Archivio di giugno 2020

THE THIRD MIND – The Third Mind

di Paolo Baiotti

21 giugno 2020

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THE THIRD MIND
The Third Mind
Yep Roc 2020

L’esordio di The Third Mind è sicuramente una delle gradite sorprese di questi primi mesi del 2020. Un disco che sfortunatamente è stato pubblicato appena prima dell’esplosione della pandemia, non ottenendo anche per questo le dovute attenzioni e, soprattutto, un’adeguata promozione, magari accompagnata da qualche concerto. E’ un viaggio nella psichedelia, un ritorno alla fine dei sixties, all’epoca hippy legata a musicisti leggendari come Mike Bloomfield, Roky Erickson, John Cipollina e Gary Duncan (la coppia dei Quicksilver Messenger Service), citati e ringraziati per l’ispirazione nelle note di copertina. Anche il nome è un (probabile) omaggio all’omonimo libro pubblicato da William Burroughs e Brion Gysin nel ’78.
La sorpresa principale riguarda gli autori del disco, musicisti esperti e di qualità che non vengono abitualmente ricollegati a questo tipo di suono. Si tratta di Dave Alvin (voce e chitarra di Blasters, X e Flesh Eaters, prima di intraprendere una trentennale carriera solista in ambito Americana), Victor Krummenacher (basso con Cracker e Camper Van Beethoven), Michael Jerome (batteria con Toadies, Richard Thompson, Blind Boys Of Alabama, John Cale e Better Than Ezra) e David Immerglück (chitarra e tastiere con Counting Crows, Camper Van Beethoven e James Maddock). Una sorta di supergruppo di rock alternativo che si è ritrovato in studio dove ha inciso rapidamente e senza prove, cercando di cogliere la libera ispirazione del momento, come Miles Davis ai tempi di Bitches Brew.

Sei tracce di cui cinque covers e ben tre strumentali di rock psichedelico con venature blues e jazz, in cui l’improvvisazione regna sovrana. Il fulcro del disco è sicuramente la versione di 16’ di East-West, la title track del seminale secondo album della Butterfield Blues Band (Elektra ’66), una cavalcata in cui le chitarre viaggiano libere con l’appoggio dell’armonica di Jack Rudy, in un percorso ondivago straordinario, specialmente nella parte centrale, tra crescendo, fermate, ripartenze e cambi di ritmo che non hanno nulla da invidiare all’originale in cui si ergeva la chitarra di Mike Bloomfield. Ma non sono da meno l’apertura di Journey In Satchidananda (Alice Coltrane ’71), una meditazione orientaleggiante che assume colori psichedelici grazie alle chitarre che richiamano i Grateful Dead dei primi album o il terzo strumentale Claudia Cardinale, unico brano originale, nel quale convergono le atmosfere dei Quicksilver e dei western di Sergio Leone. In due tracce cantate si aggiunge la presenza della voce eterea e misteriosa di Jesse Sykes (un incrocio tra Grace Slick e Sandy Denny), cantante dei Sweet Hereafter, autori di almeno due eccellenti album nel nuovo millennio, assente dalle scene da parecchi anni. Jesse interpreta alla perfezione Morning Dew di Bonnie Dobson, in una versione che si riallaccia alla cover lisergica dei Grateful Dead e contribuisce ai cori in The Dolphins (Fred Neil), affiancando Dave Alvin. L’ultima traccia è Reverberation di Roky Erickson, dall’indimenticabile esordio dei texani 13th Floor Elevators, un garage rock stralunato che viene “normalizzato” da una versione rock meno spigolosa, con una chitarra che assume venature hard.

Completato dalla copertina dell’artista Tony Fitzpatrick, diversa per il cd e il vinile, l’album è uscito in una prima edizione limitata con un poster e due versioni alternate di East-West, una mixata da Tchad Blake (ancora più psichedelica) e una da Clay Blair (nel vinile le due versione fanno parte di un secondo 12’’). Come scrivono The Third Mind nella loro pagina di Bandcamp “turn on, tune in, rock out”, riprendendo in parte il famoso motto di Timothy Leary “turn on, tune in, drop out”.
Sicuramente non vi annoierete!

