Posts Tagged ‘Ray Davies’

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/12

di admin

5 aprile 2011

hillman pedersen

 

CHRIS HILLMAN & HERB PEDERSEN

At Edward’s Barn

2010 Rounder CD

 

Incredibile! Un disco dal vivo di Chris Hillman. Incredibile perché, nella sua eccezionalmente lunga e prolifica carriera, è uno dei rari dischi live di questo artista, se non sbaglio solo il secondo pubblicato in tempo reale (e comunque anche i live d’archivio sono solo un paio). Nessun disco dal vivo con i Byrds, nessuno con i Manassas, la SHF Band, la Desert Rose Band o come solista assoluto. A conti fatti c’è solo il mitico Last Of The Red Hot Burritos a far compagnia a questo scintillante, bellissimo concerto acustico realizzato col fido pard Herb Pedersen. Il disco è stato registrato verso la fine del 2009 in un fienile dove con cadenza regolare i nostri si esibiscono per beneficenza. L’acustica particolare della sede scelta, l’informalità e l’intimità della performance ne fanno una perla di rara bellezza, sia per chi ama le atmosfere acustiche che per chi apprezza la formidabile miscela vocale che Herb e Chris sanno allestire quando le loro ugole si uniscono (e ormai sono decenni che la cosa accade). Come se non bastasse, hanno scelto per farsi accompagnare un gruppo di musicisti molto dotati che creano un sound ricco e grondante di umori unici. Ci sono infatti il violino di David Mansfield (già al fianco di Hillman negli anni ‘80 per una serie di registrazioni country- gospel), il bassista Bill Bryson (a lungo collaboratore del duo) e il chitarrista Larry Park. I due compadres oltre alle voci ci mettono il banjo (Herb) e il mandolino (Chris), con un risultato che le parole stentano a definire. Il concerto è un viaggio piacevolissimo attraverso tanti anni di musica e di gruppi e concede anche un paio di brani nuovi che in questi frangenti non guastano mai, come a dire che i nostri non sono solo due pezzi da museo. E difatti, la particolare ritrosia di Hillman verso il materiale d’archivio conferma questa dichiarazione. Chris Hillman sembra, con questo disco, essere ritornato definitivamente al mandolino, il suo strumento originario, quello con cui dalle parti di San Diego suonava in timidi gruppi bluegrass prima di imbracciare il basso e cominciare a volare con i Byrds. Il disco si apre con il gospel di Going Up Home per poi citare la Desert Rose Band attraverso Love Reunited. La versione di Turn Turn Turn è puro spettacolo così come gli altri brani byrdsiani, Have You Seen Her Face (il primo firmato da Chris per supplire alla fuoriuscita di Gene Clark dal gruppo) e l’incredibile versione acustica di Eight Miles High, che dal vivo è anche meglio di quella già spettacolare incisa in studio qualche anno fa. Dal repertorio dei Burritos ci sono Together Again, Sin City e un’azzeccata Wheels. Tra gli inediti si fa apprezzare particolarmente Tu Cancion una canzone di ispirazione tex-mex ma senza fisarmoniche composta da Hillman, probabilmente con in testa il Dylan di To Ramona. La conclusione del disco (quindici brani in tutto) è affidata a Wait A Minute cantata da Pedersen, e alla struggente Heaven’s Lullabye.

 Paolo Crazy Carnevale

 

 

 

Johnnie Selfish and the Worried Men Band

 

JOHNNIE SELFISH AND THE WORRIED MEN BAND

Committed

2010 Autoproduzione CD

 

Un disco realizzato da veri amanti della musica americana. Dagli strumenti, alle sonorità, Johnnie Selfish e i suoi propongono un ritratto del folk americano appassionato, ma molto, forse troppo tecnico,  puntuale nell’esecuzione e senza una nota in più o in meno di quanto sia richiesto. Questo è certo un pregio quando si suona un genere popolare, il saper essere allo stesso tempo buoni strumentisti e arrangiatori oculati. Tuttavia alcune pecche sono difficilmente perdonabili a dei musicisti di livello: voler fare una canzone d’autore, nel senso in cui è intesa in Italia, rifacendosi al mondo del folk americano può essere pericoloso e dare luogo a fraintendimenti non sempre risolvibili. C’è qualcosa di sbagliato nell’immaginarsi Woody Guthrie cantare una Song For The Working Class come quella che compare in apertura del disco, è un accostamento che va al di là dei limiti del folk americano, per sorvolare poi su svarioni linguistici propri dell’italiano come l’allitterazione “lines and lanes” che sono quasi cacofonici in altre lingue. Certo, è già una buona prova saper addentare con originalità un genere rigido e chiuso nei suoi schemi fissi, nelle sue armonie ricorrenti, e veramente il lato strumentistico non delude mai; molto pregevole anche lo strumentale Self Portrait. Tuttavia ciò che il disco non trasmette è il lato, per così dire, ruspante della musica, quell’eterna, ossessiva ripetitività dei folk singer, nonostante la quale sono nati brani di struggente poesia, soppiantati qui da immagini altamente prosastiche, poco più di una pallida imitazione. A volte si ha l’impressione che il testo non sia che un mero riempitivo per una musica che suoni il più americano possibile, quasi un esercizio di stile.

Eugenio Goria

 

 

neil_young_le_noise_cd_cover 

NEIL YOUNG

Le Noise

2010 Repris CD

 

Della serie dischi inutili. Dispiace dirlo di uno dei propri beniamini, ma questo ennesimo CD firmato dal canadese per eccellenza mi ha deluso. Così come mi avevano deluso i suoi predecessori. Non so se sia perché Young sta riversando tutte le energie nei suoi archivi o se sia proprio perché la vena creativa si è momentaneamente impoverita, ma non mi erano piaciuti né Chrome Dreams II, né Fork In The Road. Per carità qualche brano buono lo si trovava anche, così come lo si trova in questo nuovo CD, ma la sensazione era, ed è, che la bontà fosse dovuta al fatto che tutto il resto era davvero brutto. A partire dalla grafica, ma Young ha spesso avuto il gusto dell’orrido in questo senso, questi dischi non fanno davvero onore a buona parte del passato discografico di Neil Young. E sì che l’attesa era davvero spropositata, da quando si era saputo che a produrre il tutto c’era nientepopodimenoche il signor Lanois, un altro canadese. Più che di suoni in questo disco sentiamo dei feedback, ma non occorreva scomodare il già produttore di U2, Bob Dylan, Robbie Robertson: Young di feedback chitarristici ce ne aveva già regalati molti in passato, senza dover propinarci questa nuova creazione. Quello che emerge dagli ascolti, ripetuti, è la totale mancanza d’ispirazione, di buone canzoni. C’è anche la ripresa di un vecchio brano, pare risalente al 1976, ma sicuramente eseguito più volte nel tour del 1992, intitolato Hitchhiker, una buona canzone, ma vestita con un arrangiamento che non va giù. Un paio di brani acustici o semiacustici sembrano eccellere tra gli altri, otto in tutto per meno di quaranta minuti, Someone’s Gonna Rescue You e Peaceful Valley Boulevard dove si cerca di rifare il verso a certe cose di On The Beach (senza riuscirci), ma, lo ripeto è un’eccellenza fatua, che emerge per colpa della pochezza del resto. Quantomeno, stavolta ci è stata risparmiata l’edizione col DVD allegato (che ultimamente Young non aveva mai fatto mancare ai suoi fan) anche se per la verità, su Youtube c’è un video dedicato alla realizzazione di questo Le Noise.

