Archivio di dicembre 2016

JOHN CALVIN ABNEY – Far Cries And Close Calls

di Paolo Crazy Carnevale

28 dicembre 2016

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JOHN CALVIN ABNEY – Far Cries And Close Calls (Horton Records/Continental Song City 2016)

La label olandese Continental Song City continua a offrire al mercato europeo una serie di interessanti cantautori provenienti dallo stato che ha dato i natali al grande Woody Guthrie, quelli che mi hanno entusiasmato maggiormente sono Wink Burcham e Carter Sampson, ma anche questo John Calvin Abney ha i suoi perché. Cantautore e polistrumentista è anche produttore di questa sua raccolta di canzoni, la terza se contiamo anche l’EP d’esordio di qualche tempo fa.

Abney si rivela soprattutto ottimo con qualunque strumento e tra le sue composizioni ce ne sono diverse che emergono, soprattutto per quanto riguarda la scelta di certi arrangiamenti, meno interessante la produzione generale, per conto mio penalizzata da un suono di batteria non sempre adeguato, ma si tratta di una mia impressione.

Il disco si divincola bene spaziando tra sonorità diverse che comunque pescano a piene mani dal grande cantautorato americano che ben conosciamo, peccato che la voce non sia particolarmente originale, ma non si può pretendere che tutti questi personaggi minori siano ugualmente dotati vocalmente oltre che ispirati nella scrittura.

Che Abney sia comunque interessante lo si evince fin dalla prima canzone di questo CD, Beauty Seldom Seen è una canzone molto moderna arrangiata con una veste che richiama vagamente certe produzioni di Jonathan Wilson, con un’indovinata pedal steel usata con grande sapienza dal titolare. La successiva Goodbye Temporarily è un autentico tuffo nel passato: il richiamo è il Dylan del 1965/66, davvero in tutti i sensi, con un’accuratezza incredibile nella ricostruzione di quel suono particolare caratterizzato da chitarre secche e organo che ben sappiamo. Senza dubbio è una delle cose più folgoranti del disco, ma attenzione, non è solo citazionismo, Abney ci mette in mezzo un violino che in Dylan non c’era, rendendo così originale il risultato finale. Way Out è una delle canzoni intimiste del disco, piacevole, ma le preferisco Imposter, intima ma più ricca di suono e ancora con quell’organo fantastico a tesserne le trame. I’ll Be Here, Maired è un altro brano dalla struttura rock d’ispirazione dylaniana, anche qui col violino in evidenza. Con Jailbrak il suono si sposta verso un rock psichedelico, l’Hammond diventa Farfisa, l’armonica non rincorre più Dylan ma sembra ispirarsi piuttosto al british blues e pure i cori finali (probabilmente opera della violinista Megan Palmer)sono molto caratteristici.

In Such A Strange Town le atmosfere tornano rarefatte, c’è un bel basso vibrante che ne traccia le linee, ma tutto sommato – a conferma della disparità tra i brani rock e quelli tranquilli che fuoriescono dalla penna di Abney – non si fa preferire ai momenti più strutturati e ritmati che ritornano in Weekly Rate Palace, rock’n’roll forse di routine, con tanto di chitarra ululante. Il finale è affidato alla ballad More Than Moonlight caratterizzata dalla pedal steel e alla delicata e acustica Opportunity.

JOHN STRADA – Mongrel

di Paolo Baiotti

22 dicembre 2016

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JOHN STRADA
MONGREL
New Model Label 2016

L’Emilia-Romagna è da sempre la patria del rock italiano. I primi nomi che vengono in mente sono quelli più popolari di Ligabue, Vasco Rossi e Zucchero, ma alle loro spalle c’è sempre stato grande fermento, dalla Steve Rogers Band ai Rocking Chairs di Graziano Romani, dai Modena City Ramblers a Miami & The Groovers. E tra di loro anche John Strada (all’anagrafe Gianni Govoni), attivo dagli anni ’90, quando pubblicò Senza Tregua e Cavalli Selvaggi, seguiti da soggiorni all’estero per approfondire la materia. Incontrando i soliti problemi dei musicisti cosiddetti minori che si sbattono come dei matti per trovare un loro spazio, ha pubblicato un altro paio di dischi in studio prima del doppio dal vivo Live In Rock’A del 2012 e di Meticcio del 2014, che hanno ampliato il suo raggio d’azione, inserendo importanti tematiche sociali. Ed ora con Mongrel forse ha l’occasione di fare un altro piccolo passo verso l’alto, avendo prodotto un album curato e calibrato che si avvale di collaborazioni di una certa importanza, alternando nuove composizioni a versioni inglesi di brani già pubblicati. Siamo sempre nell’ambito del rock stradaiolo di impronta springsteeniana, quello frequentato da cantatutori navigati come Willie Nile, Elliott Murphy, Joe Grushecky, Joe D’Urso, Michael McDermott, John Cafferty, Southside Johnny. John Strada si richiama a questi autori, in certi momenti è derivativo, ma sta acquisendo una sua personalità anche per merito dei Wild Innocents, la band che lo accompagna stabilmente, formata dal prezioso tastierista Daniele De Rosa, dal bassista Fabio Monaco, dal batterista Alex Cuocci e dal recente acquisto Dave Pola alla chitarra.
Partendo dai brani con gli ospiti, spiccano le due ballate I’m Laughing con l’inconfondibile voce di Michael McDermott e la pianistica Promises con l’amico James Maddock. Meno rilevanti l’opener Headin’Home con Jono Manson (versione inglese di Torno a Casa) e Johnny & Jane con Bocephus King, sia per la qualità compositiva che per una fusione meno riuscita tra le voci. Gli altri brani non sono da meno, a partire dalla springsteeniana Who’s Gonna Drive, proseguendo con l’energica You’ve Killed My Heroes, il ritmato soul-rock Ain’t Gonna Get Up, l’intima ballata Dust And Blood, la latineggiante In The Fog (Nella Nebbia in Meticcio) dove spicca la fisarmonica di Gianmarco Banzi e l’intensa Free Through The Wind. In chiusura l’orchestrale Christmas In Maghreb, replicata nelle bonus tracks da The Misletoe’s Burning, altro brano che ha come soggetto il Natale. Le ultime tracce aggiunte sono Here I Am che ricorda certe atmosfere dei Simple Minds e Walking On Quicksand, apprezzabile ballata guidata dal piano. Mongrel è un disco generoso come il suo autore, forse un po’ lungo, ma con squarci interessanti, molto curato anche nella parte grafica.

