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FABRIZIO POGGI – Basement Blues

di Paolo Crazy Carnevale

19 febbraio 2023

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FabrizioPoggi – Basement Blues (Appaloosa/IRD 2022)

Ci riesce sempre a sorprendere Fabrizio Poggi, sia che se ne salti fuori con un disco nuovo di zecca, che con un progetto tematico come gli ormai molti dischi usciti negli ultimi anni (pensiamo a Spaghetti Juke o il disco del 2021 condiviso con Enrico Pesce).

Stavolta, come fanno i musicisti di razza che ha frequentato nella sua lunga carriera (con i Chicken Mambo, da solo o con Guy Davis), Fabrizio ha ravanato nei suoi forzieri e messo insieme una brillante raccolta di brani che erano in qualche modo rimasti senza casa, o parafrasando il titolo, erano rimasti in cantina.

Il titolo di questo bel disco chiama però in casa anche un’altra cantina: non quella buia dove noi respiravamo piano, bensì quella di West Saugerties, stato superiore di New York, dove Bob Dylan, Robbie Robertson, Rick Danko, Richard Manuel e Garth Hudson si trovavano a jammare nei mesi successivi all’incidente motociclistico che tutti sanno. Levon Helm sarebbe arrivato, o quantomeno tornato, dopo.

La foto di copertina ci consegna addirittura Fabrizio e la sua armonica che sbucano fuori da un modellino ligneo della casa con la facciata rosa: il nostro armonicista è particolarmente legato a quelle atmosfere anche per via dell’amicizia di lunga data che lo lega a Hudson.

Venendo allo specifico del disco, la cosa che stupisce è la magia che si sprigiona da una traccia all’altra, la pulizia del suono, il fatto che ogni brano si sposi alla perfezione con quello che viene prima e con quello che lo segue, pur essendo stati incisi in contesti e tempi differenti. Tutto è stato registrato tra il 2010 ed il 2015, per lo più i brani vedono l’accompagnamento di Enrico Polverari alla chitarra, splendido sparring partner, sia che ci sia solo lui alla chitarra, sia in versione full band. A dominare ovviamente sono la voce intrisa di soul di Fabrizio e la sua inconfondibile armonica, a volte molto folkie, altre filologicamente blues (pensiamo alle due outtake di Spaghetti Juke Joint in cui al fianco di Fabrizio c’è nientemeno che la chitarra di Ronnie Earl). Ci sono ben tre brani con il bluesman Guy Davis, uno di studio e due tratti dai concerti americani che Fabrizio ha tenuto con lui nel 2014: la lunga Black Coffee, Little Red Rooster e See That My Grave Is Kept Clean, tutte particolarmente vibranti e belle testimonianze dell’affiatamento tra i due musicisti.

In John The Revelator, outtake di Mercy oltre band italiana c’è nientemeno che Garth Hudson col suo organo.

Nel disco però non ci sono solo classici riconosciuti e riconoscibili del genere, Poggi si conferma preparato anche in sede di composizione e le sue canzoni originali, Midnight Train, Your Light, Blues For Charlie, l’iconica Boogie For John Lee Hooker la dicono lunga su quanta strada e quanta dedizione ci siano nelle lamelle dell’armonica di questo musicista. Ascoltate come si approccia all’immortale The Soul Of A Man di Blind Willie Johnson, basterebbe questa da sola a fare di questo disco un superdisco, se poi contate tutto il resto…

Paolo Crazy Carnevale

FABRIZIO POGGI & ENRICO PESCE – Hope

di Paolo Crazy Carnevale

9 luglio 2021

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Fabrizio Poggi & Enrico Pesce – Hope (Appaloosa/IRD 2021)