 Paolo Crazy Carnevale

 

 

rufus party

RUFUS PARTY

Civilization & Wilderness

2007 Bluebout CD

 

 

Un bel lavoro come non se ne vedono spesso.  I Rufus Party sono una band di Reggio Emilia che ha scelto per il proprio lavoro, prodotto nel 2007, una veste semplice e casalinga: una grafica essenziale, una registrazione su bobinone analogico: roba d’altri tempi. Tuttavia, anche se in certi ambienti questo entusiasmo tutto amatoriale può non essere ben visto, il prodotto musicale è sicuramente di alta qualità, e merita il rispetto che si deve a un bel disco. Civilization & Wilderness è, come lo definisce il chitarrista Parmiggiani, “una specie di concept album registrato con amore, come si faceva una volta”, e rappresenta un’originale rielaborazione del rock blues britannico e americano. Forte è in molti brani l’influenza di Jagger e Richards, e a volte lo spirito di emulazione prevale sulla creatività, ma non mancano momenti anche di grande personalità che fanno presto dimenticare le piccole sbavature che si incontrano qua e là. Ad esempio le due parti in cui è divisa Walk Of Fame rappresentano un tentativo di sperimentazione davvero azzeccato e significativo, che mescola un riff blues suonato dall’armonica con sonorità innovative, a metà strada tra l’indie e il rock. Quanto alla voce, sono necessarie due parole in più: quasi sempre il cantante è in buona sintonia con l’accompagnamento e con la natura delle canzoni che interpreta, è perfetto in un brano come la poderosa e travolgente Mr. Shuffle, lascia però a bocca asciutta su un lento come Girl On A Pedestal, e l’ascoltatore forse vorrebbe un po’di più in un pezzo peraltro molto bello. L’ascolto prosegue tra suggestioni che vanno dagli anni Sessanta americani al rock contemporaneo, attraverso riff quasi sempre puntuali e incisivi, con una ricchezza di timbriche e di strumenti che rende il disco estremamente particolare: non ci sono molti gruppi che sanno utilizzare a ragion veduta un organo hammond.  Un bel lavoro dunque, con pregi e difetti, ma piacevole all’ascolto e ricco di buone idee.

Eugenio Goria

 

 

soft machine legacy

SOFT MACHINE LEGACY

Live Adventures

2010 Moonjune CD

 

 

Nonostante Hugh Hopper ed Elton Dean siano passati recentemente a miglior vita, la spinoff band che si dedica a proseguire i fasti dei Soft Machine continua la propria strada con onore e perseveranza. Questo live, fresco di stampa, ci propone il sunto di due serate tenute nell’ottobre dello scorso anno in Austria e Germania. Il gruppo, va detto per i puristi e i pignoli, non comprende alcun membro originale del gruppo, ma ha sempre avuto l’imprimatur degli ex, e il buon gusto di non farsi chiamare semplicemente Soft Machine è cosa non da poco. Per sostituire Hopper la formazione britannica ha seguito una logica inappuntabile ed ecco che ora le vibranti note di basso elettrico sono a discrezione di Roy Babbington, che negli anni ‘70 aveva militato nel gruppo per un breve periodo. Così sono sempre tre i componenti del quartetto attuale che hanno nel DNA la musica dei Soft Machine: Babbington, il batterista John Marshall e il chitarrista John Etheridge, che è un po’ il leader del gruppo odierno. Il quarto membro è il giovane Theo Travis, oboe e sassofono, che vanta un pedigree stellare, annoverando collaborazioni con Dick Heckstall-Smith, Gong, i fratelli Sinclair e Robert Fripp. Il disco è molto ben registrato e ci mostra un gruppo ben lontano dal fare della semplice musica per nostalgici, proponendo a fianco di qualche titolo firmato dai vecchi Soft Machine (Gesolreut di Ratledge e Facelift di Hopper) nuove composizioni di Etheridge, Travis e di Karl Jenkins, altro personaggio legato alle due formazioni. Si va dalle atmosfere molto progressive di Song Of Aeolus (con la chitarra ispirata di Etheridge a dominare) e The Nodder agli sperimentalismi dell’iniziale Has Riff II (rielaborazione di gruppo di un tema originale di Mike Ratledge), passando per il jazz rock di Grapehound e In The Back Room (con gran lavoro del sassofonista) e il free del medley The Relegation Of Pluto/Transit.

 Paolo Crazy Carnevale

 

 

thee jones bones

THEE JONES BONES

Electric Babyland

2010 Il verso del cinghiale CD

 

 

Nella scia dei gruppi a base di sola chitarra e batteria (White Stripes, Black Keys tanto per dire i più affermati) si inserisce questa curiosa formazione bresciana. Per la verità ci sono altri strumenti in questo disco, ma il gruppo resta comunque un duo, formato da Luca Ducoli e Michele Federici. Se la copertina e il titolo (entrambi da premio!) fanno pensare immancabilmente a Hendrix, l’ascolto ci porta decisamente altrove, le nove tracce di questo CD sono tutto tranne un riferimento al mancino di Seattle. Una parola può riassumere quello che i Thee Jones Bones suonano: rock’n’roll. Scontato? No, direi anzi molto fruibile, grezzo, ribelle, simpatico, in tutte le sue sfaccettature, il rockabilly delle origini, con tanto di riferimenti country e bluegrass, una buona dose di punk, passando, distrattamente, per Lou Reed con il brano Nico’s Banana. Il tutto shakerato col risultato di un prodotto fresco e originale: banjo, chitarre slide, ritmica incalzante: oltre al brano citato si fanno apprezzare particolarmente Cowbaby, Teachin’ Nurse e l’iniziale Holly Holly.

Paolo Crazy Carnevale

 

 

dire straits

 

DIRE STRAITS

Sultans Of Swing The Very Best

2010 Vertigo 2CD + DVD

 

La band si forma a Newcastle nel 1977 e poi si trasferisce a Londra, con David  Knopfler, il fratello  Mark, e gli amici John Illsey, basso e Pick Withers, drums. In piena era punk i Dire Straits  (letteralmente terribili ristrettezze) riuscirono a creare una sonorità unica, unendo il classico rock & roll a influenze country, jazz, swing e blues, grazie anche alla loro notevole capacità strumentale e compositiva che li fece diventare in poco tempo famosi in tutto il mondo con i due primi albums, Dire Straits e Communiquè, piccoli gioielli del genere e con singoli che ormai fanno parte della storia della musica rock, da Tunnel Of Love a Romeo And Juliet, da Local Hero a Sultan Of Swing, solo per citarne alcuni. Questa raccolta fu pubblicata dalla Vertigo nel 1998 come album singolo con sedici brani, ovviamente i più famosi della band oltre a due tracce live, Your Latest Trick e Local Hero/ Wild Theme. Visto il successo fu ripubblicata in doppio CD, con il disco originale sul primo CD e sul secondo un concerto inedito registrato a Londra nel 1996 durante il Golden Heart Tour, contenente sette brani e con versioni strepitose di Romeo And Juliet, Sultan Of Swing e Brothers In Arms. La ultimissima versione è questo lussuoso cofanetto con booklet allegato, a prezzo veramente contenuto, con i due CD già citati e uno stupendo DVD contenente sedici canzoni  dal vivo tratte da vari concerti con brani lunghi e dilatati, con grande spazio ai solismo dei musicisti e con Mark in grande spolvero con la sua chitarra e con la sua voce roca e personalissima:Sultan Of Swing, Romeo And Juliet, Tunnel Of Love, Calling Elvis, Love Over Gold e Heavy Fuel ci faranno sempre sognare.

Daniele Ghisoni

 

 

john hammond

JOHN HAMMOND

Rough & Tough

2009 Chesky Records CD

 

 

Quasi cinquant’anni di carriera, forse il più grande interprete ed esecutore bianco della musica blues di tutti i tempi, riesce ancora a stupirci con un nuovo album, grazie a una voce calda e coinvolgente, un tocco chitarristico unico unito alle sonorità stupende che riesce a trarre dalla sua armonica. Con un Palmares di un Grammy Award e un WH. Handy Award, oltre a diverse nomination, il 26  giugno di quest’anno ha suonato il suo concerto numero 4.000. Una produzione discografica enorme, oltre trenta album, iniziata nel 1962 ma con pochissimi lavori non all’altezza. Soprattutto interprete, perché John ha scritto pochissimo, delle canzoni di tutti i grandi del blues, da Muddy Waters , Chuck Berry, Jimmy Reed, Son House, Sonny Boy Williamson, fino a Howlin’ Wolf ,  solo per citarne alcuni, ma anche un brano già ascoltato migliaia di volte nella sua esecuzione riesce a dare ancora nuove sensazioni che ti coinvolgono in modo unico. Quindici brani, classici senza tempo, prodotti da G.Love , nei quali John si fa aiutare da Stephen Hodges, drums, Marty Baloou, bass e Bruce Katz, keys e suona acoustic and 12 strings guitar  National steel e armonica. Il disco è stato registrato  nel novembre del 2008 in NYC, alla St. Peter Episcopal Church. Le canzoni, quasi tutte già interpretate da John, si susseguono senza sosta, una più bella dell’altra:My Mind Is Ramblin del suo idolo Howlin’ Wolf, She’s Though, Chattanuga  Choo Choo, il classico di Glen Miller davvero stupendo, Statesboro Blues di Willie McTell, I Can Tell di Bo Diddley, No Place To Go, It Hurts Me Too di Elmore James, I Can’t Be Satisfied di Muddy Waters, solo per citarne alcune. Notevole il booklett allegato con notizie e foto per un disco da non perdere.