MIA ROSE LYNNE – Follow Me Soon

di Ronald Stancanelli

22 dicembre 2016

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MIA ROSE LYNNE
Follow Me Soon

Follow Me Soon è un breve cd, circa 37 minuti, per Mia Rose Lynne, cantautrice americana di Nashville.. Album del quale la sua autrice firma tutti i brani e suona la chitarra acustica oltre ovviamente a esserne la voce portante. Voce suadente e dolce ma nel contempo chiara e incisiva , può un pochino ricordare sia nello stile che nel timbro della voce la grande Mary Mc Caslin della quale da anni non si hanno più notizie. Undici pezzi prevalentemente acustici ma in alcune canzoni vi è un pacato uso della chitarra elettrica da parte di Austin Filingo che produce anche l’album che non ha un etichetta discografica essendo un lavoro in proprio. Per il resto utilizzo di violino e viola da parte di Eli Bishop, pianoforte a cura di Danny Mitchell, basso suonato da Chris Donohue, percussioni e batteria da parte di Joshua Hunt e fisarmonica suonata da Jeff Taylor. Nell’ultimo brano I like You a Real Lot abbiamo un duetto tra la Lynne e Chris Moyse che torna a farci rammentare il connubio Ringer/McCaslin. Un disco molto piacevole, allettante e di grande rilassata formula. La ragazza, dalla graziosa foto di copertina si evince la sua giovine età oltre a una gradevole bellezza, è molto brava e subito al primo ascolto conquista l’ascoltatore con la sua armonica poesia in note frastagliate e melodiose. All’interno del box cartonato presente un allegato con tutti i testi Il disco pur avendolo ricevuto per recensione ultimamente è datato 2015 ma ci sembra doveroso dirne poiché sicuramente merita sia citazioni che ascolti. Ricordiamo che il suo album d’esordio era Open Space del 2014. Infine potremmo anche fare un ulteriore termine di paragone con la nostra Alice Pisano altra giovane artista degna di nota e merito. Follow me Soon il titolo di questo suo bel secondo lavoro e noi seguiamo volentieri la fanciulla nel suo interessante e delicato percorso. Recentemente il cd ha trovato una casa discografica la Baby per la distribuzione negli Stati Uniti.

ESQUELA – Canis Majoris

di Paolo Baiotti

18 dicembre 2016

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ESQUELA
CANIS MAJORIS
Livestock 2016

Chico Finn, compositore, bassista e cantante, è il leader del quintetto Esquela (scuola in spagnolo). E’ cresciuto ascoltando Merle Haggard e Buck Owens; più avanti ha scoperto Rolling Stones, Ramones e Creedence Clearwater Revival, per giungere infine a Bruce Springsteen, The Band, Replacements e Todd Snider. Ha militato in band minori per una decina d’anni prima di formare Esquela nel 2008 con l’amico Keith Christopher (che poi ha lasciato la band). In questa avventura, che ha già prodotto tre albums compreso Canis Majoris, è accompagnato dalla voce di Rebecca Frame, nata in Carolina del Nord, dalla chitarra del suo compagno Brian Shafer, cresciuto ascoltando gruppi di heavy metal e jamband, dalla batteria di Todd Russell, influenzato dall’amore per il rock classico e il rhythm and blues e dalla chitarra di Matt Woodin, appassionato di The Band, Grateful Dead e Motown. Questo assortimento di musicisti è guidato dalla mano esperta di Eric “Roscoe” Ambel, chitarrista e produttore newyorkese che vanta collaborazioni con Steve Earle, Nils Lofgren, Del Lords, Bottle Rockets, Blues Mountain e tanti altri.
Canis Majoris è un disco di roots rock energico, appassionato, profondamente americano che mischia varie influenze: dal Doo-Wop di It Didn’t Take che apre il disco, alla tradizionale irlandese di Need Not Apply che racconta delle difficoltà dei primi immigrati, dal pop-rock di Valentine’s Day al rock anni settanta di Gold Digger che si avvale di un’ottima prestazione vocale di Rebecca, per chiudere con l’unica cover, la grintosa Blue Canoe dei Blue Mountain nella quale si alternano le voci di Chico e Rebecca, mentre la chitarra solista si nota nel finale jammato. Da segnalare l’apporto non secondario delle tastiere dell’ospite Brian Mangini e della pedal steel di Mark Spencer.

