Archivio di luglio 2020

SOFT MACHINE – Live At The Baked Potato

di Paolo Crazy Carnevale

31 luglio 2020

Soft Machine Live At Backed Potato[283]

SOFT MACHINE – Live At The Baked Potato (DYAD Records 2019/ distribuzione Moonjune Records 2020)

Soft Machine? Ebbene sì. Dal 2015 la formazione che aveva pubblicato dischi ed effettuato lunghi tour col nome di Soft Machine Legacy, ha deciso di lasciare a casa il suffisso Legacy e di esibirsi usando tout court il nome storico, nonché di incidere il primo disco in studio sotto questo nome dal lontano 1981.

E proprio nei mesi scorsi, in piena pandemia il quartetto attuale ha dato alle stampe un eccellente live (che rispolvera anche il logo storico del gruppo in copertina) tratto dal tour con cui quel disco di studio, Hidden Details, era stato promosso, tour che celebrava contemporaneamente il cinquantenario dall’uscita del primo disco della formazione di Canterbury.

Si tranquillizzino i puristi, il disco come dicevo è eccellente, una fotografia della voglia di suonare del gruppo e del mai cessato interesse di un pubblico affezionato: va da sé che sono cambiati gli spazi e i gusti, ma gli attuali Soft Machine continuano ad essere alfieri di un jazz rock virato al prog, alla fusion e alla psichedelia più colta, confermando quelle caratteristiche che negli anni sessanta/settanta li avevano fatti diventare autentica formazione di culto, sperimentatori ad oltranza. Non dimentichiamo che il gruppo non ha mai avuto una formazione stabilissima, vi sono transitati numerosi musicisti e a ben vedere, nel 1972 della formazione originale era rimasto il solo Mike Ratledge, gli altri erano già tutti passati ad altri progetti e sperimentazioni, sempre etichettate, dal loro luogo di provenienza, come Canterbury Sound.

Ma pur senza membri fondatori nella line-up i nuovi Soft Machine non sono perfetti sconosciuti estranei al gruppo (come invece è per i nuovi Burrito Brothers ad esempio, che sono davvero tutti nuovi, pur avendo realizzato un disco a sua volta incredibilmente eccellente): qui militano come si diceva gli stessi artisti che nel 2010 come Soft Machine Legacy (in cui in un primo tempo avevano militato anche Hugh Hopper ed Elton Dean) dettero alle stampe un bel live inciso in Europa intitolato Live Adventures, vale a dire John Etheridge (chitarrista a partire dal 1975), Roy Babbington (bassista subentrato a High Hopper già nel 1973 e il batterista John Marshall (entrato in formazione all’inizio del 1972). Come si vede, tre che hanno comunque una loro storia sotto il nome Soft Machine, il gruppo si completa con Theo Travis, tastierista e addetto ai fiati, ultimo arrivato ma assolutamente in linea col sound del gruppo.

Il live in questione è stato registrato in un piccolo club di Los Angeles nel febbraio del 2019 e allinea una scaletta che giustamente va a ripescare sia nel repertorio storico che dalle ultime produzioni, privilegiando, per quanto riguarda la scelta dei brani vecchi, composizioni di Ratledge.

Si parte con una breve overture di tastiere firmata da Travis per introdurre Out Bloody Rageous (Pt.1), di Ratledge appunto, che stava sul terzo disco del gruppo, quello stesso in cui appariva Moon In June la composizione di Robert Wyatt da cui prende il nome (guarda un po’) la casa discografica di Leonardo Pavkovic, che distribuisce questo live.

Sideburn è firmata dal batterista Marshall ed è ovviamente una vetrina per il suo strumento, come andava di moda negli anni settanta, oggi questi assoli di batteria suonano sempre un po’ eccessivi e fuori luogo. Meglio Hazard Profile (Pt 1), composta da Karl Jenkins per l’ottavo album del gruppo, mentre con firma Hugh Hopper troviamo Kings And Queens dal quarto disco uscito nel 1971 (come probabilmente sapete, i primi sette dischi del gruppo erano intitolati col numero progressivo di uscita). Di nuovo di Jenkins è la notevole Tale Of Taliesin pubblicata su Softs nel 1976. La formazione sembra decisamente in gran forma e a proprio agio con questo materiale, e d’altra parte tre quarti dei musicisti qui impegnati lo erano anche su Softs.

Heart Off Guard, Broken Hill e Fourteen Hour Dream è invece una tripletta dal più recente disco di studio, quello del 2018, inciso dalla stessa formazione di questo live, i primi due sono firmati dal chitarrista, e si sente, nel terzo invece l’autore è Travis. Quel che appare evidente è che comunque, nonostante le decadi che separano queste composizioni da quelle precedenti, la continuità di sound è pressoché inalterata e inavvertibile.

