma la band non è puramente derivativa, ha personalità forti nel cantante Peter Nicholls e nel chitarrista Mike Holmes, mentre il nuovo tastierista Mark Westworth non fa rimpiangere Martin Orford che ha lasciato il quintetto tre anni fa. Ogni traccia meriterebbe una citazione; la cadenzata title track, la complessa The Magic Roundabout con cambi di ritmo e atmosfera che dimostrano il gusto per la melodia, le capacità strumentali dei musicisti e la teatralità del cantante (che si apprezza maggiormente nel DVD) con un epico crescendo finale della chitarra di Holmes, la drammatica Widow’s Peak, uno dei classici del progressive degli anni ‘80 e la conclusiva, melodica Headlong che si apre in un finale splendido, prima cantato e poi strumentale. Il concerto è piacevole da vedere sul DVD con le proiezioni di immagini e video che accompagnano le canzoni e l’aggiunta di tre brani, Infernal Chorus (con una drammatica interpretazione di Nicholls) e Failsafe dall’ambizioso doppio concept Subterranea e l’intricata suite The Darkest Hour, fluida nonostante i molteplici cambi di ritmo, dal non dimenticato Ever, un altro album che meriterebbe di essere eseguito interamente.


Paolo Baiotti

 

 

FLYNNVILLE TRAIN
Redemption
2010 Next Evolution CDflynnville[1]

 

Vengono da Middletown, una cittadina dell’Indiana nel mezzo del Midwest, i quattro componenti dei Flynnville Train, il cantante Brian Flynn (dotato di una bella voce potente e profonda che a tratti ricorda Ronnie Van Zant), il chitarrista Brent Flynn, il bassista Damon Michael e il batterista Tommy Bales. Hanno esordito nel 2007 con l’omonimo album per l’etichetta del country singer Toby Keith, ma non sono riusciti a emergere; ci riprovano con Redemption, decisamente più spostato verso il rock rispetto all’esordio. Le radici sudiste si sentono eccome e non solo nella voce di Brian, ma è evidente anche l’influenza dell’hard rock classico e del country più ruspante, non quello industriale di Nashville. L’opener Home e la grintosa Preachin’ To The Choir evidenziano con orgoglio la matrice southern del quartetto, anche nei testi vicini alle tematiche della working class. On Our Way è un up-tempo country che resta in testa, 33 Steps una ballata che nelle parti vocali ricorda CSN, Alright un rock energico con richiami agli Aerosmith degli anni ‘70. Notevole Friend Of Sinners, un brano ben costruito con cambi di ritmo e un testo di carattere religioso. Più scontati lo slow country The One You Love e l’honky-tonk di Tip A Can. Molto piacevole il southern country Turn Left con un riuscito intreccio di chitarra elettrica, slide e violino, trascinante il boogie blues Scratch Me Where I’m Itchin’ (non particolarmente originale). Si chiude con una cover di Sandman degli America, con intrecci vocali degni della versione originale nella prima parte e una coda accelerata in puro stile sudista. Undici brani abbastanza brevi e serrati per una band interessante anche in prospettiva. Reperibile sul sito www.flynnvilletrain.com.

Paolo Baiotti

 

PREACHIN STONE
Uncle Buck’s Vittles
2010 Preacher Stone CDpreacher[1]

 

Ci sono ancora band che suonano southern rock. Certo, contaminato dal country e da qualche schitarrata hard rock, ma fondamentalmente il buon vecchio rock sudista dei Lynyrd Skynyrd e degli Outlaws. Una di queste è formata da quattro ragazzi del Nord Carolina giunti al secondo album. I Preacher Stone aderiscono alle parole d’ordine dei bravi redneck (Dio, patria, famiglia, rispetto per la natura, amore per le armi). Inoltre sono talmente attaccati al locale che è diventato quasi la loro seconda casa da dedicargli il titolo del disco: Uncle Buck’s All American Grill è il pub di Salisbury, NC. nel quale suonano ogni fine settimana e che li ha sostenuti a inizio carriera. E di strada ne hanno già fatta! Curato nella confezione e nel suono, il disco ribadisce con forza le radici e le intenzioni di Ronnie Riddle (voce) e Marty Hill (chitarra), leader e principali compositori del quartetto che comprende Josh Sanders al basso e Brent Enman alla batteria. Tra i brani spiccano la granitica Can’t Keep A Good Man Down, la ballata Carved In Stone con un testo dedicato ai veterani, il morbido country rock Come On In, la classica ballatona sudista Hand On The Bible (il testo riguarda il legame indissolubile tra genitori e figli) nella quale emergono la voce potente di Riddle e una chitarra raffinata. A tratti (Nuff Said ad esempio) siamo ai confini con l’hard rock o con il country pop (lo slow Don’t Take Me With You), ma la strada maestra non viene smarrita e Save My Soul ci riporta in piena atmosfera sudista nel testo relativo a un condannato all’impiccagione e nel suono skynyrdiano con un ottimo assolo di Hill. Nel finale due brani atipici: Judge Me Not, un rock vicino al suono grunge composto e cantato da Sanders e una cover di Come Together tosta e ruvida, forse un po’ greve. Per informazioni il sito della band è www.preacherstone.com.