MATT BAUER – Dream’s End

di Paolo Baiotti

18 dicembre 2016

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MATT BAUER
DREAM’S END
Crossbill Records 2015

Cantautore indie-folk residente a Brooklyn, ha esordito nel 2006 con l’ep Wasps And White Roses, approdando a Dream’s End attraverso The Jessamine County Book Of The Living, l’ep No Shape Can Hold Me Now e The Island Moved In The Storm. Il nuovo disco segna un cambio di direzione, essendo caratterizzato da arrangiamenti più complessi ed elettrici, con l’inserimento di un quartetto d’archi arrangiato dalla violinista Alisa Rose, preziosa collaboratrice di Bauer già in passato. Un suono più ampio e corposo, utilizzato per raccontare un mondo di creature fantastiche che esprimono immagini ed emozioni personali. Registrato con l’aiuto di numerosi musicisti e cantanti in vari studi tra Texas, Kentucky, New York e California, Dream’s End è un disco che non convince fino in fondo, specialmente nei brani più orchestrati e pieni, come quando il banjo (strumento principale di Matt) si fonde con gli archi e il clarinetto nell’ambiziosa Fox Kits o nella confusa Stag In The Cattails, miscela di archi, banjo, voce sussurrata e piano che non trova una direzione credibile. Alla fine sembrano più focalizzate tracce più semplici e dirette come l’iniziale Fields, No Body dove la voce quasi incredula dell’artista esprime l’incertezza sulla sua identità o la morbida e fragile I Am Trying To Disappear.

KING OF THE TRAMPS – Cumplir Con El Diablo

di Paolo Baiotti

18 dicembre 2016

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KING OF THE TRAMPS
CUMPLIR CON EL DIABLO
Old School Records 2016

Quartetto originario di Auburn, Iowa, ha inciso tre albums prima di questo Cumplir Con El Diablo. Influenzati da roots music, rhythm and blues e country sudista, hanno esordito con Good People nel 2011, seguito da Wicked Mountain e Joyful Noise. La formazione comprende Todd Partridge (voce e chitarra), Adam Audlehelm (tastiere), Ryan Aum (batteria) e Ryan McAlister (basso). Paragonati in passato a Black Crowes e Allman Brothers, in realtà evidenziano influenze più ampie. L’opener See You On The Other Side sembra provenire dai Rolling Stones dei primi anni settanta, con un pizzico di cattiveria in più dovuto alla voce che ricorda David Johansen dei New York Dolls, una slide maligna e una sezione fiati in sottofondo…un inizio promettente! Ain’t No Good è un ritmato errebi cantato con voce rabbiosa, irrorato dai fiati e da un organo bluesato, Nashville Line un rock bluesato con venature country-gospel che potrebbe ricordare il primo Steve Earle, Last Man Standing un blues rock incazzato che richiama il pub rock dei Dr. Feelgood, con una ritmica irresistibile, una voce perfetta per l’occasione e una chitarra slide affilata. Anche nella parte centrale del disco si ondeggia tra il roots rock di That’s Out It Goes, il blues roccato di Airplane Bottles, il soul blues di James Brown e l’effervescente rock grintoso di Depression. A sorpresa nel finale il disco cambia direzione con le ballate Old Crow e ’89 Cutlass che sembrano provenire dalla penna del cantautore Tom Russell, richiamato anche nel modo di cantare. Band interessante, che merita un approfondimento.

DEWA BUDJANA – Zentuary

di Paolo Crazy Carnevale

18 dicembre 2016

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DEWA BUDJANA – Zentuary (Favored Nations/Moonjune Asia 2016, 2 CD)

Sembra davvero inesauribile la vena di questo chitarrista indonesiano che in quattro anni è giunto al quinto disco, per di più doppio, senza perdere un briciolo di smalto e, anzi, divenendo sempre più convincente, per quanto già dall’esordio del 2013 avevamo intuito di trovarci di fronte ad un soggetto di indubbio interesse ed elevate capacità. Per produrre questo Zentuary ci si sono messe ben due etichette, il dipartimento asiatico della Moonjune Records (a cui si devono anche i quattro predecessori) e la Favored Nations di Steve Vai.

Non solo, se nelle opere precedenti si era già assistito ad uno schieramento di accompagnatori di grido reclutati tra gli abituali collaboratori della Moonjune e turnisti titolati, stavolta il gruppo di base è a dir poco da Hall of fame: Dewa ha al suo fianco il bassista Tony Levin e i batteristi Jack De Johnette e Gary Husband (che siede anche alle tastiere e al piano), tutta gente dal curriculum enciclopedico e dal talento indiscusso.