Daniele Ghisoni

 

 

kiss

KISS

Ikons – 2009 Mercury Box 4CD

Sonic Boom – 2009 Mercury Box 2CD + DVD

 

Ace Frehley, il chitarrista storico dei Kiss, ha appena pubblicato Anomaly, un disco in gestazione dagli anni ’90, poi rimandato per le sue vicissitudini personali, l’abbandono e il rientro nella band  in varie riprese, con alcuni brani scritti e incisi recentemente, veramente un bel dischetto degno di un grande musicista. Ma ai fan della band consiglio soprattutto  queste due chicche: Ikons è un cofanetto con oltre sessanta brani, in una bellissima confezione con un libretto con la storia della band, foto inedite e altre delizie. Le note si aprono con “Sono quattro, quattro volti, quattro eroi, quattro Icone”. Ogni CD è dedicato a un componente del gruppo e raccoglie le canzoni più belle e famose dallo stesso scritte e cantate. Di Gene Simmons, “The Demon”, troviamo tra le altre Deuce, Lager Than Life e Radioactive. Di Paul Stanley, “The Star Child” ricordo Detroit Rock City, Rock Bottom , Strutter e Mr. Speed. Di Ace Frehely, “Spaceman” possiamo ascoltare Talk To Me, Dark Light e Snow Blind. Infine, Peter Criss “The Cat Man” ci offre le stupende Beth, Black Diamond e Getaway.  Consigliato anche per il prezzo contenutissimo.  Sonic Boom è invece il nuovo album della band pubblicato in concomitanza col nuovo tour che porterà i Kiss in tutto il mondo, il primo in studio dal 1998. L’ascolto ha tolto ogni dubbio sulla utilità della operazione: un buon album di rock and roll, undici brani nuovi composti da Simmons e Stanley, alcuni col chitarrista Tommy Thayer. I mie preferiti sono Russian Roulette, Say Yeah e Hot And Cold,  ma anche gli altri non sono  davvero male. Questo box è una edizione limitata, in confezione deluxe in ogni senso, contenente anche un CD antologico e un DVD con un concerto inedito registrato al River Plate Stadium di Buenos Aires, il 9 Aprile del 2010.

Daniele Ghisoni

 

 

ozzy

OZZY OSBOURNE

Scream

2010 Sony Music CD

 

 

Decimo album in studio per l’ex leader dei Black Sabbath che a sessant’anni compiuti continua a stupire dandoci  lavori di ottima fattura, come il precedente Black Rain, che ha ottenuto ottimi riscontri di vendite, supportati da tour mondiali che confermano lo stato di grazia del “Prince Of Darkness”, sempre vivo e vegeto malgrado decenni di abusi in ogni senso. Si tratta anche del primo album senza il grande chitarrista Zakk Wylde, con lui dalla incisione di No Rest Of The Wicked nel  1998. Il disco è uscito in Europa l’11 Giugno 2010, con la produzione del fido Kevin Churko e con i trainanti singoli Let Me Hear Your Scream e Let It Die ha subito raggiunto tutte le top ten mondiali, grazie a concerti che hanno confermato l’incredibile carisma dal vivo del Mad Man e della sua band. Inciso ai Bunker Sudios di Los Angeles, ci offre undici nuovi brani composti da Ozzy e Churko, e quattro col tastierista Adam Wakeman.  Il resto della band è formato dal batterista di origine greca Tommy Clufetos (ex Alice Cooper e Ted Nugent) , dal bassista Rob Nicholson e dal chitarrista Gus G, ex Firewind, non geniale come Zakk (un vero mito) ma graffiante e con un suono potente e aggressivo. Let It Die e Let Me Hear Your Scream sono stupende, suono grintoso e coinvolgente, ma non sono da meno le durissime Soul Sucker e Crucify, o le ballate elettro/ acustiche Time e Life Won‘t Wait, con la voce di Ozzy sempre stupenda e accattivante. Grande e basta , mai nostalgico! Al recente Ozz Festival di Boston ha avuto una interminabile standing ovation dai suoi fan.

 Daniele Ghisoni 

 

 

davies

RAY DAVIES & The Coral Crouch End Festival Chorus

The Kinks Choral

2009 Decca CD

 

Solo un genio come Ray Davies poteva pensare a riproporre le più famose canzoni dei Kinks facendosi accompagnare da un coro liturgico, riuscendo in modo eccellente ad amalgamare brani seminali con sonorità così diverse, unendo il sacro al profano in modo unico.Il risultato è un disco davvero unico per la sua bellezza nel quale Ray canta facendosi accompagnare da una rock band composta da Billy Shamely e Milton McDonald, guitars, Dick Nolan, bass, Toby Baron, drums e Gunnar Frick e Ian Gibbons, keys. Il coro è originario di Crouch End, un sobborgo vicino a quello di Mushwell Hill, dove Ray è cresciuto, ed è diretto da David Temple. Ray li aveva già usati nella   incisione di Other People‘s Lives e in alcune sue esibizioni dal vivo. Dieci brani stupendi , alcuni  tratti da Village Green Preservation Society (disco stupendo  recentemente ristampato come triplo CD in edizione deluxe) ma tutti in questa versione col coro, che si amalgama perfettamente alla strumentazione elettrica, assumono una prospettiva musicale diversa, mantenendo intatto il nucleo originale della melodia. Le eterne You Really Go Me e All Day And All Of The Night, dal riff chitarristico unico e irripetibile, con il coro assumono un alone di magia, come le melodiche Days,   See My Friend, Shangri -La e Celluloid Heroes (queste ultime due  sono tra le composizioni di Davies quelle che adoro) che continuano sempre a incantare. Anche le famosissime Waterloo Sunset e Victoria con questo arrangiamento sembrano avere una immediatezza nuova e avvolgente.  Notevole anche Working Man Cafè, tratta dal suo ultimo, omonimo album, che fa la sua bella figura in mezzo a tanti classici. Un cenno a parte merita il medley di Villane Green, con Big Sky, Picture Book, Johnny Thunder, Do You Remember Walter? e ovviamente la title track che coinvolgono in modo sorprendente . Un grande disco che non mi stanco mai di riascoltare! Una volta i dischi preferiti che riascoltavi in continuazione si consumavano, succederà anche per questo CD ? 

Daniele Ghisoni

 

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/5

di admin

25 agosto 2010

A cura del nostro Daniele Ghisoni, una carrellata di recenti uscite discografiche dei protagonisti dei bei tempi che furono. Celebrazioni, ricordi, dischi nuovi ma anche e sopratutto una musica che decisamente si rifiuta di invecchiare.

URIAH HEEP
Celebration
2009 Edel CD + DVDuriah heep

Per celebrare il quarantesimo anniversario della pubblicazione del primo, stupendo album Very Heavy… Very Umble, famoso non solo per il suono innovativo della band, ma anche per una delle copertine più macabre e inquietanti nella storia della musica rock, gli Huriah Heep, guidati da sempre dal chitarrista e mente del gruppo Mick Box, pubblicano questo Celebration che è stata una vera sorpresa anche per uno come il sottoscritto che li ha sempre amati alla follia. Completano la formazione attuale Bernie Shaw, voce, Phil Lanzon alle tastiere, Trevor Bolder al basso e Russell Gilbrok, drums che ha sostituito il batterista storico Lee Kerslake, che aveva lasciato per motivi di salute un paio di anni orsono. Il nucleo è lo stesso da anni: ottimi strumentisti che hanno pubblicato I Wake The Sleeper, il buon album di studio inciso nel 2008 dopo oltre dieci anni dal precedente. Il  cantante David Byron, grande frontman, è purtroppo scomparso da anni, dopo una breve carriera solista. Lo stupendo tastierista, arrangiatore e coautore delle più belle e famose canzoni della band, Ken Hensley, continua una prestigiosa carriera ricca di soddisfazioni. Ma se il suono è cambiato rivolgendosi a sonorità piu corpose e avvolgenti, lo spirito degli Huriah Heep non è mai venuto meno, basta ascoltare questo lavoro che ci offre ben quattordici brani. Due sono nuovi (Only Human e Corridors Of Madness) gli altri ci ripropongono canzoni immortali come Sunrise, Stealin, The Wizard, Easy Livin, Lady In Black, Gypsy e Free And Easy, tutte riproposte in una nuova versione. Stupenda la confezione in digipack del dischetto, con un booklet ricco di foto, notizie e con i testi delle canzoni. Il DVD ci offre uno stupendo concerto registrato al The Sweden Rock Festival dello scorso anno, con la band in forma smagliante che ci offre quarantacinque minuti di musica che continua e continuerà a farci sognare.