Paolo Baiotti

 

 

TOM GILLAM & TRACTOR PULL
Play Loud… Dig Deep
2009 Blue Rose CDtom_gillam[1]

 

Tom Gillam è un compositore, cantante e chitarrista cresciuto tra il New Jersey e Philadelphia che da anni si è trasferito ad Austin. Con i suoi Tractor Pull ha inciso quattro album in studio, questo live e una raccolta con inediti pubblicata solo in Europa dalla preziosa label tedesca Blue Rose. È uno dei tanti musicisti di roots rock ai confini con il country che macinano chilometri faticando il giusto (e anche di più) per riuscire a emergere. Commesso in un negozio di dischi ha iniziato tardi a incidere, ha avuto gravi problemi di dipendenza dall’alcool e dalle droghe sfociato in una serie di infarti più o meno gravi che lo hanno portato a un passo dalla morte nel 2006. A quel punto è riuscito a ripulirsi e a cambiare vita, quasi un nuovo inizio coinciso con lo spostamento in Texas. Ha una voce che nelle canzoni più morbide ricorda Don Henley e in quelle più veloci e grintose Joe Walsh. La qualità delle composizioni non è straordinaria e questo è un suo limite; ma non mancano passione, energia e carattere, specialmente dal vivo. Registrato tra il 2007 e il 2008 nel corso del tour di Never Look Back, il dischetto offre un riassunto significativo della carriera di Gillam. La grintosa Outside The Lines, la melodica Disappearing Act, il roots rock trascinante di Dallas con il prezioso apporto della solista di Craig Simon e la jammata Shake My Hand con le chitarre che si inseguono senza paura mi sembrano le tracce più convincenti. Interessante la cover della pop song The Girl I Knew Somewhere dei Monkees (una delle band preferite di Tom) in medley con l’inedito strumentale Nova’s Journey. Un live energico e ruspante con versioni allungate e improvvisate senza strafare, che ha il pregio di evidenziare i meriti di Gillam e della sua band più di quanto non avvenga negli album in studio.