C’è quindi spazio per un ulteriore brano di Ratledge, The Man Who Waved At Trains, da Bundles del 1975, con grande lavoro di tutti gli strumenti, ma in particolare evidenza è l’opera di Travis al flauto e alle tastiere.

Ed è proprio lui a chiudere in gloria il disco con due brani tratti di nuovo dal disco del 2018, la lunga Life On Bridges con intro di sax su cui si innestano poi tutti gli altri strumenti, e l’ottimo tour de force jazz-rock quasi zappiano di Hidden Details, da cui il recente disco prende il titolo.

MICHAEL McDERMOTT – What In The World…

di Paolo Crazy Carnevale

31 luglio 2020

McDermott-WITW[275]

Michael McDermott – What In The World… (Appaloosa/Pauper Sky/IRD 2020)

Sembra inarrestabile il flusso d’ispirazione di Michael McDermott, non passa anno che il musicista di Chicago non lasci la sua zampata nel mondo delle sette note, che si tratti di lavori a proprio nome o come leader dei Westies, che poi sarebbe la stessa cosa, visto che a conti fatti i musicisti coinvolti sono in pratica gli stessi e anche la produzione sonora non si discosta.

Va da sé che a lungo andare, per quanto si tratti sempre di dischi di buon livello, la cosa si fa un attimo monotona: il copione è abbastanza fedele, canzoni di stampo rock robusto e ballate a cavallo tra folk e rock, sempre corredate da testi molto pregni di storie cupe e introspezioni sul proprio percorso umano e musicale, talvolta attraversate da momenti di buio pessimismo, tal altra più serene o quantomeno illuminate da bagliori di speranza.

McDermott è soprattutto un grande raccontatore di storie, storie di gente comune, di gente disperata se non addirittura perduta: va da sé che i temi forti sono sempre il proprio vissuto, la caduta nelle dipendenze, il baratro toccato fino a grattare il fondo del barile, la riabilitazione, il ritorno alla vita, alla musica ovviamente, l’incontro con la moglie Heather Lynn Horton, musa e collaboratrice musicale in qualità di violinista, sia con i Westies che nei dischi solisti.

E va da sé anche che se cercate la novità, questo disco non fa per voi, a meno che siate digiuni delle ultime opere di Michael: perché What The World ripercorre le orme dei suoi predecessori, passo dopo passo, siano essi il più riuscito Willow Springs, il secondo album dei Westies, Out from Under o il recente Orphans, disco di outtakes dei precedenti lavori.

In particolare nei testi (ma in maniera più oscura) e nelle musiche dei brani più intimisti, McDermott sembra più orientato verso certe cose dello Springsteen anni ottanta e novanta: le storie di personaggi come quelle dei protagonisti New York, Texas, di Veils Of Veronica o come la barista dagli occhi blu ricordano da vicino quelle dei personaggi delle canzoni di Bruce, solo attualizzate dalla presenza di temi come il disturbo da stress post traumatico dei reduci di guerra (nel senso che il termine è diventato tristemente di moda negli ultimi anni).

In certi momenti, soprattutto nei pezzi meno elettrici fanno capolino anche riferimenti al folk irlandese, ma personalmente trovo più avvincente il McDermott elettrico della title track, o di Mother Emmanuel e The Thing You Want: il suono corposo è opera di Lex Price, bassista e coproduttore, dalle chitarre di Will Kimbrough e dalle tastiere di John Deaderick, mentre alla batteria si alternano Steven Gillis e Fred Elthringham.

What in The World…, che intitola il disco è particolarmente felice nella sua sostanza rockettara che non fatichiamo a ricollegare al miglior Tom Petty (ma curiosamente come bonus track vi è incluso il demo acustico che invece suona più come certe cose del coguaro dell’Indiana): è un ottimo brano che rende merito ad un testo molto politicizzato, come se McDermott volesse dare la sveglia al suo paese nell’anno delle elezioni! Molto elettrica, anche se molto più lenta è la stoffa di Veils Of Veronica, altro punto di forza del disco. E ancora fa spicco Mother Emanuel, rock urbano dal tessuto sonoro a cavallo tra Asbury Park e il nervosismo di certo Lou Reed, e anche qui il testo sembra di particolare attualità, all’indomani dei recenti fatti di sangue che durante il nostro lockdown hanno funestato gli Stati Uniti, non fosse che il brano è stato registrato prima.
Come nel disco precedente, anche qui McDermott chiude all’insegna della speranza con un paio di canzoni più introspettive, più personali: l’invito a non abbandonarsi di No Matter What e l’omaggio alla moglie di Until I Found You. Il disco termina – prima della bonus track – con Positively Central Park, ballata alla Springsteen in cui si fa riferimento alle problematiche dei nativi.

Come sempre sono sempre molto gradite le trascrizioni e traduzioni dei testi a cui l’Appaloosa ci ha abituati da tempo!