Infaticabile e sempre propositivo, ad un anno appena da For You, realizzato durante il primo lockdown, quello più severo e drammatico, Fabrizio Poggi, sempre sponsorizzato dalla Appaloosa torna con un nuovo disco, di cui condivide la paternità col pianista e compositore di musica da film Enrico Pesce.
Anche stavolta sembra trattarsi di un disco fortemente legato al periodo storico attuale e il titolo non lascia dubbi sulla sua ispirazione.
Una decina di brani, dominati quasi totalmente dal suono del pianoforte di Pesce e dalla voce di Poggi, che qui si fa soprattutto interprete vocale, anche se la sua preziosa armonica non manca di fare capolino qua e là.
Brani che pescano nella tradizione, oppure recano firme importanti o ancora, nella metà dei casi sono composti ex novo dai due autori.
Il risultato è un disco molto godibile, intriso di soul, e non potrebbe essere diversamente viste le sfumature della voce di Poggi e il suo modo di sentire la musica, decisamente non comune.
Il piano di Pesce si sposa alla perfezione ed è protagonista alla pari.
E poi, a mettere la ciliegia sulla torta, ciliegia di grande rilievo e bontà, ci sono le voci di Sharon White (da anni corista nel gruppo di Eric Clapton) ed Emilia Zamuner, che infondono ai brani in cui duettano con Fabrizio Poggi un’ulteriore connotazione black.
Alla base delle canzoni, sia quelle nuove che quelle ripescate, c’è il concetto del “ogni vita è importante”, gemello del “black lives matter” che è rimbalzato da un angolo all’altro del mondo dopo i tristi episodi di violenza gratuita accaduti con frequenza negli Stati Uniti negli ultimi dodici/quattordici mesi.
Ovviamente piacciono molto i brani originali, dall’iniziale Every Life Matters che è appunto il brano guida del concetto poc’anzi espresso, la composizione che reca le firme sia di Poggi che di Pesce ed è arricchita dalla voce della White e da un handclapping che sembra riportarci in una chiesa di Harlem, alla conclusiva Song Of Hope, passando per Leave To Sing The Blues, molto New Orleans, e I’m Leavin’ Home: in tutte Poggi è soprattutto cantante e il piano è lo strumento principale, anche se poi un bel passaggio di armonica ci scappa sempre.
Le cover sono tra le più varie, dall’antica Hard Times di Stephen Foster, brano che abbiamo ascoltato in molte versioni (da quella ruvida di Dylan a quella di Emmylou Harris) e che non sfigura nemmeno in questa, a I Shall Not Walk Alone di Ben Harper. Poi ci sono i brani tradizionali: l’ottima Motherless Child (in duetto con la Zamuner e con un bell’intervento alla sei corde di Hubert Dorigatti, bluesman eccellente di cui ci siamo già occupati e di cui è assai atteso il debutto su Appaloosa), House Of The RIsing Sun, Goin’ Down The Road Feelin’ Bad, tutte composizioni che ci suonano incredibilmente familiari eppure al tempo stesso brillano per la spartana originalità dei nuovi abiti cuciti loro addosso da Pesce.
Oltre agli artisti menzionati, nel disco ci sono pochi altri interventi, giusto una spruzzata di basso (Jacopo Cipolla) e percussioni (Marialuisa Berto e Giacomo Pisani), da qualche parte fa capolino anche un hammond non accreditato ma verosimilmente attribuibile a Pesce.

Paolo Crazy Carnevale

FABRIZIO POGGI – For You

di Paolo Crazy Carnevale

13 agosto 2020

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Fabrizio Poggi – For You (Appaloosa/IRD 2020)

Un inizio insospettabilmente notturno, guidato in punta di contrabbasso da Tito Mangialajo Rantzer, per questo nuovo disco di Fabrizio Poggi, uno dei più attivi e interessanti musicisti italiani dediti alle radici del suono americana. Poggi, che tra carriera solista e Chicken Mambo ha oltre una ventina di produzioni alle spalle, per non dire delle collaborazioni con sparring partner d’eccezione al di là e al di qua dell’oceano Atlantico, ha dato alle stampe questo nuovo disco la scorsa primavera. Un disco breve ma intenso, ricco di sonorità che mescolano il blues ed il gospel con al musica notturna e vibrante delle metropoli, composto prevalentemente da brani tradizionali rimaneggiati e arrangiati sapientemente da Poggi e dal suo producer Stefano Spina (impegnato anche alla chitarra elettrica, alle tastiere, al basso elettrico e alla batteria).