LYNNE HANSON – Just Words

di Ronald Stancanelli

18 giugno 2020

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Lynne Hanson, bella cantautrice canadese della quale parlammo su Late cartaceo due anni fa esce con un nuovo piacevole lavoro dal titolo Just Words. Dovrebbe questo essere il settimo album dell’artista cantante e musicista autrice di tutte le canzoni a parte la title track co-firmata con Tara Holloway. Undici brani per giusti una quarantina di minuti che rappresenta più o meno l’esatta durata dei vinili di una volta. Album orientato su buonissimo country rock con qualche venatura blues qua e la si caratterizza ancora una volta per la splendida e incisiva voce della canadese che come sempre suona anche le chitarre ed è accompagnata in questo suo settimo viaggio musicale da ben nove musicisti.

I brani sono tutti piacevoli ed accattivanti e le melodie country folk rock che ne derivano sono di estremo livello, la splendida Long Way Home rammenta le pagine più belle di Tracy Chapman. La title track, ovvero Just Words è improntata invece sulla chitarra elettrica e lo stile rassomiglia alla Lucinda Williams più ponderata. Eccellente pezzo, ottimo il connubio chitarra piano che conclude il brano.Dodici tasselli realmente interessanti e di spessore che fanno si che questa, purtroppo poco nota da noi, cantautrice possa essere considerata alla pari di colleghe notoriamente più famose. Sulla falsariga della precedente, ovvero con un occhio sempre rivolto alla Williams la lancinante Higher Ground. Infine una doverosa citazione anche per Hemingway ‘s Sonbird, altro piccolo gioiellino di questo affascinante disco.

L’album è stato prodotto da Jim Bryson, registrato al Fixed Studio di Stittsville in Ontario e masterizzato ad Ottawa, città che viene ringraziata nelle note di copertina per il supporto datole, e si avvale di una foto di copertina di impronta sciamanica decisamente particolare.

Grande artista da non sottovalutare. Potete andare su www.lynnehanson.com e scoprirla ancor di più.

THE GOTHIC COWBOY – Between The Wars

di Paolo Baiotti

18 giugno 2020

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THE GOTHIC COWBOY
BETWEEN THE WARS
Melvin Litton 2019

Per molti anni il cantautore e chitarrista Melvin Litton, canadese da tempo residente in Kansas, ha guidato il quartetto The Border Band, pubblicando cinque album e suonando in ogni angolo d’America. Melvin è anche uno scrittore: ha pubblicato tre romanzi e due raccolte di poesie, oltre a racconti su riviste e giornali. Ha lavorato come falegname, alternando la professione alla scrittura e alla musica che da qualche anno sono diventate la sua principale occupazione.
Lasciata a riposo la band dopo 20 anni di attività, si è cimentato in un altro ambizioso progetto: un doppio album di Americana acustico con testi e musiche riferite alla tradizione folk, raccontando episodi di vita, eventi drammatici, storie ispirate da testi di artisti come Leadbelly…un insieme di canzoni che sembrano fatte per essere ascoltate all’ombra di un albero in un pomeriggio assolato oppure intorno a un fuoco in una prateria sconfinata. Si è fatto aiutare da Dan Hermreck al mandolino e alla voce (con il quale suona spesso in duo), da Til Willis all’armonica e da Jeff Jackson al basso, determinanti nell’assicurare una certa varietà al disco, limitato dalla voce sporca, un po’ monotona e ripetitiva di Melvin.
Tra i brani del primo cd spiccano l’opener Border Blues che può ricordare la scrittura di Townes Van Zandt, la drammatica Caspion & The White Buffalo, ispirata da un articolo di giornale del 1894 sulla caccia al bisonte (è anche il titolo di un suo libro), con un notevole lavoro del mandolino, le murder ballads Pretty Mary e Cold Ohio City con un prezioso accompagnamento di armonica e mandolino e la title track che racconta le vicende di una generazione di soldati gettati allo sbaraglio. Dal secondo cd citerei Montana Bound ispirata da un libretto del 1903, Help My Crossover in cui si apprezza l’armonica di Willis, il lungo a asciutto blues Murder Of Bob Rose, la terza murder ballad tratta da una storia vera raccontata a Melvin dalla mamma e Creek-Bank Ghetto Boys.
Between the Wars è un disco impegnativo, forse troppo lungo, da ascoltare con calma, ispirato dalla tradizione dei grandi storytellers, da Leadbelly a Guy Clark, da Townes Van Zandt agli inevitabili Dylan e Young.