Tre EP dalla Svezia

di Paolo Baiotti

23 luglio 2020

a new future[272]

Negli ultimi tempi il formato ep/mini album è tornato in auge, specialmente nelle produzioni indipendenti.
Dai paesi nordici riceviamo tre nuove proposte.
Partiamo con Annamay Ejrup, cantautrice svedese di Stoccolma che ha pubblicato due singoli, Out Of Reach (in versione elettrica con la band e acustica) e Om Hon Hade Vetat in svedese, che anticipano il primo album di questa autrice pop con influenze folk, sensibile e delicata, dotata di una voce angelica.
In particolare Out Of Reach è una canzone sulle opportunità perse della vita che potrebbero ripresentarsi. Questo brano melodico rappresenta la trasformazione di Annamay da artista solista acustica a componente di una band.

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I Safari Season sono un duo formato da Lars Ryen (voce) e Anders Lindgren (chitarre, tastiere), accompagnati da Daniel Gullo (basso, batteria, tastiere e chitarra) nell’ep A New Future (Paraply/Beat Goes On 2020). Non sono dei novellini: Anders ha iniziato come artista punk, poi ha fatto parte dei 99th Floor, molto conosciuti in patria, mentre Lars, originario di Torsby, si è spostato a Stoccolma dopo l’adolescenza, dove ha suonato in gruppi pop e soul prima di formare i Touch. Lars ha aperto il negozio di dischi The Beat Goes On dove ha incontrato Anders con il quale ha formato un duo e poi un gruppo ribattezzato Safari Season, che ha inciso un paio di album e parecchi singoli. Si definiscono una band di surf-pop-psychrock…definizione impegnativa, ma che ha una sua logica in quanto, pur privilegiando traiettorie pop, in Nowhere On The Run la chitarra ha un suono abrasivo di matrice garage. La title track è un sommesso brano pop, interpretato in modo morbido e melodico dalla voce accattivante di Lars, avvolta dalle tastiere e da una chitarra che si inserisce dapprima con moderazione, poi in crescendo. Il terzo brano è The Way I Walk, sia in versione inglese che svedese, una ballata elettroacustica molto gradevole.

vilma[273]

Andra Stallen (autoprodotto 2020) è il mini album d’esordio di Vilma Snygg, cantante ventunenne di Boras che ha recentemente partecipato a un concorso per la radio svedese. Sei canzoni (una in inglese) che ricordano, sia nella voce che nella scelta musicale, nomi come Enya, Loreena McKennith o le connazionali First Kit. Atmosfere intime e riflessive, prevalentemente acustiche (anche se in Din Hand Mot Min Rygg si inserisce sapientemente una chitarra elettrica), interpretate da una voce eterea che sembra provenire dalle innevate piane nordiche. Musica un po’ ripetitiva che si avvicina alla new-age, ma non priva di fascino.

JONATHAN WILSON – Dixie Blur

di Paolo Crazy Carnevale

20 luglio 2020

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JONATHAN WILSON – Dixie Blur (Bella Union 2020, 2 LP)

Ci voleva un disco così per Jonathan Wilson, dopo le perplessità lasciate dal suo LP precedente che avevano lasciato l’amaro in bocca a chi aveva apprezzato i suoi Gentle Spirit e Fanfare, nonché un paio di suggestivi EP usciti in occasione di passati Record Store Day e Black Friday.

Wilson, che è soprattutto un grande manipolatore di consolle e creatore di suoni ci aveva abituati ad un sound moderno ma dalle radici ben piantate negli anni settanta e nei tardi sessanta: echi di Grateful Dead, Pink Floyd, ma anche del grande cantautorato californiano erano stati alla base dei suoi dischi più applauditi, e negli EP aveva dimostrato di saper scegliere anche azzeccate cover per nulla scontate da proporre al suo pubblico.

Spostatosi dalla West Coast al Tennessee, ora Wilson mette sul piatto una quindicina di nuove tracce registrate a Nashville con l’aiuto di musicisti del posto e del producer Pat Sansone, con cui divide i crediti in sede di regia. Nashville vuol dire country music, ma non solo, vuol soprattutto dire studi molto professionali ed al tempo stesso a misura d’uomo e vuol dire musicisti in grado di riprodurre qualunque atmosfera sonora, con umiltà e professionismo, senza sbavature e sempre all’altezza della situazione.

E questa è la caratteristica principale del disco, che ci restituisce le buone cose del Jonathan Wilson che abbiamo apprezzato sui dischi succitati e nelle sue rare apparizioni dal vivo (ricordiamo in particolare quelle come apripista per Tom Petty & The Heartbreakers nel tour che portò la band in Italia per l’ultima volta nel 2012).