L’armonica è ovviamente protagonista a trecentosessanta gradi, come del resto la voce soul e densa di sfumature di Fabrizio, ma la particolarità sta proprio nell’uso di strumenti più inusuali come il contrabbasso e i fiati che ci riportano in fumosi club metropolitani, distanti anni luce dai juke joint campagnoli a cui il titolare aveva dedicato non molti anni fa un altro riuscito disco.

For You, che ruba il titolo ad una canzone di Eric Bibb qui inclusa, parte con le riletture di Keep On Walkin’, If These Wings e Chariot (che altro non è che la nota Swing Low Sweet Chariot), riletture che profumano, o forse meglio dire odorano, di Harlem e della Grande Mela delle ore tarde.

Fiati, armonica e il suddetto contrabbasso sono la colonna portante di tutte e tre le composizioni, per contro invece la successiva Dont’ Get Worried (altresì nota come Keep Your Lamp Trimmed and Burning), è elettrica vibrante, accattivante. Le fa seguito il gospel di I’m Goin’ There, altro brano particolarmente riuscito, notturno ma in modo diverso.

A questo punto tocca alla cover di Eric Bibb, aperta da un accenno di vibrato dell’armonica che sembra Neil Young, poi parte la voce e l’unico strumento a supportare Poggi in questa versione è il piano di Stefano Intelisano (vecchio amico dai tempi dei Chicken Mambo) e nella seconda parte una sezione d’archi sintetizzata. Il brano sfocia nella successiva My Name Is Earth, la prima delle tre composizioni che portano la firma del titolare, il brano è molto arrangiato, con un bell’intervento all’organo di Pee Wee Durante ed un robusto coro in cui si inserisce la voce dell’ospite Arsene Duevi, originario del Togo; notevole la coda strumentale che termina, in linea col brano che è un omaggio a Madre Terra, con una serie di voci di bambini che restano in sottofondo anche sulla partenza di un altro traditional dalle movenze più smaccatamente blues di matrice elettrica, Just Love, in cui brilla la chitarra elettrica di Enrico Polverari.

Con Sweet Jesus, Poggi ci omaggia di una canzone originale più allegra, sorretta da armonica e chitarra pizzicata e archi, il tutto prima del finale di It’s Too Late, struggente e corale composizione scritta con Arsene Duevi, che vi suona anche l’acustica e canta nella sua lingua.

FABRIZIO POGGI – Il soffio della libertà

di Paolo Crazy Carnevale

3 ottobre 2015

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FABRIZIO POGGI
Il soffio della libertà
(Appaloosa 2015)

Sono passati più di una ventina d’anni dal primo incerto CD di Fabrizio Poggi con i Chicken Mambo, un’autoproduzione un po’ sfilacciata che brillava al contrario per una totale mancanza di produzione sonora. Ma questi anni non sono passati invano, i Chicken Mambo hanno pubblicato altri dischi, hanno cominciato a frequentare gli artisti americani che amavano e a farsi produrre seriamente da gente come quel Merrel Bregante di “logginsandmessiniana” memoria, guadagnando punti e facendosi le ossa offrendo i propri servigi anche agli artisti americani in transito per la penisola.