 

JOHN HAMMOND
Rough & Tough
2009 Chesky Records CDjohn hammond

Quasi cinquanta anni di carriera, forse il più grande interprete ed esecutore bianco della musica blues di tutti i tempi, riesce ancora a stupirci con un nuovo album, grazie a una voce calda e coinvolgente, un tocco chitarristico unico, unito alle sonorità stupende che riesce a trarre dalla sua armonica. Con un palmares di un Grammy Award e un WH. Handy Award, oltre a diverse nomination, il 26 giugno di quest’anno ha suonato il suo 4 millesimo concerto. Una produzione discografica enorme, oltre trenta album, iniziata nel 1962, ma con pochissimi lavori non all’altezza. Hammond è soprattutto interprete, perché ha scritto pochissimo, delle canzoni di tutti i grandi del blues, da Muddy Waters e Chuck Berry a Jimmy Reed e Son House; da Sonny Boy Williamson a Howlin Wolf, solo per citarne alcuni, ma un brano già ascoltato migliaia di volte nella sua esecuzione riesce a dare ancora nuove sensazioni che ti coinvolgono in modo unico. Quindici brani, classici senza tempo, prodotti da G.Love, nei quali John si fa aiutare da Stephen Hodges alla batteria, Marty Baloou al basso e Bruce Katz alle tastiere e John suona acoustic and 12 strings guitar, National steel e armonica. Il disco è stato registrato nel novembre del 2008 in NYC, alla St. Peter Episcopal Church. Le canzoni, quasi tutte già interpretate da John, si susseguono senza sosta, una più bella dell’altra: My Mind Is Ramblin del suo idolo Howlin’ Wolf, She’s Though, Chattanuga Choo Choo, il classico di Glen Miller davvero stupendo. Poi, Statesboro Blues di Willie McTell, I Can Tell di Bo Diddley, No Place To Go, It Hurts Me Too di Elmore James, I Can’t Be Satisfied di Muddy Waters, solo per citarne alcune. Notevole il booklet allegato, con notizie e foto, per un disco da non perdere.

 

 
KISS
Ikons
2009 Mercury Box 4CD
Sonic Boom
2009 Mercury Box 2CD + DVDkiss

 
Ace Frehley, il chitarrista storico dei Kiss, ha appena pubblicato Anomaly, un disco in gestazione dagli anni ’90 poi rimandato per le sue vicissitudini personali, l’abbandono e il rientro nella band in varie riprese, con alcuni brani scritti e incisi recentemente, veramente un bel dischetto degno di un grande musicista. Ma ai fan della band consiglio soprattutto queste due chicche: Ikons è un cofanetto con oltre sessanta brani, in una bellissima confezione con un libretto che racconta la storia della band ricco di foto inedite e altre delizie. Le note si aprono con “Sono quattro, quattro volti, quattro eroi, quattro icone”. Ogni CD è dedicato a un componente del gruppo e raccoglie le canzoni più belle e famose dallo stesso scritte e cantate. Di Gene Simmons, detto “The Demon”, troviamo tra le altre Deuce, Lager Than Life e Radioactive. Di “The Star Child” Paul Stanley ricordo Detroit Rock City, Rock Bottom, Strutter e Mr. Speed: Di “Spaceman” Ace Freheley possiamo ascoltare Talk To Me, Dark Light e Snow Blind. Infine, “The Cat Man” Peter Criss ci offre le stupende Beth, Black Diamond e Getaway. Il box è consigliato anche per il prezzo contenutissimo.
Sonic Boom è invece il nuovo album della band, pubblicato in concomitanza col nuovo tour che porterà il gruppo per tutto il mondo, il primo disco in studio dal 1998. Il suo ascolto ha tolto ogni dubbio sulla utilità dell’operazione: un buon album di rock and roll, undici brani nuovi composti da Simmons e Stanley, alcuni col chitarrista Tommy Thayer. I miei brani preferiti sono Russian Roulette, Say Yeah e Hot And Cold, ma anche gli altri non sono davvero male. Questo box è una edizione limitata, una confezione deluxe in ogni senso, contenente anche un CD antologico e un DVD con un concerto inedito registrato al River Plate Stadium di Buenos Aires il 9 Aprile di questo anno.

 

DEEP PURPLE
Live At Long Beach Arena
2009 Purple Records 2CD
Live Encounters
2010 Purple Records 2CDdeep purple

 
Si tratta di due stupendi concerti dei Deep Purple, uno dei quali sino a oggi assolutamente inedito, mentre il primo che fu pubblicato nel 1995 dalla King Biscuit Flower Hours col titolo Deep Purple In Concert, registrato durante il Tour U.S.A. del 1976 con materiale raccolto alla meno peggio, tratto sia dal concerto alla Long Beach Arena del 26 gennaio che da quello registrato a Springfield il 27 febbraio. Il gruppo con i vecchi Jon Lord e Ian Paice, orfano di Ian Gillan, Ritchie  Blackmore e Roger Glover, è in un periodo musicale di transizione, malgrado la presenza della voce di Dave Coverdale, del basso di Glenn Hughes, impegnato anche come seconda voce, oltre all’astro nascente delle chitarra Tommy Bolin, giovanissimo talento di fama mondiale che portò nuove sonorità funky jazz nel suono della band, facendo però storcere il naso ai fan più integralisti. Questo concerto, qui propostoci nella sua integrità, è l’unica testimonianza ufficiale di quel periodo troppo breve ma stupendo, con la band in forma smagliante. Le date successive furono deludenti, alcune furono sospese e altre soppresse per i problemi di droga di Glenn e Tommy. Due CD con ventuno brani, oltre un’ora e mezza di musica incredibile, con i maggiori successi della band: Burn, Lady Dark, Smoke On The Water, Stormbringer e Higway Star, con ampio spazio lasciato alla genialità di Bolin che duetta in modo stupendo soprattutto con Jon Lord anche in brani da lui composti come Getting Togheter, Guitar Solo e Love Child. Alla fine del “Came Taste The Band Tour”, promosso per promuovere l’omonimo, eccellente album, il gruppo si scioglie per soddisfare l’ambizione di mille altre avventure. Bolin riforma la sua band ma il 3 dicembre di quell’anno, dopo un concerto di apertura a Jeff Beck a Miami, si spegne a soli venticinque anni. Il secondo dischetto ci offre il concerto tenutosi allo The Spodek, a Katowice, Polonia, il 3 giugno del 1996 per oltre un’ora e mezzo di eccellente musica. Pubblicato fino a oggi solo come bootleg, presenta la band in forma stupenda: Gillan, Lord, Paice e Glover supportati da uno stupendo Steve Morse alla chitarra solista, un artista che già aveva fatto scordare anche ai fan più incalliti un certo Ritchie Blackmore, con in evidenza uno striscione con la scritta “Gillan Is God and In Morse We Trust”! In questo caso sono diciassette i brani proposti, con classici del gruppo come Fireball, Black Night, Smoke On The Water, e Highway Star. E poi, canzoni stupende come Sometimes I Feel Like Screaming, Perfect Stranger e When A Blind Man Cried. Fantastici sono anche il solo di Steve Morse Cascades, nel quale conferma il suo talento chitarristico, e quello di Jon Lord che si ispira alla musica classica offrendoci Bach e altre delizie della sua cultura musicale che lo ha portato ha rinunciare ultimamente ai tour con la band per dedicarsi alla musica classica orchestrale. Di rilievo alcuni brani inediti dalle session dell’eccellente album Purpendicular, come per esempio Hey Chico e Rosa‘s Cantinas. Eccellente la confezione del dischetto con libretto contenente biografia, discografia, notizie, foto, interviste alla band. Consiglio la versione con allegato un DVD stupendo del concerto.