KAJA – Origo

di Paolo Baiotti

14 giugno 2020

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KAJA
ORIGO
Kakafon 2019

Quella dei Kaja è una proposta inconsueta per il nostro sito. Si tratta di un trio svedese formato da Livet Nord (violino), Camilla Astrom (fisarmonica, piano) e Daniel Wejdin (contrabbasso e basso synth) che si divide le composizioni del disco ed è accompagnato da altri musicisti al sax, kalimba, percussioni, synth e strumenti elettronici. Le loro radici risiedono nella musica Kletzmer e nel folk balcanico; ma in questo disco, uscito cinque anni dopo The Trapper Upp, inseriscono altri elementi, inglobando jazz, musica elettronica, pop e folk africano, con atmosfere cinematografiche e la creazioni di paesaggi sonori incantevoli o drammatici a seconda del momento. Musica non immediata, strumentale, da ascoltare con attenzione e concentrazione, ma ricca di fascino. D’altronde si tratta di un tipo di ricerca che i Kaja perseguono dalla loro nascita nel 2005, sia nei tre album pubblicati che nelle collaborazioni con poeti, artisti, cantautori, nonché nella musica creata per il teatro e il cinema.
In Origo l’apertura di Alla Vi inserisce influenze di folk svedese con fisarmonica e violino in primo piano. Vals Til Doden (Waltz To Death) è un brano riflessivo guidato dal contrabbasso e da una fisarmonica dolente, Irrfarden risente di suggestioni balcaniche, Stains ha un’atmosfera sospesa e ripetitiva, Tram No 9 aggiunge elementi africani nell’uso delle percussioni. Il disco è chiuso dalla mini-suite Infinitus divisa in tre movimenti in cui si alternano momenti vicini alla musica classica (come in Silentium con un notevole dialogo tra piano e violino), pulsioni di tradizione Kletzmer e passaggi riflessivi e malinconici.
Origo è un disco da ascoltare con impegno e da assorbire lentamente.

MARCUS KING – El Dorado

di Paolo Crazy Carnevale

7 giugno 2020

Marcus King Eldorado 01[233]

Marcus King – El Dorado (Fantasy 2020)

Marcus King, che colpo di fulmine! Il giovanissimo chitarrista e cantante del South Carolina è stato una delle più belle sorprese degli ultimi anni, un personaggio dalle grandi possibilità che a dispetto dei suoi 24 anni (compiuti un paio di mesi dopo l’uscita di questo disco) dimostra una maturità non indifferente, capace di lavorare bene in studio, affidandosi a Produttori con la P maiuscola, e di entusiasmare quando calca un palco a capo della sua strepitosa band.

Dopo tre dischi, imperdibile il terzo, a nome Marcus King Band, il biondo longocrinuto e paffuto sudista ha deciso di lasciare a riposare il gruppo e di debuttare temporaneamente come solista. Poteva essere una scelta pericolosa, perché non era affatto scontato fare un bel disco, e poteva finire col farne uno che non avesse differenze riscontrabili con i precedenti. Lui se n’è fregato e questo El Dorado è la dimostrazione che la stoffa c’è tutta e che nonostante sia ancora un pischello (quanto ad anagrafe) Marcus ha le idee chiare su cosa sia un disco di southern rock con un gruppo e cosa sia invece un disco da solista.
Per registrare (a Nashville) questa nuova fatica si è affidato a Dan Auerbach e per sintetizzare quello che è riuscito a fare diremo che la differenza con i dischi con la band è la stessa che intercorre tra i dischi dell’Allman Brothers Band e il debutto solista di Gregg Allman, Laid Back.