Fabrizio Poggi, a meno di un anno dal buon disco dedicato al blues più viscerale intitolato Spaghetti Juke Joint ha cominciato a portare in giro uno spettacolo ispirato alla musica che per anni è stata identificata come colonna sonora delle lotte per i diritti civili, soprattutto in quei caldi anni sessanta che hanno avuto il loro massimo momento col famoso discorso del reverendo King (Martin Luther Jr.) a Memphis. Per lo spettacolo, intitolato Il soffio della libertà/Il blues e i diritti civili, Poggi ha assemblato una serie di brani storici di quel filone blues/gospel che ha fatto il giro del mondo in quegli anni attraverso le interpretazione di bluesmen neri e di sostenitori bianchi come Joan Baez, Pete Seeger e altri. Il risultato è un’opera filologica interessantissima, quasi minimale, senza fronzoli, credibile dalla prima all’ultima nota che l’Appaloosa ha pubblicato a mo’ di colonna sonora dello spettacolo. Qui i musicisti diventano tutti secondari, tanto che sappiamo che ci sono perché citati quasi alla rinfusa sul retro di copertina e qua e là ascoltando il disco possiamo riconoscerli (tipo Garth Hudson e di il suo organo in I Heard The Angels Singing o i Blind Boys Of Alabama in I’m On My Way): quel che conta sono le canzoni, interpretate con intensità e convinzione. Non si tratta di brani incisi ex novo, alcuni erano già apparsi in altri dischi dell’armonicista, ma per lo più qui sono state utilizzate versioni alternative o del tutto inedite e la cosa che colpisce maggiormente è che pur risalendo le registrazioni a periodi differenti, il disco suona con un’unitarietà stupefacente!

Poggi non ha la voce nera, ma è calda e il suo modo di interpretare questi brani è autentico, e a metterci il tocco black ci pensano gli ospiti, lui la negritudine la tira fuori dalla sua armonica Marine Band e la soffia in classici come We Shall Overcome (per altro brevissima e messa lì a mo’ di ouverture, Oh Freedom – una delle più note canzoni del movimento per i diritti civili – qui riproposta in maniera molto convincente con dispendio di ospiti (ad occhio e croce direi che l’organo qui è quello di Augie Meyers), Jesus On The Mainline, Precious Lord in versione quasi western, You Gotta Move (che grande armonica sentiamo qui!), la dylaniana I Shall Be Released, in verità legata al periodo storico considerato solo per il rotto della cuffia ma dal testo che ben si adatta alla bisogna. Più che blues gospel, ma non solo gospel. Venature rock appena spruzzate, soul primordiale, qualche riferimento al country blues.

In conclusione il gospel dei gospel, un’intima Amazing Grace che Poggi ha recentemente suonato proprio sulla tomba di Martin Luther King, un brano che racchiude in sé tutto il senso di questa musica, che lo si ascolti nella versione strappalacrime di Elvis, in quella a cappella dei Byrds o in quella con cornamuse recentemente incisa dalle Celtic Woman.

FABRIZIO POGGI & CHICKEN MAMBO – Spaghetti Juke Joint

di Paolo Crazy Carnevale

19 novembre 2014

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FABRIZIO POGGI & CHICKEN MAMBO
Spaghetti Juke Joint
(Appaloosa 2014)

Oltre vent’anni di attività alle spalle e una dozzina di dischi non sono pochi per una formazione italiana che opera nell’ambito della musica d’oltreoceano, tanto più con riconoscimenti di riguardo da parte dei musicisti a cui Fabrizio Poggi e soci si ispirano. Gli apprezzamenti sono evidenti scorrendo le note di copertina dei loro dischi, spesso ricchi di guest star, texane o chicagoane che siano, da Jerry Jeff Walker a Garth Hudson a Zachary Richard fino agli ospiti che si uniscono ai Chicken Mambo in questo nuovo disco tematico.
L’idea di base è quella che gli immigrati italiani di fine ottocento – andati a raccogliere cotone in luogo degli afroamericani che con la schiavitù ormai abolita se ne erano andati a cercare occupazione e fortuna nel nord industriale – possano aver avuto qualche implicazione col blues che usciva dalle juke joint in cui trascorrevano il tempo libero i neri che erano rimasti a lavorare nei campi di cotone del Mississippi. E chissà, magari uno di loro potrebbe aver gestito una di queste juke joint il cui nome avrebbe potuto essere proprio quello che suggerisce il titolo del CD di cui stiamo parlando.
Fabrizio Poggi ha sempre avuto un debole per gli album tematici e lo si evince in quasi tutta la sua produzione recente: la nuova fatica è tutta blues, un omaggio al blues considerato sia nelle radici rurali che nell’estensione urbana elettrica che nella seconda metà del novecento ha favorito la diffusione commerciale del genere. Da Slim Harpo a Little Milton a Sonny Boy Williamson (non dimentichiamo che Poggi oltre ad essere dotato di una voce molto soul è in primis un armonicista con i controfiocchi), passando per il Junior Parker di Mistery Train, il Tom Waits di Way Down In The Hole e l’immancabile B.B. King di Rock Me Baby, questo Spaghetti Juke Joint è una bella raccolta di classici del genere, con qualche brano a firma dello stesso Poggi, apprezzabili I Want My Baby e Devil At The Crossroad, più di routine e ripetitiva Mojo.
A rinforzare i Chicken Mambo ci sono le tastiere di Claudio Noseda, la voce di Sara Cappelletti e le chitarre americane di Sonny Landreth, Ronnie Earl e Bob Margolin.