 

RAY DAVIES
&THE CORAL CROUCH END FESTIVAL CHORUS
The Kinks Choral
2009 Decca CD

 ray davies
Solo un genio come Ray Davies poteva pensare a riproporre le più famose canzoni dei Kinks facendosi accompagnare da un coro liturgico, riuscendo in modo sorprendente ad amalgamare brani seminali con sonorità così diverse, unendo il sacro al profano in modo unico. Il risultato è un disco davvero particolare per la sua bellezza, nel quale Ray canta facendosi accompagnare da una rock band composta da Billy Shamely e Milton McDonald alle chitarre, Dick Nolan al basso, Toby Baron alla batteria, e da Gunnar Frick e Ian Gibbons alle tastiere. Il coro è originario di Crouch End, un sobborgo vicino a Mushwell Hill, dove Ray è cresciuto, ed è diretto da David Temple. Ray aveva già utilizzato questo coro durante l’incisione di Other People‘s Lives e in alcune sue esibizioni dal vivo. Dieci brani stupendi, alcuni tratti da Village Green Preservation Society (ottimo disco recentemente ristampato come triplo CD in edizione deluxe), ma tutti in questa versione col coro che si amalgama perfettamente alla strumentazione elettrica. Le canzoni assumono ovviamente una prospettiva musicale diversa, mantenendo però intatto il nucleo originale della melodia. Le eterne You Really Go Me e All Day And All Of The Night, dal riff chitarristico assolutamente caratterizzante, con il coro assumono un alone di magia. Stessa sorte per le melodiche Days, See My Friend, Shangri -La e Celluloid Heroes (queste ultime due sono tra le composizioni di Davies che adoro maggiormente) che continuano sempre a incantare. Anche le famosissime Waterloo Sunset e Victoria con questo arrangiamento sembrano avere una immediatezza nuova e avvolgente. Notevole anche Working Man Cafè, tratta dal suo ultimo, omonimo album, che fa la sua bella figura in mezzo a tanti classici. Un cenno a parte merita il medley di Villane Green, con Big Sky/ Picture Book/ Johnny Thunder/ Do You Remember Walter? e ovviamente la title track che coinvolgono in modo sorprendente. Un grande disco che non mi stanco mai di riascoltare. Una volta i dischi preferiti che riascoltavi in continuazione si consumavano, succederà anche per questo CD? 

 
 

THE HOOCHIE COOCHIE MEN WITH JON LORD
Live At The Basement
2009 Edel Records CD+DVDhoochie

The Hoochie Coochie Men (da una canzone di Wilie Dixon) sono un’ottima band australiana di blues, guidata dal bassista Bob Daisley che, tornato in patria dopo una incredibile militanza di oltre trent’anni con artisti del calibro di Ozzy Osbourne, i Rainbow di Ritchie Blackmore, Ronnie James Dio, Chicken Shack, Uriah Heep e Gary Moore, solo per citarne alcuni, chiama con sé vecchi come il batterista Rob Grosser e il chitarrista Tim Gaze, già con i Rose Tattoo e Jimmy Barnes (questo ultimo cantante ex Cold Chisel, altra storica band di blues australiana). Con ospiti Mike Grubb alle tastiere e Jim Conway all’armonica pubblicano l’omonimo album che contiene spettacolari cover di classici come I Just Want To Make Love To You e You Need Love di Willie Dixon, Dallas di Johnny Winter, The Walk di Jimmy Mc Cracklin, Strange Brew dei Cream, oltre a proprie composizioni. Nel gennaio del 2003, il giornalista Paul Hogan (niente a che vedere con l’attore di Mr. Cocrodile Dundee) convince Jon Lord che stava dirigendo alla Opera House la Sidney Symphony Orchestra, a unirsi loro per una data al mitico Basement Club. La serata, era il 7 febbraio, davanti a pochi ma competenti appassionati, diventa un evento memorabile che sorprende anche gli organizzatori per il feeling che si instaura subito tra Jon e la band, supportata da una robusta sessione fiati. Dopo l’intro e le iniziali Hideway di Freddie King, Green Onions di Booker T. e Dust My Broom di Ellmore James, con Gaze stupendo alla voce e alla chitarra solista, il blues entra nel sangue e tutta la serata diventa una stupenda improvvisazione, con i musicisti che si ritrovano a meraviglia. Due ore di musica, con Jon che detta i fraseggi dal suo Hammond, con Jim Conway, personaggio stupendo, che si presenta sulla sedia a rotelle alla quale è condannato per tutta la vita, a soffiare il suo dolore  nell’armonica. Poi, ancora ospiti come l’idolo locale Jimmy Barnes, a confezionare song senza tempo come When A Blindman Cries The Hoochie Coochie Men Blues. Incredibile come solo una serata sia riuscita a produrre una discografia del genere da parte della benemerita Edel: prima una edizione in doppio CD, poi in CD + DVD, poi in triplo CD con tutta la serata, oltre a interviste varie. Ancora, un doppio DVD. Dimenticavo: c’è anche un altro doppio DVD, sempre di quella serata, sottotitolato Danger White Men Dancing, nel quale è ospite nientemeno che Ian Gillan in Over And Over e If This Ain’t The Bues.

(a cura di Daniele Ghisoni)

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/1

di admin

2 novembre 2009

La rubrica “Rock&Pop” sino a ieri presente nelle pagine del nostro Organo Ufficiale ha traslocato nel nostro sitoblog. Questo per almeno due motivi: primo, per non far invecchiare eccessivamente i contributi sulle novità discografiche (novità nel senso latefortheskyiano del termine, ovvero “novità si fa per dire”); secondo, per recuperare qualche pagina sulla rivista e dedicarla all’approfondimento. Pubblicheremo quindi in questo spazio le varie recensioni delle (per noi) più interessanti uscite discografiche. Buona lettura.

 

 

COBB & THE OTHER APOSTLEScobb001
I Leave My Place To The Bitches
2009 RNRCW CD

Quello che colpisce maggiormente nei prodotti discografici targati Alessandro Ducoli, sia che si tratti di lavori come quelli con i Bartolino’s o altri gruppi con cui da sfogo ai suoi impulsi cantautorali, sia che si tratti di dischi dall’impianto più dichiaratamente rock (il disco che sto recensendo e quelli degli Sanishjohnny), è l’incredibile spontaneità, che li attraversano dall’inizio alla fine. Ducoli è un genuino su tutti i fronti, uno che fa dischi perché gli piace farli, forse sotto sotto accarezza anche il sogno di ritagliarsi una fetta di fama o successo, ma in realtà non ne ha bisogno, perché la mole di dischi che ha prodotto in poco più di dieci anni di attività gli è già valsa comunque un bel posto tra i musicisti degni di rispetto. Ducoli è un generoso in tutti i sensi, perché c’è bisogno di dischi come questo, un disco pieno di energia, sicuramente più da band rispetto al precedente, che peraltro godeva di una magia tutta sua e per certi versi mi aveva forse colpito di più. Forse ora manca l’effetto sorpresa, ma in compenso c’è una classe da vendere, e come sempre l’urgenza di dire delle cose, a partire dal concetto, anzi dal fatto reale da cui il disco prende il titolo: una triste considerazione sul fatto che la maggior parte dei bar in cui il nostro era solito esibirsi sono diventati locali da spogliarello, nella migliore delle ipotesi. E allora ecco spiegato perché Ducoli/Cobb lascia il suo posto alle signorine, nei confronti delle quali peraltro non nasconde una certa simpatia. Un disco quasi interamente elettrico: rispetto a Easylove, il suo predecessore, ci sono forti venature funk, dall’iniziale title track (uno shuffle) alla successiva Like a Rolling Stones (dal titolo fuorviante). Il riferimento sembrano essere gli anni ‘70, soli di chitarra squarcianti, tastiere penetranti, una voce femminile al posto giusto, come nell’ottima Straight Up Coffee. Piace anche la nonchalance con cui Ducoli/Cobb, quasi a sottolineare questo dualismo di identità, passa dalla lingua inglese all’italiano nel corso della stessa canzone. E soprattutto piace pensare che in una remota valle dell’alta Italia ci sia qualcuno con le palle di continuare a fare la musica in cui crede con tanta costanza e prolificità. E vale la pena di tessere le lodi di House In The Woods, il brano che conclude questa ennesima fatica del nostro: non ho dubbi che se Neil Young ascoltasse questa canzone direbbe che l’avrebbe voluta scrivere lui, lui che nel suo ultimo disco non è riuscito a includerne nemmeno una che sia bella solo la metà di questa.