Paolo Baiotti

RAY WILSON
Propaganda Man
2008 xxx CDwilson prop man

Di Ray Wilson si può dire, oltre al fatto di essere un ottimo cantante e un bravo autore di canzoni, di avere un gran limite. Ovvero di continuare perseverando oltre ogni misura a confrontarsi in modo ormai quasi irritante coi Genesis. Ci eravamo già permessi precedentemente sulle pagine di “Late” di far notare come nei suoi concerti i pezzi da lui proposti dei Genesis erano ben la metà se non oltre rispetto a quelli a sua firma, anche se nell’ambito di un live show ci può stare, considerando anche che alcuni brani erano decisamente di piacevole ascolto, ricordiamo per fare un esempio tangibile Dancin’ With The Monnlight Knight che pur potendo soffrire un confronto con la voce di Peter Gabriel era da Wilson proposta con notevole spessore. Ma il fatto che a volte ci disorienta è che Ray Wilson è autore di brani non solo piacevoli ma decisamente belli e potremmo qui citare Change, Another Try, Lemon Yellow Sun, She, Sarah, Show Me The Way, Goodbye Baby Blue, The Airport Song, Bless Me, Propaganda Man, On the Other Side, Not About Us con Banks e Rutheford e ci fermiamo qui, essendocene molti altri. Di conseguenza, una accusa rivolta al buon artista scozzese, e non solo da noi, era quella di essersi da un po’ di tempo un attimino fossilizzato sul versante Genesis, pur avendo spiccate doti personali (ovviamente come cantante ma soprattutto come autore di testi) e, infine, il che non guasta, aver fisique du role e notevoli doti di performer sul palco. Questa peculiarità espressa dal vivo che rasentava un certo rischio da un lato era controbilanciata dal fatto che i brani targati Genesis avevano una valenza e un impatto decisamente superiori sul pubblico di quanto non potessero fare canzoni a lui ascritte. Il che potrebbe anche essere vero, ma il vostro cronista le varie volte che lo ha visto dal vivo ha sempre apprezzato e atteso i suoi pezzi più che le varie cover anche se è indubbio che un brano molto noto vive di una sua palese efficacia. Pur ribadendo che tutto questo discorso è riferito al versante live del nostro amico musicista. Quello su cui adesso ci sentiamo di dissentire in toto è il suo nuovo album dal titolo Genesis Klassic nel quale ripropone, questa volta in studio, dopo averle fatte dal vivo in salse varie, ovvero elettriche o acustiche, dette canzoni con una band supportata da un quartetto d’archi. Piacevole o meno, bello o non bello pensiamo che questo sia solamente un disco di cui non si sentiva il bisogno e la riprova è nel fatto acclarato e assodato che il pezzo migliore ovvero Constantly Reminded, peraltro già proposta dal vivo nel CD Live With The Stiltskin, è brano suo! Pur ammettendo che il disco in questione non è malaccio lo saltiamo orientandoci sul precedente del quale per questioni di tempo, che a volte manca e vola pure via, non eravamo riusciti a parlare in altre occasioni. Propaganda Man è un bel disco, certamente inferiore a Change del 2003, ma a differenza di quello che era immediato per quanto concerneva la ricezione da parte dell’ascoltatore questo che forse al primo ascolto può lasciare un pochino indifferenti cresce in modo esponenziale nei successivi fino a divenire decisamente un ottimo, piacevole album. Tutte le canzoni sono firmate da lui in modo solitario o con l’aiuto di Scott Spence, Ali Ferguson e Graeme Hughes. La durata del CD è quella canonica dei vecchi LP che stavano a pelo nella facciata di una C90 e che restano tuttora i tempi più esatti per l’assimilazione di un album.

Ronald Stancanelli

Where have they been?

di Marco Tagliabue

27 dicembre 2010

Ecco i giovani, un peso sulle loro spalle
Ecco i giovani, dove sono stati?
Abbiamo bussato alle porte delle camere più scure dell’inferno
Spinti al limite, ci siamo trascinati a forza
Guardammo dalle quinte mentre venivano rifatte le scene
Ci vedemmo ora come non ci eravamo mai visti
Il ritratto dei traumi e delle degenerazioni
Le pene che avevamo sofferto e di cui non ci eravamo mai liberati
Dove sono stati?

Stanchi dentro, ora i nostri cuori sono persi per sempre
Non possiamo rimpiazzare la paura o le emozioni dell’inseguimento
Queste cerimonie svelarono la porta per il nostro vagabondaggio
Aperta e chiusa, poi sbattuta sulla nostra faccia
Dove sono stati?

(Decades -1980)

Con queste parole, sulle note di un nastro rallentato fino all’arresto, finiva, con Closer (1980), la parabola artistica dei Joy Division. La loro avventura umana si era già tragicamente infranta, poche settimane prima della pubblicazione dell’album, nelle risacche della coscienza di Ian Curtis, voce e immagine della formazione, che pagò con la vita stessa la propria ansia di vivere e di dare un senso nuovo e necessariamente diverso alla propria esistenza.
E’ un tragico momento quello del passaggio dalla giovinezza alla vita adulta, un passo delicato che si compie in genere con la disillusione e la rinuncia ai propri sogni, con l’accettazione di nuove regole e di un nuovo modello di vita; Ian, novello eroe romantico, non volle o non seppe saltare questo steccato e perse la battaglia decisiva contro i fantasmi che si portava dentro, gli stessi fantasmi che avevano in fondo generato la sua Arte.
E’ essenzialmente per questo, per questa malattia inguaribile di cui soffrono gli animi sensibili, che i Joy Division sono e saranno sempre una spina in fondo al cuore per chi, adolescente allora, temporeggia ancora oggi nel crescere e nell’accettarsi adulto, come del resto per chi, adolescente oggi, si accosta per la prima volta alla loro musica.

