JOHN CALVIN ABNEY – Far Cries And Close Calls
di Paolo Crazy Carnevale
28 dicembre 2016
JOHN CALVIN ABNEY – Far Cries And Close Calls (Horton Records/Continental Song City 2016)
La label olandese Continental Song City continua a offrire al mercato europeo una serie di interessanti cantautori provenienti dallo stato che ha dato i natali al grande Woody Guthrie, quelli che mi hanno entusiasmato maggiormente sono Wink Burcham e Carter Sampson, ma anche questo John Calvin Abney ha i suoi perché. Cantautore e polistrumentista è anche produttore di questa sua raccolta di canzoni, la terza se contiamo anche l’EP d’esordio di qualche tempo fa.
Abney si rivela soprattutto ottimo con qualunque strumento e tra le sue composizioni ce ne sono diverse che emergono, soprattutto per quanto riguarda la scelta di certi arrangiamenti, meno interessante la produzione generale, per conto mio penalizzata da un suono di batteria non sempre adeguato, ma si tratta di una mia impressione.
Il disco si divincola bene spaziando tra sonorità diverse che comunque pescano a piene mani dal grande cantautorato americano che ben conosciamo, peccato che la voce non sia particolarmente originale, ma non si può pretendere che tutti questi personaggi minori siano ugualmente dotati vocalmente oltre che ispirati nella scrittura.
Che Abney sia comunque interessante lo si evince fin dalla prima canzone di questo CD, Beauty Seldom Seen è una canzone molto moderna arrangiata con una veste che richiama vagamente certe produzioni di Jonathan Wilson, con un’indovinata pedal steel usata con grande sapienza dal titolare. La successiva Goodbye Temporarily è un autentico tuffo nel passato: il richiamo è il Dylan del 1965/66, davvero in tutti i sensi, con un’accuratezza incredibile nella ricostruzione di quel suono particolare caratterizzato da chitarre secche e organo che ben sappiamo. Senza dubbio è una delle cose più folgoranti del disco, ma attenzione, non è solo citazionismo, Abney ci mette in mezzo un violino che in Dylan non c’era, rendendo così originale il risultato finale. Way Out è una delle canzoni intimiste del disco, piacevole, ma le preferisco Imposter, intima ma più ricca di suono e ancora con quell’organo fantastico a tesserne le trame. I’ll Be Here, Maired è un altro brano dalla struttura rock d’ispirazione dylaniana, anche qui col violino in evidenza. Con Jailbrak il suono si sposta verso un rock psichedelico, l’Hammond diventa Farfisa, l’armonica non rincorre più Dylan ma sembra ispirarsi piuttosto al british blues e pure i cori finali (probabilmente opera della violinista Megan Palmer)sono molto caratteristici.
In Such A Strange Town le atmosfere tornano rarefatte, c’è un bel basso vibrante che ne traccia le linee, ma tutto sommato – a conferma della disparità tra i brani rock e quelli tranquilli che fuoriescono dalla penna di Abney – non si fa preferire ai momenti più strutturati e ritmati che ritornano in Weekly Rate Palace, rock’n’roll forse di routine, con tanto di chitarra ululante. Il finale è affidato alla ballad More Than Moonlight caratterizzata dalla pedal steel e alla delicata e acustica Opportunity.