Paolo Crazy Carnevale

 

 

JOE COCKERcocker_woodstock[1]
Live at Woodstock
2009 A&M CD

Lo dico subito: della location di questo concerto non mi importa nulla. Sarà magari solo per ragioni anagrafiche, ma il mito di Woodstock mi è arrivato addosso già sdrucito e invecchiato, come un bel sogno di altri sognatori ormai trasformato in incubo. Qui può bastare ricordare che all’indomani della sua strepitosa performance al celebre festival Joe Cocker era passato dal rango di giovane promessa a quello di superstar, vittima predestinata di tante e tali pressioni commerciali da portarlo in pochissimi anni allo sfascio psicofisico (quel vacuo sguardo da tossico impietosamente ritratto in certe copertine degli anni ’70!). Importa invece che dopo 40 anni questa resta, appunto, una performance strepitosa. La fisicità dei ruggiti di Joe è quella di un ragazzo tutto sensualità e sentimento che fa evadere il rhytm and blues dalle prigioni in cui stava rinchiuso – le poltroncine di velluto dei night club, le luci basse delle sale da ballo, ma anche i teatri dai quali i soul brothers & sisters avevano appena cominciato a cercare di fuggire – per riportarlo in mezzo agli esseri umani “di mente e di cuore” come avrebbe detto Joni Mitchell. Stiamo parlando di entertainment, sia chiaro, e la scaletta dei brani eseguiti lo dimostra senza possibilità di dubbio: tre soli brani originali, e poi due cover della premiata copia soul Ashford & Simpson, una di Ray Charles, tre brani di Dylan (su tutti, una Just Like A Woman da spezzare il cuore), la Feelin’ Allright dei Traffic e a finire la beatlesiana With A Little Help From My Friends trasformata in un inno tutto anima e viscere. Una tipica scelta di repertorio, insomma, da “cantante di successo”, come miliardi di mestieranti. A fare la differenza, è innanzi tutto il cuore di Joe, la convinzione con cui le pulsazioni vengono messe in sintonia con la voglia di vita e di felicità di chi ascolta, e poi i musicisti, forse tecnicamente non eccelsi (però alle tastiere c’è Chris Stainton, destinato con merito a un luminoso futuro), ma dal feeling immenso. Uno dei pochi dischi di Woodstock che ancora oggi ha senso ascoltare: qui c’è il Joe Coker migliore, quello che col cuore gonfio di sentimento, i sensi tesi ad afferrare la felicità per riempirsene l’anima e le roche ombreggiature della voce ha incarnato, come forse nessun bianco in tutta la storia della nostra musica, lo spirito del rhytm and blues: la vita come ritmo di passione e sensualità, sofferto eppure gioioso, inesorabilmente risucchiato dal gorgo della morte.

Luciano Salvati

 

 

JOHN HAMMONDhammond
Rough & Tough
2009 Chesky Records CD

Quasi cinquanta anni di carriera, forse il più grande interprete ed esecutore bianco della musica blues di tutti i tempi, Hammond riesce ancora a stupirci con un nuovo album, grazie a una voce calda e coinvolgente, un tocco chitarristico unico unito alle sonorità stupende che riesce a trarre dalla sua armonica. Con un palmares di un Grammy Award e un WH Handy Award, oltre a diverse nomination, il 26 giugno di quest’anno ha suonato il suo 4.000° concerto. Una produzione discografica enorme, oltre trenta album, iniziata nel 1962 ma con pochissimi lavori non all’altezza. Hammond è soprattutto un grande interprete, perché ha scritto pochissimo, delle canzoni di tutti i grandi del blues, solo per citarne alcuni Muddy Waters, Chuck Berry, Jimmy Reed, Son House, Sonny Boy Williamson e Howlin‘ Wolf, ma un brano già ascoltato migliaia di volte nella sua esecuzione riesce a regalare ancora nuove sensazioni che ti coinvolgono in modo particolare. Quindici brani, classici senza tempo, prodotti da G.Love, nei quali John si fa aiutare da Stephen Hodges, drums, Marty Baloou al basso e Bruce Katz alle tastiere, mentre John suona acoustic and 12 strings guitar, National steel e armonica. Il disco è stato registrato nel novembre del 2008 in NYC, alla St. Peter Episcopal Church. Le canzoni, quasi tutte già interpretate da John, si susseguono senza sosta, una più bella della altra: My Mind Is Ramblin’ del suo idolo Howlin’ Wolf, She’s Though, Chattanuga Choo Choo, il classico di Glen Miller davvero stupendo, Statesboro Blues di Willie McTell, I Can Tell di Bo Diddley, No PlaceTo Go, It Hurts Me Too di Elmore James, I Can’t Be Satisfied di Muddy Waters, solo a titolo di esempio. Notevole il booklett allegato con notizie e foto. Un disco da non perdere.

Daniele Ghisoni

 

ZACHARY RICHARD
Last KissZACH RICH
2009 Artisti Garage CD

Amiamo svisceratamente Zachary Richard da tempo immemorabile e chi ci segue da tempo ben lo sa. Zach, dopo alcuni ottimi album in lingua francese per i cui giudizi riferentesi agli ultimi vi rimandiamo al numero 92 torna a fare un disco il lingua inglese. Ci siamo già soffermati precedentemente sulle motivazioni che possono spingere il cantante canadese ora a optare per l’uso dell’idioma francese, ora per quello anglofono evitando quindi di ripeterci. Per la precisione erano comunque diciassette anni che un suo CD non veniva proposto nell’idioma inglese e se i precedenti in tal lingua non ci avevano entusiasmato più di tanto, a parte Snake Bite Love del 1992, qua troviamo un lavoro che risente del pathos dei suoi LP francofoni ma con la riuscita capacità di coniugarlo appunto con la lingua inglese, e trattasi di un lavoro splendido. È ovvio che la lingua francofona abbia quel quid di pathos in più che la caratterizza ma Last Kiss, questo il titolo del nuovo album, è lavoro intenso e lancinante come nelle sue migliori pagine del passato. Eric Sauviat è protagonista alla chitarra mentre, tra gli ospiti, abbiamo Celine Dion nel bel duetto su Acadian Driftwood di Robbie Robertson. Le restanti undici canzoni sono tutte a firma Richard e vi ritroviamo Au bord de Lac Bijou già ripresa in Italia da Fabrizio Poggi, unica canzone qua proposta in francese. Freddy Koella al mandolino, violino e steel ci fa capire che trattasi della stessa già pubblicata precedentemente da Richard e un ascolto più attento ci conferma che è la stessa apparsa su Cap Enrage nel 1996. Peccato, ovviamente pensavamo fosse una nuova versione. Non sappiamo il riscontro che questo disco in inglese potrà avere sugli acquirenti di tal lingua e anche se da sempre Zachary lo preferiamo quando canta in francese questo è sicuramente un lavoro tra i più suggestivi della sua discografia, anche se ancora una volta a e ormai definitivamente, purtroppo crediamo, dobbiamo rassegnarci al fatto che non viene assolutamente più da lui usata la fisarmonica! Si poteva scegliere una foto di copertina migliore poiché questa rende impietosamente evidente il passare degli anni, e trattasi inoltre di foto decisamente mediocre. Molto più affascinante quella col cappello che fa mostra di se nella seconda pagina del libretto accluso e che, se usata in copertina, avrebbe maggiormente reso giustizia al disco. Come di consueto, i testi raccontano con maestria della sua terra e delle sue vicende. Un gran bel disco tristemente invernale orientato mestamente anche sul trascorrere del tempo, ma quello del trascorrere del tempo e della nostalgia era caratteristica primaria anche del suo splendido penultimo lavoro, Lumiere dans le Noir. (Per Rosi, passata come una meteora…).

Ronald Stancanelli

 

 

LOW ANTHEMlow[1]
Oh My God, Charlie Darwin
2008 Bella Union (Usa, Europa 2009)