(da “Joy Division-Here Are The Young Men” di M.Tagliabue LFTS n.49)

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/10

di Marco Tagliabue

24 dicembre 2010

Sacri CuoriPer il suo progetto Sacri Cuori, il chitarrista Antonio Gramentieri ha riunito un cast da urlo: oltre alla band vera e propria che comprende, insieme a lui, John Convertino (batteria), Howe Gelb (piano, chitarra e molto occasionalmente voce), Nick Luca (piano e organo), Thoger Lund (casio) e Massimo Sbaragli (contrabbasso), uno stuolo di collaboratori del calibro di Marc Ribot e Bill Elm alla chitarra, James Chance (proprio lui!) a sax e piano, John Parish alla voce, Christian Ravaglioli all’oboe, Diego Sapignoli alle percussioni, e ci fermiamo qui. Un progetto tutto italiano insomma, che si avvale anche dell’opera di qualificati tecnici stranieri, nato sulle vie polverose del Festival “Strade Blu”, del quale Gramentieri è da tempo organizzatore. Calexico, Giant Sand e Friend Of Dean Martinez, coinvolti a vario titoli attraverso alcuni dei loro membri, rappresentano  un’indicazione più che sufficiente per inquadrare le coordinate di questo ottimo lavoro. Desert-rock quasi completamente strumentale, naturalmente, e del migliore in circolazione da tempo a questa parte. Nate come colonna sonora per il film “The Gilgamesh Tale” di Heriz Bhodi Anam, le registrazioni presenti in questo “Douglas & Dawn” (499 copie numerate in vinile bianco, oltre al coupon per il download in formato MP3, per l’italianissima Interbang Records) si adattano perfettamente a quella lunga sequenza di immagini che la potenza cinematica del loro suono non faticherà ad evocare nella mente di ogni ascoltatore. Il sole accecante genera visioni che dipingono un sound il quale, partendo da una tradizionale ricetta country/blues, si colora di elementi strani, inaspettati, piccole intemperanze che enfatizzano una componente allucinogena più o meno evidente, ma mai del tutto nascosta, che altera le percezioni sensoriali e fa perdere il senso del tempo e dello spazio. Ecco allora, fra i gerani sul balcone, spuntare improvvisamente il peyote…mentre l’orizzonte assume tinte e contorni completamente diversi…

Hugo Race…è sempre Interbang Records, una label da tenere decisamente d’occhio, a curare l’edizione a 33 giri (1000 copie in vinile rosso porpora, su etichetta Gusstaff la versione CD) dell’ultimo, splendido album di Hugo Race “Fatalists”, la terza pubblicazione che lo riguarda in questo fervido 2010, dopo “BKO” a nome del collettivo Dirtmusic, un progetto condiviso con Chris Brokaw e Chris Eckman, ed il lavoro solista titolato ”Between Hemispheres”, improntato a soluzioni strumentali più aeree e sperimentali. Dal giorno in cui Hugo abbandonò la nativa Australia al seguito dei Bad Seeds di “From Here To Eternity” sembra passato davvero un secolo: una carriera da esiliato volontario, un’anima inquieta in pellegrinaggio continuo che lo hanno portato ad attraversare epoche e continenti, stili e movimenti, senza posare il cappello da nessuna parte, senza ferire mai fino in fondo nonostante una produzione sconfinata che vanta più d’una punta di diamante. “Fatalists” riporta Hugo alla sorgente del folk e del blues con un progetto acustico condiviso con la chitarra di Antonio Gramentieri e le percussioni di Diego Sapignoli dei Sacri Cuori, con il violino di Vicky Brown ed il contrabbasso di Eric Van Loo. Otto canzoni scarne, ombrose, per certi versi disperate, che mettono completamente a nudo lo spirito errante di Hugo nel solco di quella tradizione che da Leonard Cohen porta a Mark Lanegan o all’Howe Gelb solista. La sua voce è calda e profonda come non mai, le atmosfere sono crude ed essenziali: melodie che non concedono nulla, che non si servono di facili stratagemmi ma restituiscono, ascolto dopo ascolto, la passione e la disarmante sincerità di chi le ha messe in musica. Dall’iniziale Call Her Name alla conclusiva Nightvision, attraverso la ripresa di quella In The Pines (altrimenti nota come Where Did You Sleep Last Night) che fu anche dei Nirvana unplugged, il ritratto dolente e spietato di un artista vero, outsider per vocazione.