Il doppio disco, il cui titolo è una crasi tra “zen” e “sancturay” è un omaggio del titolare alla madre scomparsa e ci offre varie sfaccettature del chitarrismo di Budjana che con una band solida alle spalle può davvero fare ciò che vuole.

La sua fusion (un brutto termine, ma davvero è difficile trovarne di più appropriati) è un continuo mescolamento tra oriente e occidente, con fraseggi di chitarre e pianoforte che si rincorrono (in particolare il primo dei due dischi sembra particolarmente riuscito) con una sezione ritmica che non perde un colpo e gli immancabili richiami alla madrepatria, qui rappresentata dal flauto tradizionale di Saat Syah e dalle vocalist Risa Saraswati e Ubiet, oltre che dalle frequenti citazioni geografiche indonesiane nei titoli delle tracce del disco.

Non solo, in due brani c’è anche l’Orchestra Sinfonica Ceca, con cui Budjana, a Praga, ha registrato proprio le prime tracce di questo disco, e ancora la chitarra di Guthrie Govan e i fiati di Danny Markovich e Tim Garland.

Sei brani per disco, tutti piuttosto lunghi ed evoluti: la prima composizione, Dancing Tears è già grandiosa, un viaggio di oltre nove minuti in cui Dewa suona anche una chitarra acustica, e il tenore del disco non si abbassa di un tono nella successiva e altrettanto lunga Solas PM, dove davvero chitarra e piano sono protagonisti lanciandosi in fughe con rincorsa.

Cambio di rotta per l’ariosa Lake Takengon, dall’inizio spiazzante e impreziosita da un assolo lancinante nel mezzo. Suniakala, unico brano del disco in cui Dewa non è chitarrista unico, vista la presenza dell’ex Asia Guthrie Gowan, è una composizione d’ispirazione meno orientata verso jazz e fusion, quasi rock piuttosto, a cavallo tra certe cose space-rock un po’ alla Pink Floyd un po’ in odor di progressive, senza dubbio uno dei vertici del disco, anch’essa con un bel passaggio di chitarra acustica.
La composizione seguente, Dear Yullman, ha un incedere cadenzato in crescendo, mentre nella finale Rerengat Langit (Crack In The Sky) troviamo finalmente anche l’orchestra ceca mescolata col flauto indonesiano: sicuramente un esperimento interessante di mediazione tra oriente e occidente, abbastanza differente dal resto di questo Zentuary, ma ricco di suggestioni legate anche alla voce di Risa Saraswati.

Nel secondo disco emergono particolarmente l’iniziale Pancaroba dall’andamento bello tosto, Manhattan Temple, un brano dall’impostazione fusion più tipica e dedicato a Leonardo Pavkovich, mentore di Dewa in occidente e responsabile della Moonjune. E ancora , degna di nota, la lunga Uncle Jack (la composizione più lunga del disco), dalle molteplici sfaccettature e – come tutto il disco – con la sezione ritmica in vena di prodigi.

Molto bella e rappresentativa l’immagine di copertina, che rende molto bene l’idea del melting pot non solo musicale. Del disco, udite udite, è disponibile anche la versione in vinile!!!!

So Long Ricky Mantoan

di Paolo Crazy Carnevale

18 dicembre 2016

Ricky Mantoan con la sua pedal steel guitar[108]

Alla fine di un anno che ha visto lasciarci una lunga schiera di protagonisti della storia della musica rock, due notti fa si è andata ad aggiungere alla triste e lunga lista la morte improvvisa di Ricky Mantoan, protagonista e maestro assoluto del country-rock made in Italy, un musicista dotato e appassionato, oltre che una persona sensibile, timida magari, sicuramente preziosa anche al di là del suo coinvolgimento nel panorama musicale.
Ho avuto il privilegio di essergli amico sin dal 1983, quando i nostri percorsi si incontrarono nella mia città quando lui vi venne a suonare insieme a Skip Battin, ex bassista di Byrds e New Riders Of The Purple Sage.
Da allora le nostre strade si sono incrociate più volte, sono stato più volte ospite a casa sua nel canavese, e lui è stato ospite mio a Bolzano venendovi a suonare sia con Luigi Grechi che col Branco Selvaggio, il gruppo di cui è stato leader dalla fine degli anni settanta ad oggi.
Ho seguito sempre con passione le sue vicende musicali, che si trattasse delle tournee con Greg Harris o con altri country-rockers (incluso un fortuito e memorabile concerto Bresciano con ben tre ex Byrds: Battin, Gene Parsons e Roger McGuinn), sia che si trattasse della sua produzione originale col Branco o da solo. Ma Ricky era anche una persona con cui era semplicemente piacevole trascorrere del tempo chiacchierando, non necessariamente di musica.
L’ultima volta ci siamo incontrati qualche mese fa durante una mia scorribanda in Piemonte e mi ha parlato con entusiasmo della sua esperienza come coautore della colonna sonora del film “The Repairman”. Poi quest’estate a sorpresa me lo sono rivisto spesso in tivù al seguito di Zucchero Fornaciari che lo aveva voluto nel suo gruppo per le comparsate promozionali del suo ultimo disco, Ricky, coi suoi lunghi capelli ormai bianchi ed il cappellaccio da cowboy calcato in testa, seduto dietro la sua pedal steel guitar, in prima serata su Raiuno, Raitre e Canale 5… fantastico!
Voglio ricordarti così amico mio, pensando che ora stai probabilmente facendo una session da brivido con Clarence White e Sneaky Pete, i tuoi favoriti di sempre…
So long Ricky.