Disco dell’anno? Questo Oh My God, Charlie Darwin ha nel primo ascolto, e soprattutto nei successivi, un impatto devastante come fu quello di tanti anni fa ascoltando i novelli Cowboy Junkies. Arrivano da Providence nel Rhode Island e sono Ben Knox Miller, Jeffrey Prystowsky e Jocie Adams. Questo album ha venduto circa 7000 copie semplicemente con l’interesse che il passa parola data la loro indubbia bravura ha generato. Chi li ha visti dal vivo e ha poi comprato il loro CD ne ha parlato, e così via sino a che, alla fine, è stato appena pubblicato anche in Europa per la Bella Union. Credo che chi li ascolterà ne resterà affascinato e sicuramente un ulteriore passaparola positivo si creerà anche da noi. I primi 5000 CD erano numerati a mano e una prima parte degli stessi addirittura con la copertina dipinta a mano da Miller che è anche pittore. Molteplici e variegati gli strumenti utilizzati nel gennaio 2008 quando il disco è stato registrato, anche una cetra, tabla, e un organo a pompa. Realmente è difficile citare un brano a discapito di un altro ma certamente To Ohio e Charlie Darwin si ergono tra le canzoni più belle che abbiamo ascoltato in questo 2009. Le voci sono perfette e così ogni singolo strumento. Nulla è lasciato al caso come nada es fuera de lugar o desordenado. I brani si alternano tra dolci ballate acustiche e sincopati ritmi elettrici. Appena finisce, la durata è quella canonica degli LP di una volta, circa 42 minuti, viene voglia immediatamente di riascoltarlo e l’unica cosa che può dispiacere per un lavoro di questo tipo è il non avere tra le mani un vinile con bella grande e rigida copertina cartonata ma un semplice piccolo dischetto digitale. Uno dei dischi più belli che ho ascoltato ultimamente, probabilmente il migliore, che non mi stancherà di consigliarvi di acquistare esortandovi, se l’effetto sarà lo stesso che ha fatto su di me, di continuare un meritato passa parola. Crediamo possa realmente essere disco dell’anno e in attesa (pare che sarà così, che vengano anche in Italia) di andare a vederli, ci accingiamo a riascolatre Charlie Darwin per l’ennesima volta. Il loro precedente CD What The Crow Brings è uscito nell’ottobre del 2007. Esiste anche un album datato 2006 dal titolo Low Anthem edito in un paio di centinaia di copie vendute direttamente da loro ma è stato poi da loro stessi ritirato con nessuna intenzione di mai più ripubblicarlo. Benvenuto quindi a questo combo che pensiamo in un immediato futuro farà sicuramente ancor parlare di se. Quattro stellette se non qualcosa di più.

Ronald Stancanelli

 

loreley

MARILLION
Recital Of The Script
2009 Emi 2 CD
Live From Loreley
2009 Emi 2 CD

Tra il 1983 e il 1987 i Marillion sono stati il gruppo di riferimento per gli appassionati di rock progressivo. Nella loro scia hanno cercato di emergere altre band principalmente britanniche (Pendragon, I.Q., Pallas, Twelfth Night), ma solo i Marillion hanno ottenuto un notevole riscontro commerciale almeno in Europa. Guidati dal carismatico cantante marillionFish, con Steve Rothery alla chitarra e Mark Kelly alle tastiere, Pete Trewavas al basso e Mike Pointer alla batteria hanno pubblicato lo splendido album d’esordio Script For A Jester’s Tear nel 1983. Recital Of The Script ci permette di rivivere uno dei momenti migliori di quel periodo, la seconda data all’Hammersmith Odeon di Londra del 19 aprile, ultima serata di un tour trionfale. Parzialmente pubblicato in versione video, il concerto viene stampato per la prima volta integralmente in due dischetti. Oltre a versioni eccellenti dei brani dell’album, tra i quali spiccano la title track, un classico del prog con cambi di ritmo perfetti e un’interpretazione cristallina di Fish, la complessa The Web, la melodia indimenticabile di Chelsea Monday con Rothery in primo piano e la drammatica Forgotten Sons, vengono eseguite le b-sides Charting The Single e Three Boats Down From The Candy e il primo singolo Market Square Heroes. Ma, soprattutto, come bis possiamo riascoltare la suite Grendel, pubblicata originariamente come b-side, un brano mitico per i fan e mai troppo amato dalla band, forse un po’ acerbo e derivativo (alcuni passaggi ricalcano fortemente i Genesis), ma interpretato teatralmente da Fish che, come il suo idolo Peter Gabriel, usava costumi e maschere sul palco. Quattro anni dopo la band è in una fase molto diversa, come spiega Fish nelle interessanti note del booklet. Dopo il successo crescente culminato con Misplaced Childhood, un album concept perfetto salito in cima alle classifiche europee spinto dai singoli Kayleigh e Lavender, le fatiche di tour intensivi, un quarto disco meno riuscito (Clutching At Straws) e contrasti tra i musicisti hanno minato l’equilibrio interno. Quando il 18 luglio del 1987 i ragazzi salgono sul grande palco di Loreley davanti a ventimila fan per uno dei concerti più significativi del tour, la tensione è al massimo. La voce di Fish non è più quella degli esordi; gli sforzi richiesti dal repertorio della band, i troppi concerti e stravizi di ogni tipo hanno ridotto la sua autonomia (non a caso Cori Josias lo affianca come corista). I Marillion sono ancora una band in forma, anzi tecnicamente sono migliorati, ma hanno perso in freschezza. Anche questo concerto è stato pubblicato negli anni ‘80 in videocassetta e poi in DVD, ma non integralmente. Il cadenzato opener Slainte Mhath, una complessa White Russian e la deliziosa ballata Sugar Mice rappresentano bene il nuovo album nel primo dischetto, alternate ai classici Incubus e Fugazi, oltre alla inevitabile Script For A Jester’s Tear. Il secondo compact si apre con la sequenza Hotel Hobbies/ Warm Wet Circles/ That Time Of The Night, seguita dalla prima facciata di Misplaced Childohood e dalla trascinante The Last Straw. I bis comprendono Garden Party e Market Square Heroes con l’attiva partecipazione del pubblico. Pochi mesi dopo Fish lascia la band per intraprendere una carriera solista che non riuscirà mai a decollare, mentre i Marillion lo sostituiscono con Steve Hogarth e cambiano gradualmente genere musicale, virando verso un pop rock un po’ freddo, non privo di spunti interessanti. Lasciata la Emi sono diventati indipendenti, hanno un sito internet molto ben gestito e uno zoccolo duro di appassionati, ma le emozioni suscitate negli anni ‘80 restano nel cuore dei fan che li hanno seguiti e apprezzati in quel periodo irripetibile.

Paolo Baiotti

 

 

MIAMI & THE GROOVERSGROOVERS
Merry Go Round
2008

Noi che siamo fruitori, la rivista e questo sitoblog ne sono esempio lampante, di musica straniera non possiamo non dare atto al gruppo dei Miami And The Groovers di avere fatto un album, vabbeh chiamamolo CD, di enorme impatto, immediato e dirompente. È un lavoro che potrebbe senza alcuna riserva essere uscito dal New Jersey e di New Jersey nostrano si tratta. Lorenzo Semprini, lead vocal, chitarre e armonica, Claudio Giani al sassofono, Marco Ferri alla batteria, Beppe Ardito alla chitarra elettrica, Luca Fabbri al basso e Alessio Raffaelli alle tastiere e fisarmonica omaggiano i propri ascoltatori di un album a cento miglia all’ora tra campagne e praterie. I ragazzi, arrivano chi dall’Emilia chi dalla Romagna, ci verrebbe di dire tra la via Emilia e l’East, e hanno masticato nel loro percorso da Southside Johnny a John Cafferty passando tra le maglie di Willie Nile, Murray McLauchlan, Elliott Murphy, non disdegnando certo l’ascolto di Springsteen o dei nostrani Rocking Chairs. Tredici brani di spumeggiante ritmo e di cinematografica espressione quasi tutti a firma di Semprini o da solo o in coppia con vari compagno di gruppo. Il CD è dedicato a Warren Zevon e tra gli artisti ospiti ci fa piacere trovare amici di come Joel Guzman, gia fisarmonicista con Joe Ely, Jono Manson, cantautore ormai ubicato dalle nostre parti e Marc Reinsman all’armonica. Se i primi brani seguono le coordinate degli artisti su citati, My Sweet Rose sta tra i Lucky Seven e i Black Sorrow e i nostri amici, qua con Guzman, sono a cavallo del confine muovendosi mirabilmente nella Sun Belt. Ma non finisce qua, poiché un pezzo come The Time Has Come ci porta nelle praterie dei Green On Red e la passione che trasuda sia da questo brano che dal resto finora ascoltato ci porta lontano e ci fa sognare e ben sperare se escono qua dischi di siffatto livello. Poi il genere sarà di nicchia, la distribuzione magari non facile, il pubblico non sarà nell’ordine delle migliaia di fan ma ce ne fossero di prodotti di siffatta levatura. Noi li abbiamo incontrati e poi sentiti suonare e quando ne avremo l’occasione saremo di nuovo li perché questo è il nuovo che avanza. Questo CD è stato preceduto nel 2005 da Dirty Roads, bel titolo per un album del quale contiamo di parlarne quanto prima. La produzione è affidata allo stesso Semprini e la registrazione effettuata a Trebbiantico, mixato a Ravenna e ulteriori tracce inserite tra San Marino e gli States. La voce, molto bella, di Semprini a tratti ricorda Graziano Romani e non smetteremo mai di ringraziare l’Emilia Romagna per tutta la buona musica donataci in questi anni. I brani si susseguono e in Sliding Doors la chitarra trasversalmente ci ricorda il suono di Philip Donnelly. Un album che più va avanti più ci piace. Non c’è una canzone minore o di riempitivo, tutto è ben dosato e ogni pezzo trascina con passione il seguente. Andate sul sito di questo gruppo sia per procurarvi il CD che per scoprire quando e dove suoneranno la prossima volta. (www.miami-groovers.com).