Giant SandLo spirito di Howe Gelb e dei suoi Giant Sand incombe in maniera nemmeno troppo velata sia sui Sacri Cuori che su Hugo Race, come del resto su buona parte di quel rock ispirato ad un deserto che è soprattutto luogo dell’anima. Insieme alla nutrita serie di ristampe volte a festeggiare il venticinquennale del debutto discografico della band, il contratto con la Fire Recordings è inaugurato anche dal nuovo “Blurry Blue Mountain” (CD e LP in edizione limitata a 500 copie in vinile blu e 500 copie picture disc), che segue a distanza di due anni il precedente “Provisions”. Come il legno sul quale è forgiata la copertina, il suono dei Giant Sand (nella stessa formazione dell’ultimo album, con Gelb affiancato dai suoi nuovi compagni di strada di origine danese) tende ormai ad una classicità che anche una buona pialla riuscirebbe difficilmente a scalfire. Sembra proprio che il confine fra i lavori solisti di Howe Gelb e quelli a nome Giant Sand sia sempre più labile se non addirittura inesistente, come se l’identificazione del grande “vecchio” con la sua creatura abbia raggiunto ormai la perfetta sublimazione. Un suono sempre più roots, sempre più americano, che da una solida matrice country rock sempre meno disposta a sporcarsi di elettricità, ingloba qualche elemento jazz, un pizzico di blues, una manciata di swing, un po’ di musica di frontiera. Un disco malinconico e fuggente in cui la voce ed il ruolo di Gelb assumono sempre più quei connotati da “crooner” che stanno caratterizzando da anni la maturità artistica dell’Uomo. Musica per ore notturne non ancora rischiarate dal mattino, per vecchi locali fumosi in prossimità dell’orario di chiusura quando, dimessi gli abiti di scena, camerieri e ballerine tornano uomini e donne normali, semplici, forse un poco delusi dalla quella vita alla quale, ormai, non hanno più nulla da chiedere ma, assolutamente, senza alcun rimpianto.          

Emma TriccaUna delle soprese più piacevoli di questa fine 2010 è stato “Minor White”, il nuovo album di Emma Tricca, finalmente distribuito anche in Italia dopo il recente debutto sul mercato inglese. Romana di nascita, ma cittadina del mondo per scelta e vocazione, Emma si è stabilita a Londra dopo avere rimbalzato fra gli oceani, da Oxford al Greenwich Village. La sua è una musica eterna, un folk delicatissimo e suadente pizzicato sulle sei corde in perfetto fingerpicking, sostenuto da una voce parimenti carezzevole che affida alla musica sogni, speranze, visioni. Ciò che eleva queste canzoni al di sopra delle vagonate di lavori sulla stessa lunghezza d’onda è, innanzitutto, la loro qualità, mai meno che buona, e poi la voce di Emma, in grado di reggere paragoni davvero ingombranti. Se amate le melodie autunnali e non riuscite a fare a meno di Nick Drake nemmeno in piena estate, troverete in “Minor White” e nei suoi dieci confetti acustici una ragione in più per sentirvi ancora innamorati. Anche se, per esperienza, sapete già che ogni amore è destinato a finire male…