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/30

di Paolo Baiotti

10 dicembre 2013

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MIAMI & THE GROOVERS

NO WAY BACK

CD + DVD         2013            Miami & The Groovers

 

Tredici anni di storia, tre dischi e due ep in studio, un bootleg live, migliaia di chilometri e centinaia di concerti in Italia e all’estero…tutto questo è riassunto in No Way Back, eccellente doppio audio e video che celebra quanto il quintetto riminese ha costruito con passione, pazienza e tanto sudore. Era ora che pubblicassero un live perché se c’è un gruppo rock italiano che sembra nato per suonare dal vivo sono proprio loro. Lorenzo Semprini ha un entusiasmo e un sorriso contagioso, forse non è ancora riuscito a togliere dal suo inglese un fondo di accento romagnolo, ma è un vocalist notevole e un uomo da palcoscenico, Beppe Ardito è un chitarrista concreto ed essenziale, capace di alternare schitarrate punk ad assoli romantici e drammatici, la sezione ritmica di Marco Ferri e Luca Angelici è pulsante e scattante come deve essere e le tastiere di Alessio Raffaelli (che si divide tra Miami e i Cheap Wine) fanno da collante ritagliandosi spazi importanti e ben sfruttati. No Way Back è stato registrato nella bomboniera del Teatro Comunale di Cesenatico il 23 e 24 marzo di quest’anno davanti ad un pubblico che merita di essere citato, perché il rapporto tra questo gruppo e i fans è stretto, viscerale, affettuoso, famigliare (c’è anche un sito: http://www.miami-supporters.com/index.asp), un piccolo fenomeno italiano che ricorda quello che accade su scala ovviamente diversa a Bruce Springsteen…da sempre la principale ispirazione di Semprini che due anni fa ha coronato il sogno di dividere un palco con Bruce ad Asbury Park durante i concerti del Light Of Day. Ma la musica dei Groovers, se è vero che è partita idealmente dal New Jersey, ora ha una sua peculiarità e una validità che prescinde dalle ispirazioni che oltre al Boss si riallacciano da un lato alla tradizione del folk e del rock cantautorale americano da Tom Petty a John Mellencamp, dall’altro alla rabbia del punk di Clash e Ramones e all’irish rock di Pogues e Flogging Molly. Alla festa di Cesenatico hanno partecipato numerosi amici: Daniele Tenca, Riccardo Maffoni, Renato Tammi, ma i veri protagonisti sono i Groovers e la loro musica, filmata e registrata con professionalità degne delle migliori produzioni internazionali. La scaletta con alcune differenze tra la parte audio e video, privilegia il recente terzo album Good Things eseguito quasi interamente, ma pesca generosamente anche dai due dischi precedenti oltre a qualche cover inedita. Spiccano la drammatica opener Always The Same, introdotta dal piano liquido di Raffaelli e chiusa da un assolo epico di Ardito, l’intensa ballata pianistica Lost, l’irish rock di Tears Are Falling Down e We’re Still Alive, il rock and roll di Jewels And Medicines che ricorda i gloriosi Mott The Hoople, l’aspra e intensa Sliding Doors dominata dalla chitarra espressiva e potente di Ardito, il trascinante singolo Good Things, la ballata springsteeniana It Takes A Big Rain, la grintosa Walkin’ All Alone, una rilassata Redemption Song cantata da Beppe con l’accompagnamento della fisarmonica di Raffaelli, il mid-tempo pianistico It’s Getting Late che si trasforma in una cavalcata chitarristica nell’infuocato finale e la filastrocca Merry Go Round che chiude la serata con un abbraccio tra spettatori e gruppo.       