Branco Selvaggio 1979-05-01[107]

THE FLYIN’A'S’ – You Drive Me Crazy

di Paolo Baiotti

14 dicembre 2016

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THE FLYIN’A’S’
YOU DRIVE ME CRAZY
Flying-A Records 2016

Il duo formato da Hilary Claire e Stuart Adamson, coppia nella vita e sul palco, pubblica il suo quarto disco indipendente, una raccolta di brani composti quasi interamente dal duo, influenzati dalla tradizione folk, roots e soprattutto country. Sia le voci pulite e potenti che gli arrangiamenti richiamano il country campagnolo texano, con un’attenzione particolare per la melodia e le armonie vocali. In attività da un decennio, vengono prodotti da Chris Cage (proprietario degli studi Moonhouse di Austin dove il disco è stato inciso) e accompagnati da esperti musicisti come lo stesso Cage alla chitarra e tastiere, Lloyd Maines alla pedal steel, Glenn Fukunaga al basso e Paul Pearcy alla batteria. Finanziato da una campagna su Indiegogo, il disco è curato sia nel suono che nella confezione con i testi, ma risulta un po’ laccato e troppo morbido alle nostre orecchie che privilegiano un country più ruvido e imparentato con il rock.
Hilary ha una bella voce che si adatta particolarmente alle ballate come la notturna Mr Blue, l’intima Weak And Wild con la viola di Will Taylor e la conclusiva Wild Texas Wind, mentre Stuart dimostra la sua estensione vocale in It Ain’t Funny. Se alcune tracce cantate in coppia quali The Other Side Of Lonely, Blood And Bone e Roadwork Ahead aggiungono una dose di miele un po’ indigesta, risultano più riusciti un paio di brani mossi nei quali si insinuano influenze rockabilly (l’opener Little Miss Tumbleweed e Blistered). Un disco discreto per appassionati di country tradizionale.

MICHAEL HEARNE – Red River Dreams

di Paolo Crazy Carnevale

14 dicembre 2016

Michael+Hearne+Red+River+Dreams[94]

MICHAEL HEARNE – Red River Dreams (Howlin’ Dog/Hemifran 2016)

Uno dei tanti, dei molti, degli innumerevoli: ma quanti ce n’è negli Stati Uniti, di questi talentosi singersongwriter che sfornano deliziosi dischi come questo?

Hearne è un texano che bazzica l’ambiente musicale fin dagli anni settanta dove ha mosso i primi passi nella natia Dallas, la sua specialità sono le canzoni in odor di country e la chitarra acustica che suona con perizia e le cui note escono in maniera cristallina dalle tracce di questo suo disco, in bilico tra cover con pedigree e brani originali in cui non esita a mescolare riferimenti ai suoi amori musicali ed elementi tipici del songwriting di quei posti.

Di dischi ne ha già all’attivo una decina, tra quelli da solo, le collaborazioni e quelli col suo gruppo, i South By Southwest. Navigando un po’ nel suo sito è evidente che a casa sua Hearne abbia un discreto seguito, grazie anche a concerti campagnoli ben frequentati dal pubblico.

In questo Red River Dreams balzano particolarmente alle orecchie la pulizia del suono, la brillantezza con cui gli strumenti acustici giganteggiano: su tutti la chitarra suonata da Hearne stesso come si diceva, ma anche il violino, il mandolino, il banjo e la Weissenborn guitar, tutti strumenti suonati dal produttore del disco Don Richmond che pare qui il partner che fa la differenza, anche se pure gli altri comprimari, siano le coriste Kelley Mickwee e Susan Gibson, la pedal steel guitar di Carmen Acciaioli (a dispetto del nome è un uomo!) e il piano di Jimmy Stadler fanno benone la loro parte.

Echi di Nitty Gritty Dirt Band (sarà perché negli ultimi tempi l’ho ascoltata molto, sarà anche per via che nella title track si nomina palesemente Mr. Bojangles), ricordi del passato, come in Back In The Day, in cui Michael Hearne menziona i tempi spensierati in cui correva con la sua Chevrolet, quando non c’erano pedaggi da pagare sulla Interstate ascoltando Yesterday e For What It’s Worth alla radio o scimmiottando Jimi Hendrix fingendo di suonare la chitarra (quello che oggigiorno si chiama “air guitar”, ne fanno addirittura dei campionati), il tutto ben sostenuto da un bel tappeto di pedal steel. Altrove, complice il modo di suonare il violino, fanno capolino passaggi che richiamano alla mente la musica delle isole britanniche. Tra le canzoni autografe si distinguono particolarmente anche June 25, 2009, Blue Enough e l’ispirata Lesson To Be Learned For Love.