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/9

di Marco Tagliabue

12 dicembre 2010

Massimo VolumeNel frenetico passare dei dischi, dei nomi, degli anni, non ci ricordavamo quasi più di quanto bisogno ci fosse ancora di un progetto come quello dei Massimo Volume. Dal loro esordio nel 1993 con “Stanze” fino allo scioglimento nel 2002 dopo album preziosi come “Lungo i Bordi” (1995), “Da qui” (1997) e “Club Privé” (1999), erano trascorsi giusto dieci anni, quasi quanto quelli che li hanno separati da questo inaspettato e graditissimo ritorno. Dieci anni durante i quali ci eravamo fatti prendere da altre mode ed altri modi, durante i quali avevamo imparato ad apprezzare Emidio Clementi come scrittore pensando che questa fosse ormai la sua dimensione definitiva. Poi, improvvisamente, il nome della band è tornato in circolazione per una reunion live, ma nemmeno i più ottimisti avrebbero potuto immaginare un seguito in studio con un (capo)lavoro della portata del nuovissimo “Cattive Abitudini” (Venus/La Tempesta, anche in doppio vinile). Se la disperata liricità dei testi di Emidio Clementi e la potenza evocativa del suo recitativo non sono più una novità, se il drumming preciso di Vittoria Burattini è ormai una solida certezza, quasi una cassaforte per il sound dei Massimo Volume, sono l’entrata nella formazione del nuovo chitarrista Stefano Pilia (un nome di punta dello Stivale sotterraneo che condivide questa esperienza con numerosi altri progetti) e la perfetta fusione con la sei corde storica di Egle Sommacal la vera forza del disco. Si, perchè in questo album ci sono le chitarre più belle che mi sia capitato di ascoltare da un (bel) po’ di tempo a questa parte. Strumenti ora affilati ed urticanti, ora lirici ed avvolgenti, ma sempre in perfetta sincronia e scelta di tempo, in magico equilibrio e reciproco rispetto, impegnati in dialoghi dell’intensità di altri tempi (da Stills/Young ai Sonic Youth), che rappresentano il vero punto di forza del lavoro. Inutile allora perdersi in troppe citazioni: potrete elettrizzarvi con Litio o commuovervi con Mi piacerebbe ogni tanto averti qui, ma non dovete perdervi per nessun conto uno dei dieci, ma anche cinque dischi fondamentali di questo altrimenti arido 2010.

SwansUn altro ritorno del quale si sentiva il bisogno è quello degli Swans di Michael Gira, a quasi quindici anni di distanza dall’ultimo album in studio, “Soundtracks For The Blind” del 1996. Un ritorno non facile visto che, come si premura di ricordare lo stesso Gira nelle note del nuovissimo “My Father Will Guide Me Up A Rope To The Sky” (Young God Records, CD & LP), è stato possibile solo grazie ai proventi derivanti dalla vendita dal sito della label del CD/DVD ”I Am Not Insane” contenente, fra l’altro, le versioni demo dei pezzi che sarebbero finiti poi nell’album, ed alla prevendita del disco in fase di realizzazione a mille valorosi fans finanziatori (Einsturzende Neubauten docet!). Triste pensare che una delle band più importanti degli anni ottanta e di parte dei novanta sia costretta in tal modo ma, si sa, indipendenza e coraggio non sempre valgono a riempire il piatto. Nel ritorno degli Swans ci sono, in parti uguali, il nichilismo apocalittico/rumorista degli esordi di “Filth” (1983) e “Cop” (1984), il disperato romanticismo e la maestosa atmosfera mistica dei capolavori gemelli della maturità, “White Light From The Mouth Of Infinity” e “Love Of Life” (1991 e 92), la dimensione più distaccata, rilassata ed intimista del successivo progetto degli Angels Of Light. Il disco, sicuramente all’altezza delle prove migliori degli Swans, non mancherà di esaltare i vecchi fans della band, anche se difficilmente riuscirà a conquistargliene di nuovi. Una musica che, nonostante le aperture, non è per tutti i palati. No Words/No Thoughts è un’apertura durissima, apocalittica e sconvolgente, Reeling The Liars In stempera i toni con una ballata folkeggiante di ampio respiro. Jim e My Birth, cupa e corale in un disperato crescendo la prima, tesa affilata ed ossessiva la seconda, sono ancora un pugno sui denti. You Fucking People Make Me Sick, con un cameo vocale del protetto Devendra Banhart, inizia come una tenue ballata folk, magari un po’ demoniaca, per sfociare in un’orgia di intemperanze acustiche. Inside Madeline allinea una lunga ed inquietante intro strumentale in crescendo ad un tenue cantato, Eden Prison prosegue imponente, sepolcrale, ossessiva. La chiusura in discesa con Little Mouth, delicata e classicheggiante, è come un bicchiere d’acqua fresca al risveglio da un incubo. O forse era semplicemente un sogno un po’ diverso dagli altri?