 

hackett live

STEVE HACKETT

GENESIS REVISITED: LIVE AT HAMMERSMITH

3 CD + 2 DVD   2013   Inside Out

 

Partiamo da una considerazione: per ritornare in classifica e riempire teatri e palazzetti Steve Hackett ha dovuto riproporre il materiale storico dei Genesis degli anni settanta. Se escludiamo i primi progetti solisti, in particolare Voyage Of The Acolyte, Spectral Mornings e Cured, il chitarrista ha ritrovato un pubblico di una certa entità con Genesis Revisited nel ’96, il live The Tokyo Tapes nel ’99 e il recente Genesis Revisited II. Dal relativo tour è stato tratto questo sontuoso disco dal vivo registrato all’Hammersmith Apollo il 10 maggio del ’13 in una serata speciale con numerosi ospiti, racchiuso in tre compact audio e in due dvd, uno con il concerto completo, l’altro con interviste e immagini del backstage. Bisogna anche dire che il chitarrista ha tutto il diritto di suonare questo materiale…in fondo è l’unico del quintetto dell’epoca interessato a farlo, visto che Peter Gabriel ha altri interessi musicali (e probabilmente non sarebbe più in grado di cantare questi brani), Phil Collins si è ritirato o quasi, Mike Rutherford ha riformato i modesti Mike & The Mechanics e Tony Banks compone partiture di musica classica. Insomma una reunion del quintetto di Nursery Crime e Foxtrot appare improbabile se non impossibile per cui Hackett sembra l’unica alternativa credibile alle numerose cover band a partire dai popolarissimi canadesi The Musical Box. E poi Steve ha dimostrato grande rispetto per la musica della band, chiamando musicisti di qualità e creando uno spettacolo di livello eccellente che è stato accolto con entusiasmo da un pubblico formato non solo da nostalgici che ha consentito di annunciare più di trenta date anche per il prossimo anno. Il gruppo comprende il cantante svedese Nad Sylvan (ex Unifaun e Agents Of Mercy) che si è dimostrato un ottimo sostituto di Gabriel e Collins pur non essendo un clone, le tastiere di Roger King, la batteria e voce di Gary O’Toole, sax, flauto e percussioni di Rob Townsend  (collaboratori di lunga data di Hackett) e il basso di Lee Pomeroy. Il concerto ripercorre la storia dei Genesis da Nursery Crime del ’71 a Wind And Wuthering del ’76 con esecuzioni simili a quelle in studio, con qualche variazione strumentale che rispetta sempre la partitura originale. Hackett è timido e riservato, ma il suono della sua chitarra è unico, melodico e romantico come quarant’anni fa. La maestosa opener Watcher Of The Skies, una superba The Lamia con la voce di Nik Kershaw e un duetto tra le chitarre di Hackett e di Steve Rothery dei Marillion, l’epica Shadow Of the Hierophant, unico brano della carriera solista, composto con Mike Rutherford per Voyage Of The Acolyte, mi sembrano le tracce più brillanti del primo dischetto che si chiude con il primo dei quattro brani del secondo lato di Wind And Wuthering,  Blood Of The Rooftops cantato dal batterista O’Toole. Il secondo disco si apre con gli strumentali Unquiet Slumbers For The Sleepers e In That Quiet Earth seguiti dalla ballata Afterglow con la voce inconfondibile di John Wetton. La corale Entangled e la complessa Eleventh Earl Of Mar precedono il gran finale con la suite Supper’s Ready eseguita alla perfezione. Sul terzo dischetto ci sono i due bis, la memorabile Firth Of Fifth da Selling England By The Pound con l’intro di piano che i Genesis eseguivano raramente dal vivo e uno degli assoli più belli della carriera di Hackett e il finale epico dello strumentale Los Endos arrangiato con qualche variazione. La qualità audio e video è eccellente. Non è un disco indispensabile, ma questa musica continua ad avere un fascino innegabile e non solo su chi ha vissuto l’epoca d’oro del rock progressivo. 