Belli gli approcci alle canzoni dei titolati ispiratori, con menzione d’onore all’incipit di Endless Sky, firmata dal veterano Chuck Pyle e per l’arrangiamento con cui è rivestita Early Morning Rain di Gordon Lightfoot, più nella norma la conclusiva Return Of The Grievous Angel del sempiterno Gram Parsons.

La voce è un po’ zuccherosa, è vero, ma calza alla perfezione per il disco e per le canzoni.

A Natale siamo tutti più vinilici…

di admin

14 dicembre 2016

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…quindi, siete tutti invitati al Novotel Cardano al Campo (Via al Campo 99) nei pressi dell’aeroporto di Malpensa, per gaudere e gioire con l’edizione natalizia di Malpensa Vinile, fiera del disco, del CD e del DVD.
come sempre, ingresso e parcheggio liberi, dalle ore 10 alle 19.

vi aspettiamo!

BRIAN CULLMAN – The Opposite Of Time

di Ronald Stancanelli

7 dicembre 2016

BRIAN CULLMAN[48]

BRIAN CULLMAN
THE OPPOSITE OF TIME
Sunnyside Records 2016

Dopo il suo debutto nel 2008 con All Fires The Fire Brian Cullman torna con questo solare The Opposite of Time, ove 45 minuti di musica, durata standard dei dischi di una volta, piacevole, quasi dylaniana, ascoltare Times are Tight, scorrono via piacevolmente secondo i canoni classici del cantautorato fondamentale targato Usa. Un po’ anni settanta nelle ballate, più anni ottanta nei brani scalpitanti rock questo album di chiara marca Americana è non solo caratterizzato da bellle e piacevoli canzoni ma anche dalla piacevole voce di Cullman che a tratti ricorda quella del compianto Chris Ledoux. Decisivo anche il nutrito manipolo di musicisti, ben 14, che lo aiutano nell’ arricchimento dell’album senza orpelli inutili ma con strumentazione essenziale e mentre lui si limita alla chitarra e a cantare gli altri immettono ricca strumentazione colorando il tutto con gusto ed eleganza di organo, pianoforte, ukulele, tastiere, basso, percussioni e una presente e decisa pedal steel . Album molto ricco anche per certe sonorità che derivano dall’esperienza che il suo autore ha acquisito in tanti suoi viaggi ed in special modo in quelli verso oriente dove in Iran, Marocco, Senegal e poi Trinidad ha assorbito interessanti tocchettature che come ciliegine su di una torta arricchiscono ed abbelliscono questo interessante e gradevolissimo disco. Tra i musicisti coinvolti una citazione doverosa a Jenni Muldaur del gruppo Ollabelle dotata di una intensa voce. Tutti i pezzi a firma di Brian Cullman mentre spartana e molto essenziale la confezione cartonata senza testi acclusi. Sovietica la copertina !

KAURNA CRONIN – Southern Loss

di Ronald Stancanelli

7 dicembre 2016

KAURNA CRONIN[45]

KAURNA CRONIN
SOUTHERN LOSS
Broken Silence Records 2016

Kaurna Cronin è un cantautore australiano che già dato il cognome non pensiamo debba sentirsi assolutamente a disagio Già attivo con altri album, un primo lavoro caratterizzato da suoni retro elettronici grazie all’aiuto del connazionale Jordan F ottenendo dei risultati più che soddisfacenti e poi cambiando le carte in tavola abilissimo a mescolare sembianze country con rintocchi indie con il suo penultimo album che si intitolava Glass Fool. Adesso contraddistinto da una splendida e suggestiva copertina esce questo Southern Loss. Purtroppo il nostro non è che brilli per quanto concerne la voce che è alquanto anonima e forse leggermente sgraziata. I brani in linea con certo easy contro rock si susseguono in serie senza lasciare il segno ma diciamo anche senza tediare o che il tutto si possa battezzare come dischetto brutto. Diciamo che la cosa migliore resta la copertina e i 36 minuti circa del suo percorso sono perfetti come sottofondo mentre si è affaccendati in tutt’altro. Riascoltato comunque altre volte il lavoro di Cronin, che cognome altisonante mi infonde quasi soggezione, effettivamente sembra meno peggio di quanto lasciasse supporre inizialmente e forse avendo prima esagerato nel quasi affossarlo adesso ci fa compagnia un po’ più volentieri restando comunque nel limbo di album non indispensabili ma neanche onestamente disprezzabili.

HERBERT PIXNER PROJEKT – Summer

di Paolo Crazy Carnevale

7 dicembre 2016

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HERBERT PIXNER PROJEKT – Summer (Three Saints Records 2016)

L’Herbert Pixner Project è un quartetto altoatesino che sta spopolando in casa e Oltralpe con una miscela di musica assolutamente originale e sfuggente ad ogni possibile definizione.

Se in origine questo gruppo, con la denominazione di Trio, aveva cominciato a battere i sentieri di una certa musica di matrice tradizionale, negli ultimi anni Pixner e soci sono diventati quartetto con l’ingresso del chitarrista bolzanino Manuel Randi e la musica ha cominciato ad andare molto oltre la tradizione.