The Black AngelsHo amato visceralmente i Black Angels di “Passover” (2006) e “Directions To See A Ghost” (2008) ma, forse proprio per questa ragione, non sono riuscito a reagire altrettanto bene all’ascolto del terzo capitolo della loro avvincente saga, il nuovo “Phosphene Dream”, uscito in CD e LP ormai da qualche settimana per la risorta Blue Horizon, label dal passato importante la cui esperienza si riteneva ormai archiviata per sempre. Medesimo package dei due precedenti lavori su Light In The Attic, quasi a voler sottolineare un senso di continuità nel comune progetto grafico, ma un impianto strutturale e strumentale del tutto diverso. Qualcuno ha voluto a tutti i costi vedere nella pulizia del suono, nella semplicità di fondo delle tracce, negli ammiccamenti al pop ed al garage degli anni sessanta, un passo avanti nella ricerca di una forma canzone più accessibile al gusto di un pubblico un po’ meno “sfasato”…  Chi invece ha amato le lunghe dilatazioni psichedeliche dei precedenti lavori, e lo spirito più anarchico, libero e selvatico che le permeava, avrà modo di sobbalzare sulla poltrona solo con l’iniziale, splendida Bad Vibrations. Ma sarà una pillola dolcissima che renderà il boccone ancora più amaro. Nulla di drammatico, per carità: ne uscissero più spesso, per certi versi, di dischi così! Ma l’amante tradito dalla cortigiana prediletta, si sa, vede nera ogni sfumatura di grigio. Però, lasciatemelo dire, i coretti, le svisate d’organo, la smaccata orecchiabilità di confetti in puro spirito sixities come, per citarne soltanto un paio, Sunday Afternoon o Telephone, rimangono un po’ difficili da digerire… 

Black MountainDopo un lavoro mastodontico e, per certi versi, definitivo come il precedente “In The Future” del 2008, un vero e proprio doppio di altri tempi, anche i Black Mountain hanno registrato valvole ed ingranaggi. Con il nuovissimo “Wilderness Heart”, edito in CD e vinile con coupon per il download gratuito per i soliti tipi della JagJaguwar, sono tornati ad un formato più ristretto, innanzitutto, ed hanno limato certe asperità, delimitato gli orizzonti delle proprie fughe strumentali, cercato più metodo pur mantenendo un pizzico di follia. Hanno voluto, insomma, riportare in strutture più classiche quella classicità che è già insita nel loro suono, ma lo hanno fatto senza snaturarsi, senza rincorrere improbabili chimere, senza inutili strizzatine d’occhio. Il loro hard rock psichedelico con venature progressive continua a lanciare fortissimi segnali nella potenza di brani quali Rollercoaster, Let Spirits Ride, Wilderness Heart, scoprendo anche dolcissime oasi bucoliche in Radiant Hearts, Buried By The Blues o nella conclusiva Sadie, mentre le parti vocali affidate a Stephen McBean ed alla dolcissima Amber Webber appaiono sempre più calibrate e convincenti. Chi li ha visti dal vivo nel recente tour che ha interessato anche il nostro Paese, poi, difficilmente potrà dimenticarseli.

Elogio della Notte

di Marco Tagliabue

4 dicembre 2010

Sembra che in questa canzone Mark Sandman cerchi di aggrapparsi ostinatamente alla vita, come se il buio della notte dovesse calare sopra ogni cosa per sempre con il suo nero sudario. Eppure è solo una struggente, meravigliosa canzone d’amore: “Tu sei la musica che non ho mai ascoltato prima, un altro mondo fuori della mia porta”. Ma in quel canto romantico e disperato che invoca il suo amore come una guida “in questa strada nera come la pece” c’è il presagio di una cecità che sta calando insieme alle prime ombre di una sera che si trasformerà in notte senza fine. Questa canzone e l’album al quale darà il titolo, pubblicati postumi nel 2000, diventeranno il testamento spirituale di Mark Sandman, deceduto a causa di un attacco di cuore improvviso durante un concerto a Palestrina, la sera di sabato 3 luglio 1999. Ogni notte, per ognuno di noi, il mistero della morte si rinnova nel sonno, per cedere il posto al “mestiere” della vita con il risveglio mattutino. Durante uno di questi viaggi, lo sento, Mark canterà “The Night” soltanto per me…