 

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STEVEN WILSON

DRIVE HOME

CD/DVD        2013    Kscope   

 

Questo non è il nuovo album di Wilson, bensì un’appendice dello splendido The Raven That Refused To Sing, considerato da molti il miglior album di rock progressivo di quest’anno. Leader dei Porcupine Tree e dei Blackfield, impegnato in altri progetti con i No Man e i Bass Communion, produttore e ingegnere del suono scelto da Robert Fripp per rimixare i dischi dei King Crimson e da Ian Anderson per quelli dei Jethro Tull, Wilson è il protagonista n.1 della scena prog contemporanea. A pochi mesi dal grande successo del recente album, il terzo in studio della sua carriera solista dopo Insurgentes e Grace For Drowning, esce Drive Home, un doppio (cd + dvd) che riprende da The Raven l’omonima ballata triste e malinconica con un assolo di chitarra magnifico tra Pink Floyd e Genesis più romantici, sia in versione audio (più breve) che video con un commovente cartone animato di Jess Cope. La parte audio aggiunge l’inedita The Birthday Party, traccia nervosa vicina agli Yes più contorti con qualche venatura metal, la versione orchestrale di The Raven That Refused To Sing, ancora più maestosa rispetto all’originale e quattro ottimi brani registrati dal vivo a Francoforte. Il primo è The Holy Drinker, una minisuite aperta da tastiere dissonanti, con un ritmo intenso tra prog e jazz con batteria in controtempo, un assolo di sax e cambi di atmosfera inquietanti che portano ad un finale quasi metal, seguito dalla ballata intimista Insurgentes, introdotta da un piano melodico, quasi sospesa, con un puntuale intervento di flauto. Non poteva mancare la title track dell’ultimo album, tesa nella sua morbidezza con un crescendo strumentale lento e avvolgente che sfocia nel maestoso finale, mentre The Watchmaker è un altro brano complesso introdotto da Wilson alla chitarra acustica, che prosegue con una sezione guidata da un mellotron floydiano e successivi cambi di ritmo che comprendono tra l’altro un assolo contorto di chitarra di Guthrie Gowan, un break di piano, un’altra sezione vocale sussurrata e un finale drammatico molto heavy. Il dvd comprende gli stessi brani live, permettendoci di visualizzare i giochi di luci utilizzati per accompagnare la musica e il dolente cartone animato di The Raven That Refused To Sing, video proiettato anche durante i concerti del tour mondiale. Un doppio forse non indispensabile, ma altamente consigliato a chi ha apprezzato i dischi solisti di Wilson. 

 

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JJ GREY & MOFRO

THIS RIVER

CD      2013    Alligator

 