Innanzitutto originalità nel tipo di strumentazione, Pixner suona la fisarmonica, il clarinetto e la tromba, Randi chitarre d’ogni tipo, da quella manouche tipica della musica swing gitana all’elettrica distorta, completano la formazione Heidi, sorella di Pixner, all’arpa e il contrabbassista austriaco Werner Unterlercher. Insieme i quattro riescono a reinventare tutto a modo loro, con grande apprezzamento da parte del pubblico come testimoniano i continui sold out ai loro concerti (ne tengono circa centoventi all’anno e sono in cartellone anche al Folkest di Spilimbergo il prossimo 8 luglio).

Summer il loro disco più recente è la testimonianza della grande originalità del gruppo, un misto che qualcuno chiama World Music, chi vuol darsi un tono li definisce invece jazz, e chi ha paura del nuovo che avanza preferisce continuare a considerare volksmusik: in realtà si possono trovare tutti questi elementi nella musica del Projekt, ma anche tanto altro, soprattutto una grande attitudine rock, in particolare sul palco, ma anche tra le tracce del disco.

Scirocco, il brano d’apertura è ad appannaggio della fisarmonica del titolare del progetto, uno strumentale (come tutte le altre composizioni) d’ispirazione mediterranea, poi ecco arrivare One Million Dollar Blues dove la chitarra elettrica è protagonista e dialoga con la fisarmonica su un tema dalle tinte, come suggerisce il titolo, blues. Breaking Bad è quasi una colonna sonora, sette minuti di invenzioni, con l’elettrica distorta di Randi che impazza e Pixner che passa indifferentemente dalla fisarmonica alla tromba.

Nightingale, firmata da Heidi Pixner riporta tutto su atmosfere più pacate, quasi incantate dal tocco della sua arpa e fa da anticamera all’altrettanto dolce Nur für dich allein. Summer Bossa vede Pixner al clarinetto e alla tromba mentre Randi all’acustica si esibisce in un notevole esercizio di stile in uno dei generi che predilige, c’è spazio per tutti, persino per un azzeccato intervento d’arpa che spiazza l’ascoltatore. Almerisch Landlerisch è indubbiamente il brano dall’anima più fortemente tradizionale, quella riconducibile al punto di partenza che è la musica tradizionale tirolese, e la fisarmonica la ovviamente fa da padrona. String Tango fa intendere le proprie intenzioni fin dal titolo, così come la riuscita Sommernachtswalzer.

Gitanes ostenta tutta la passione di Pixner e Randi per la musica gitana, in particolare per Django Reinhardt, e la parte di chitarra è un pezzo di bravura da strapparsi i capelli. In Cento Lire torna a far capolino la chitarra elettrica, in maniera più discreta ma sempre degna di nota, anche qui siamo quasi al cospetto di una colonna sonora, spaghetti western, ma non nel senso che conosciamo del termine, quanto piuttosto per via delle influenze musicali mediterranee che si insinuano qua e là. La conclusione è affidata ad altri due brani acustici, Novilunio, con la firma di Randi, e Latino, composta da Pixner.

Il disco è stato edito anche in doppio vinile bianco con inediti dal vivo sulla quarta facciata, e naturalmente a tiratura limitata.

RICHARD SHINDELL – Careless

di Paolo Crazy Carnevale

7 dicembre 2016

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RICHARD SHINDELL – Careless (Amalgamated Balladry/Continental Song City 2016)

Richard Shindell, una dozzina di dischi di varia ispirazione alle spalle, è molto orgoglioso di questa sua ultima produzione, una produzione che gli ha richiesto parecchio tempo per la messa a punto.

Una messa a punto fin troppo meticolosa che per il sottoscritto snatura un po’ il risultato finale dividendolo tra alti e bassi evidenti. Non che sia un brutto disco, per carità, è solo un disco troppo diverso. Da sé stesso.

Nelle poche cose che avevo ascoltato di Shindell in precedenza avevo riscontrato lo stesso problema, differenze di generi, tanto da sembrare opere di autori differenti. Ed è la stessa cosa che mi capita di avvertire ogni volta che riascolto questo Careless.

Registrato tra lo stato di New York e l’Argentina il disco emana diversi umori, diverse ispirazioni, diverse voci.

La stessa voce di Shindell è differente da un brano all’altro, talvolta sembra voler correre dietro a Michael Stipe o a qualche altro idolo pop degli anni novanta, in altri momenti evoca – con maggior successo – la grande scuola del songwriting rurale americano: ne è prova esemplare il brano con cui il disco si apre, un brano molto riuscito intitolato Stray Cow Blues, cantato con voce forte e sostenuta, supportato da un adeguato accompagnamento musicale in cui brilla la chitarra elettrica di David Spinozza, per contro la seguente title track segue piste opposte, è un brano urbano e notturno, distante anni luce, come lo è Infrared, uno di quelli che mi piacciono di meno.

Meglio la struttura di Deer In The Parkway, dall’inizio blues quasi solitario che si evolve poi in un trionfo di sonorità che dal blues si distaccano parecchio.