Ecco, laid back (che in inglese significa rilassato) è proprio quello che viene in mente all’ascolto di El Dorado, non un disco da cantautore o rocker in solitaria, un gruppo c’è chiaramente, ma sono proprio le atmosfere ad essere differenti: c’è il sud ovviamente, c’è il blues, c’è tanto soul e Marcus mette particolarmente in mostra le sue doti come cantante. Anzi le prestazioni vocali con canzoni come quelle scritte appositamente per il disco, spesso in società col producer, sono davvero gigantesche.

Maturità e ispirazione sono alla base del disco e fin dalla primissima traccia, un brano acustico intitolato Young Man’s Dream il sentore è di trovarsi al cospetto con quello che potrebbe essere uno dei migliori LP di quest’anno. Un arrangiamento in punta di piedi principalmente sorretto da voce, chitarra acustica, piano e dalla pedal steel di Paul Franklin (proprio quello che suona nella band di Mark Knopfler) con qualche coro e una parte centrale con assolo di elettrica, fanno di questa composizione un highlight immediato. Non da meno la successiva The Well (scelta come anticipatrice del disco) che invece è un solido brano rock venato di possente elettricità, forse più in linea con il Marcus King dei dischi precedenti. Wildflowers And Wine è un’ottima slow ballad sorretta dall’organo e dal piano (Mike Rojas), molto soul, con enorme prestazione vocale di Marcus, accompagnato da un trio di rodate coriste, e con un solo di chitarra centrale semplicemente bello. Molto soul anche One Day She’s Here, soul anni settanta, con un leggero andamento funky, con tastiere orchestrali e suoni di chitarra studiati minuziosamente per ricreare atmosfere lontane. In Sweet Mariona fanno capolino vaghe atmosfere latin/bossanova, appena una spolverata, perché in realtà oltre alla voce a sorreggere la struttura sono gli intrecci delle chitarre di King e Auerbach con la pedal steel ineccepibile di Franklin e le tastiere di Rojas. A chiudere il primo lato del disco c’è Beautiful Stranger, brano dalla rilassatezza totale con Frankin di nuovo protagonista, quasi un brano soul di casa Stax quando gli artisti dell’etichetta andavano a registrare a Muscle Shoals negli studi di Rick Hall.

La seconda parte è inaugurata dal pop soul di Break, un po’ meno convincente, ma il disco riprende subito quota col nervoso rock Say You Will, dalla ritmica moderna e dall’elettricità devastante indotta da un assolo centrale di quelli che spettinano (ma in tutto il brano le chitarre elettriche spaziano e si rincorrono). Molto briosa e ritmata è anche Turn It Up, a cavallo tra rock sudista e rhythm’n’blues con un arrangiamento per nulla datato. Too Much Whiskey è invece un ottimo country-rock in chiave southern, molto orecchiabile, con le solite fantastiche chitarre che sfoderano suoni ben distinti, peccato che nelle note di copertina si siano scordati di menzionare l’armonicista che prende parte alla registrazione, perché è una delle caratteristiche del disco.

Il soul rilassato torna nella struggente Love Song con Marcus che duetta con le coriste Ashley Wilcoxson, Leisa Hans e Ronnie Bowman e il tastierista che ci piazza anche un azzeccato intervento di glockenspiel; a mettere la parola fine la lenta e ispirata No Pain, ulteriore trionfo di sonorità (c’è pure l’harpsichord) con un’inattesa chitarra acustica e un gran cantato del titolare.