Dopo l’esplosivo live Brighter Days uscito in edizione doppia audio e video, l’artista della Florida prosegue nel suo cammino sulle strade del soul e del rhythm and blues permeate di sapori sudisti. This River è il sesto album in studio, a tre anni da Georgia Warhorse e dimostra quanta strada ha percorso JJ dall’esordio indipendente Blackwater del ’01, ristampato dalla Alligator nel ’07 unitamente al successivo Lochloosa. Grey è uno dei migliori cantanti soul del nuovo millennio, ha un voce potente, ben modulata ed espressiva, perfetta per il repertorio dei Mofro, sestetto comprendente Anthony Cole (batteria), Todd Smallie (basso), Andrew Trube (chitarra), Anthony Farrell (tastiere), Art Edmaiston (sax) e Dennis Marion (tromba) che si destreggia abilmente tra soul, funky e errebi con qualche accenno al rock sudista dei Black Crowes. E’ musica fatta per esplodere dal vivo come dimostra Brighter Days, ma anche in studio i ragazzi se la cavano egregiamente, riuscendo a mantenere l’energia e la carica delle esibizioni live. This River è dedicato al St. John’s River, il fiume che scorre nei dintorni di Jacksonville dove JJ ha trascorso gran parte della sua vita. Il disco è stato registrato in zona a St. Augustine, quasi interamente dal vivo in studio, senza sovraincisioni. Il punto forte dei Mofro sono le ballate intrise di soul che anche in questo disco non mancano, a partire da The Ballad Of Larry Webb, splendido slow con una slide morbida e un impasto elettroacustico, proseguendo con la sofferta Write A Letter per finire con la maestosa This River, una richiesta di aiuto al fiume dolente e melanconica che si sviluppa con un crescendo guidato dai fiati e dalla voce notevole di Grey. Anche le tracce ritmate scorrono piacevolmente: Your Lady è un intenso funky nel quale si inseriscono chitarra e armonica bluesate, Somebody Else e Tame A Wild One rhythm and blues trascinanti con i fiati in ritmica, 99 Shades Of Crazy un funky stonesiano. Non sfigurano neppure il mid-tempo soul di Standing On The Edge e l’aspra Harp & Drums introdotta dall’armonica seguita da una chitarra funky e dai fiati prima di una parte cantata con voce filtrata che sfocia in una brillante sezione strumentale jammata, mentre mi lascia perplesso il funkaccio Florabama cantato con un falsetto alla Prince. Complessivamente un buon disco che conferma JJ Grey & Mofro come una delle migliori formazioni di soul bianco del momento.   

 

 

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GUY DAVIS feat. Fabrizio Poggi

JUBA DANCE

CD      2013    Dixiefrog/MC Records

 

Guy Davis è uno dei migliori interpreti contemporanei della tradizione blues. Figlio di artisti e attivisti, nato a New York nel ’52, ha registrato il suo primo album nel ’78, poi ha scelto la carriera di attore teatrale e televisivo per alcuni anni, tornando alla musica acustica country-blues con influenze folk con Stomp Down River nel ’95. Da allora ha proseguito con coerenza la sua storia musicale con otto album in studio fino a questo Juba Dance, una collaborazione con il nostro armonicista Fabrizio Poggi, che ha anche coprodotto l’album registrato quasi interamente a Bergamo negli studi Suonovivo con l’ingegnere del suono Dario Ravelli. Alternando tracce soliste a duetti con Poggi, Davis traccia un percorso di rivisitazione del blues acustico con materiale originale scritto come tributo ai grandi del passato che lo hanno ispirato (Son House, Sonny Terry, Mississippi John Hurt) e con qualche cover eseguita con rispetto e passione. Un disco pregevole nel quale spiccano la voce roca e il fingerpicking di Guy spesso accoppiate alla scattante armonica di Fabrizio, che negli ultimi anni è uscito dalla dimensione nazionale, acquisendo esperienze e consensi di grande prestigio con dischi pregevoli come Spirit & Freedom e Mercy. Il ritmato folk di Lost Again apre il dischetto con entrambi i protagonisti all’armonica, seguito da My Eyes Keep Me In Trouble, scattante blues di Muddy Waters. La ballata Love Looks Good On You mi ha ricordato il miglior Kaukonen, mentre il tradizionale Some Cold Rainy Day è arricchito dalla voce gospel di Lea Gilmore. See That My Grave Is Kept Clean è bella per conto suo, ma il banjo di Guy e le voci degli inossidabili Blind Boys Of Alabama rendono questa versione particolarmente incisiva. Nel prosieguo spiccano Black Coffee, tributo a John Lee Hooker con Poggi in primo piano, Did You See My Baby, tributo a Sonny Terry che dal vivo viene interpretato teatralmente, lo spledido folk blues That’s No Way To Get Along del Rev. Robert Wilkens e il country blues Prodigal Son nella versione di Josh White.