I dischi di Wilson non sono fatti di canzoni memorabili, per quanto ogni brano sia cantato, sono dischi di grandi atmosfere e di suoni spettacolari, e questo Dixie Blur segue una ricetta ben collaudata: Wilson per creare un ponte con Fanfare (che ospitava David Crosby, Graham Nash, Jackson Browne, Mike Campbell, Benmont Tench) ha pensato bene di iniziare la scaletta con una cover, ma non una cover scontata e stra-ascoltata, bensì un brano dei Quicksilver Messenger Service, quella Just For Love che intitolava il loro disco del 1970, quando Dino Valenti (autore del brano) aveva assunto il comando della formazione. La versione di Wilson supera l’originale, pur non cambiando molto, l’esecuzione è commovente, cantata con ispirazione, con tanto di flauto suonato da Jim Hoke e con grande lavoro di pedal steel (l’incredibile Russ Pahl) e con l’elettrica un po’ nascosta di Kenny Vaughan (dei Fabulous Superlatives di Marty Stuart), il brano si dipana in un crescendo che conquista fin dal primo ascolto, lasciando poi il posto alla prima delle composizioni originali (tutte le altre in pratica), la bella 69 Corvette sorretta dal violino del veterano Mark O’Connor, che duetta con la pedal steel (stavolta la suona Joe Pisapia) mentre Wilson e Sansone arpeggiano con le acustiche e rifiniscono le atmosfere a suon di mellotron: il risultato è una delle più riuscite cose del disco. Segue New Home, brano ancor più soffuso, di nuovo con Pahl e Vaughan, col piano di Drew Erickson più in vista che non nei due brani precedenti.

Il lato 1 si chiude con l’eccellente So Alive, con Wilson particolarmente ispirato, impegnato all’acustica ritmica e alla dodici corde elettrica, di nuovo con un bel pianoforte e soprattutto con Mark O’Connor che oltre a suonare il violino si produce in un entusiasmante assolo di acustica: un’altra delle perle del disco.

Voltando il vinile (color verde menta), incappiamo nella prima traccia in cui fa deliberatamente capolino la musica di Nashville: In Heaven Making Love coniuga bluegrass e atmosfere da avanspettacolo, non è una delle cose migliori nel disco ma entra facilmente in testa e se il violino di O’Connor è la guida del brano, le elettriche di Wilson e Vaughan si spingono in interventi più azzardati. Oh Girl inizia come una lenta ballata pianistica, in cui Wilson e Sansone (qui in veste di bassista, mentre la pedal steel di Pahl tesse il sottofondo) coinvolgono di nuovo Jim Hoke sia al flauto che ad una serie di armoniche dal suono diverso, riconducendo maggiormente ai suoni che avevamo apprezzato in Fanfare. Atmosfere vagamente marinare sono alla base di Pirate, con Wilson impegnato con varie chitarre e O’Connor protagonista di un dolente assolo di violino
Il secondo disco si apre con le atmosfere elaborate di Enemies, una composizione dal refrain accattivante, con chitarre in evidenza ed un’intera orchestra tutta suonata da Wilson con una Arp String Machine. Fun For The Masses è un lento valzer dominato dalla pedal steel (sempre Russ Pahl) e dall’elettrica di Vaughan, mentre il titolare si dedica ad acustica e mellotron. Meno interessante dal punto di vista della struttura risulta Plattform, in cui comunque rimane sempre molto riuscita l’amalgama sonora, meglio il brano che chiude il lato 3, il blues Riding The Blinds, blues in chiave Jonathan Wilson ovviamente, un brano lento e cadenzato, cantato con passione con citazioni di titoli di classici blues nel testo, con uno spettacolare organo suonato da Wilson stesso, e ovviamente lavoro di fino da parte di Pahl e Vaughan quando il brano accelera concedendosi un breve bellissimo break tipicamente country, prima di rallentare per il finale.

Il country irrompe nel brano che apre l’ultima parte di Dixie Blur, col titolo di El Camino Real Wilson mette in pista un’altra composizione in cui lui forse non è propriamente a proprio agio, ma lo sono decisamente i suoi accompagnatori, O’Connor e Vaughan su tutti (niente pedal steel qui). Golden Apples è struggente, intima, sussurrata, con Jim Hoke di nuovo protagonista con l’armonica cromatica e il flauto, Wilson suona la slide mentre Vaughan si occupa qui dell’acustica e Pahl da ulteriore saggio della propria bravura.

Il disco si chiude con Korean Tea, un brano senza strofe, ma non recitato, ancora con Vaughan all’acustica che ricama sul tappeto creato da Pahl, dal mellotron del producer e dal sempre ben inserito pianoforte di Drew Erickson.

Ribadisco, non un disco di canzoni memorabili, ma di suoni penetranti e coinvolgenti da ascoltare e riascoltare lasciandosi rapire senza remore.