Una delle composizioni migliori è Abbie, solido brano che molto deve alla chitarra di Larry Campbell e al bel supporto vocale di Sara Milonovich, entrambi anche ai violini in questa canzone, e, forse per il fatto che ci sia Campbell, il brano non cela un qualche richiamo a certe sonorità di The Band. Buona anche Atlas Choking che ha vaghe e curiose rimembranze di certe Bond-songs, quasi fosse stata prodotta per un film di 007 ambientato nelle campagne americane. In chiusura Shindell torna al cantato intimista con Before You Go, non male, e a Michael Stipe con Satellites.

Poco convincente la conclusiva The Dome, eseguita in solitudine, soporifera e con troppi effetti fuori luogo.

LAZY AFTERNOON – Whatever!

di Ronald Stancanelli

6 dicembre 2016

LAZY AFTERNOON[43]

LAZY AFTERNOON
Whatever!
Autoprodotto 2016

Riceviamo per recensione un cd dalla accattivante copertina in puro stile tex-mex e ne immaginiamo subito la provenienza invece i Lazy Afternoon sono una band svedese che non ha nulla a che vedere con sound scandinavi ma bensì orientata decisamente, come si legge in copertina, verso la musica americana, quelle che coniuga il country col tex mex, il cajun e certo rock di frontiera. Album con ben tre chitarre, basso, batteria e ovviamente fisarmonica, vi trova posto anche un bouzouki anche se non crediamo abbia una grande attinenza con la musica in questione. Non vi sono cover essendo i brani tutti a firma dei componenti il gruppo. Un album che è un divertimento per coloro che l’hanno scritto e suonato e dovrebbe esserlo anche per coloro che ne fruiscono ascoltandolo ma avendo alle nostre spalle ore di musica con personaggi come Doug Sahm, Wess McGee, Flaco Jimenez, I Texas Tornado, Augie Meyers, I Black Sorrows e tanti altri questo dischetto pur essendo divertente e animato da buona volontà ci lascia un pochino indifferenti. Manca quel ritmo, quell’anima sudista festaiola, quel confine tra Texas e Messico che ha reso straordinariamente gioiosa questa musica, solare e maestosa, la Sun Belt, qua manca tutto questo e forse veramente il nord Europa è troppo distante da quella realtà. Non vi è casa discografica il che ne consegue che trattasi di cd autoprodotto, inoltre lo stesso salta e si blocca continuamente, insomma un disastro.

A Bergamo la quinta mostra mercato del disco e del CD

di admin

5 dicembre 2016

5TH CONVENTION-2[72]

Si svolgerà il prossimo 11 dicembre, al Cristallo Hotel di Bergamo, in Via Ambiveri, 35, la quinta edizione della Mostra Mercato del disco e del CD.

L’ingresso è libero e l’orario di apertura è dalle ore 10.00 alle 19.00.

INTERVENITE NUMEROSI!

DEX ROMWEBER – Carrboro

di Ronald Stancanelli

3 dicembre 2016

ROMWEBER DEX[46]

DEX ROMWEBER
CARRBORO
Bloodhot Records 2016 importato da IRD

Carrboro di tal Dex Romweber è album di un musicista che non conosciamo e questo cd giuntoci fresco dalla IRD arriva a proposito per farcelo conoscere. Tra post cowpunk, garage, rock, rocckabilly e rock and roll questo artista proveniente pare dall’area urbana di Chicago è dotato di personalità da vendere e questo suo lavoro ce lo fa anche accomunare al Dave Alvin di Border Radio ma molte sono le sue influenze come appunto i Blasters, i Beat Farmers,il Nick Cave più dark, e certi eroi rocckabilly degli anni cinquanta. Insomma un album godibilissimo che ha dalla sua decenni di musica americana e anche inglese di gran lignaggio. Coadiuvato dalla sorella Sara che pesta con accuratezza la batteria ci da un cd che è una decisamente una lieta sorpresa. Sei brani su tredici sono a sua firma e il tutto è caratterizzato da un sound scoppiettante e vigoroso pur senza eccedere in noie inutile , anzi i suoni sono misurati e tutti al poto giusto mentre il tipo ha la fortuna dalla sua di avere una voce piacevolissima e specificatamente adatta per detto genere. Andando con la memoria, in certi frangenti ricorda anche il miglior Ben Vaughn, autore negli anni novanta di album strepitosi, e ci regala con questo piacevolissimo lavoro un freschezza di energia non comune. Nel suo passato una decina d’anni con una band dal suggestivo nome di Flat Duo Jets che all’epoca coniugava psichedelìa, rock e punk di maniera e oggi ci delizia con questo album pregno di svariate atmosfere, in un pezzo al piano si erge anche a crooner della situazione mentre nel successivo sta a mezza via tra Link Wrai e Greg Kihn. Troviamo di tutto e di più in questa eccellente quarantina di minuti, che per me restano il dosaggio o minutaggio esatto per ogni album. In prima di copertina lui e in quarta la sorella entrambi rigorosamente in bianco e nero mentre la foto interna ricorda o vuole essere un omaggio ai Clash e al tempo d’oro del miglior punk rock. Bel disco, inatteso e piacevole,