Ronald Stancanelli

 

 

MUDDY WATERSMUDDY
The Johnny Winter Sessions 1976 – 1981
2009 Raven Records CD

Chi pensava che non ci fosse più materiale interessante di Muddy si sbagliava di grosso. Infatti, la australiana Raven pubblica questo bellissimo CD che riguarda un periodo particolarmente importante per uno dei padri del blues di Chicago, in quanto segnava il passaggio dal blues canonico, quello della Chess Records ormai in declino, a quello contaminato dalla musica rock, derivato dal british blues britannico. Muddy entra in studio con uno dei più grandi chitarristi bianchi di blues, Johnny Winter, l’albino dall’anima nera (detto anche Silver Train, dalla canzone che gli avevano dedicato i Rolling Stones). Con Muddy e Johnny alcuni dei più grandi musicisti di blues, alcuni giovanissimi, altri già allora leggende viventi. Eccoli: Pinetop Perkins al piano, James Cotton, Jerry Portnoy e Walter Horton all’armonica; alle chitarre Jimmy Rogers, Bob Margolin e Luther Guitar Jr. Johnson. Alla batteria Willie Big Eyes Smith. Al basso Calvin Jones e Charlie Calmese. Diciannove brani stupendi prodotti da Winter e pubblicati sui quattro album di Muddy per la Blue Sky: Hard Again, I ‘m Ready, King Bee e Muddy Mississippi Waters, oltre a Walking Through The Park, pubblicata nell’album Nothing But The Breeze di Johnny Winter e Trouble No More, pubblicata solo nella ristampa in CD deluxe di Muddy Mississippi Waters. Musica che gronda lacrime e sudore, un suono grezzo e sporco come quello dei Rolling Stones ma sempre fresco e attuale. Muddy esegue tutte le parti vocali e Johnny tutti gli assolo, inarrivabile alla slide, mentre gli altri musicisti sono semplicemente superlativi. Canzoni di eterna bellezza composte da Waters come Rock Me, 33 Years, I Can’t Be Satisfied e Crosseyed Cat, si alternano a classici come Mannish Boy di Bo Diddley, Good Morning Little Scoolgirl di Sonny Boy Willamson, I Want To Be Loved di Willie Dixon, I‘m A King Bee di Slim Harpo e Mean Old Frisco di Arthur Big Boy Crudup. Vista la elegante edizione con un esauriente booklet allegato e la ottima incisione è consigliato anche a chi ha già tutto di Muddy, ma soprattutto a chi vuole conoscerlo.

Daniele Ghisoni

 

 

PAOLO NUTINI
Sunny Side UpNUTINI[1]
2009 Atlantic CD

 
Oltre ai Low Anthem, un altro nome che mi ha eccitato particolarmente è stato quello di tal Paolo Nutini, artefice di un disco decisamente interessante, coinvolgente e particolarmente suggestivo. Il giovanotto ha una particolare voce, a tratti quasi un soul man, molto più matura della sua età e inizialmente, infatti, si pensava trattarsi di un artista di mezza avanzata età. Invece, dalle foto che lo ritraggono nel libretto pare possa avere poco meno di trent’anni. Sunny Side Up, questo il titolo di un lavoro che assembla vari brani che abbracciano disparati generi tra cui non possiamo esimerci dal citare ovviamente un pop di alta fattura, (Coming Up Easy) un country di buonissima levatura, (Simple Things) pezzi di eccellente cantautorato (le ottime Candy e Worried Man) e allegri momenti tra le terre d’Albione e le Highlands scottish (Chamber Music). In altri frangenti le tematiche musicali abbracciano un lento inno quasi da cerimonia funebre (Keep Rolling), alcuni istanti mescolano pop con reggae (10/10) altri si rivolgono alle classiche ballate (Growing Up Beside You) mentre qualcosa vibra tra suoni sfumatamente blues (Pencil Full Of Lead e No Other Way), e infine una spruzzata di soul jazz che non guasta (High Hopes). Un lavoro molto interessante che andremo ulteriormente a scoprire quando nel mese di novembre Nutini arriverà qua da noi con una manciata di date che si annunciano decisamente interessanti. L’artista scozzese che aveva esordito nel 2006 con These Streets è prodotto da Ethan John che ha anche lavorato anche con Ray Lamontagne, trait d’union questo con i Low Anthem che hanno recentemente suonato appunto con lui. Come dicevamo, un disco dalle molteplici sfaccettature, tutte affascinanti e godibili che per essere completato ha avuto bisogno di viaggi tra studi di registrazione ubicati da Los Angeles a New York e dal Galles alla verde Irlanda. Tutti i brani sono a sua firma e un cenno al disegno di copertina che riporta a cover splendide degli anni passati.

Ronald Stancanelli

 

 

RYAN ADAMS & THE CARDINALSR.Adams_Everybody_cov.[1]
Everybody Knows
2007 Lost Highway CD

A scorrere la produzione discografica di Ryan Adams, prima con i Whiskeytown e poi come solista, si potrebbe pensare di aver a che fare con un cinquantenne con circa venticinque anni di carriera alle spalle. Invece, Ryan di anni ne ha solo trentacinque e Faithless Street, debutto dei Whiskeytown, risale solo al 1995. Decisamente iperattivo il nostro amico, dei cui album solisti ho ormai perso il conto, e anche un tantino sopravvalutato dalla critica perché, per forza di cose, in mezzo a tante pubblicazioni ce ne sono di sicuramente validissime, ma anche altre molto più noiose. Heartbreaker, Gold e Cold Roses ad esempio mi erano sicuramente piaciuti, mentre i due capitoli di Love Is Hell o Demolition (in realtà una raccolta di outtake) un po’ meno. E non aiuta certo a essere più indulgenti nei suoi confronti il suo carattere, in quanto l’ego di Ryan Adams è inversamente proporzionale alla sua simpatia, come si può facilmente intuire dalle varie interviste lette sulle riviste di settore. Oltre a pubblicare dischi a suo nome, l’irrequieto cantautore americano si dedica anche alla produzione di lavori altrui (ottimo il suo intervento in Songbird di Willie Nelson) o come talent scout (vedi il lancio in grande stile dell’amico Jesse Malin). In questa sede vorrei spendere due parole su un EP del 2007, Everybody Knows, composto da un paio di inediti e alcuni brani pescati fra la sua torrenziale discografia e reinterpretati per l’occasione, e a mio parere fra i migliori dischi da lui pubblicati. Solo otto canzoni per trentacinque minuti di durata totale per questo dischetto, venduto comunque a prezzo speciale, ma non c’è un solo brano da buttare. Con lui sono i Cardinals, ormai il suo gruppo fisso, nei quali milita anche un certo Neal Casal alla chitarra e cori, che non è sicuramente l’ultimo arrivato, autore di pregevoli lavori a suo nome, Fades Away e Diamone Time su tutti. Inoltre, il vecchio amico Brad Pemberton alla batteria, il tastierista Jamie Candiloro, responsabile anche della splendida produzione del CD, con in più Chris Fenstein al basso e Jon Graboff alla pedal steel. Le canzoni. Oltre alla bella title track, uno dei brani di punta del suo album precedente, Easy Tiger, le mie preferite sono le ballate mid-tempo Follow The Lights, sublime country rock, e If I Am A Stranger, già sentita in Cold Roses, ma qui è migliore, la trascinante This Is It, che si trovava in versione diversa nell’album Rock’n’Roll, la particolare cover di Down In A Hole degli Alice In Chains, gruppo apparentemente distante anni luce dai consueti standard di Ryan Adams, e la pianistica Dear John, scritta assieme a Norah Jones e dedicata a John Lennon. In sostanza, quindi, un dischetto che mi sento di consigliarvi assolutamente e che dimostra che se il suo autore, con un po’ di umiltà, puntasse più alla qualità che alla quantità, potrebbe entrare nel novero dei grandi.

Gianfranco Vialetto

 

 

RAMBLIN’ JACK ELLIOTTramblin jack
A Stranger Here
2009 Anti CD

Lo confesso, ho la tendenza a storcere il naso quando leggo le recensioni che incensano eccessivamente il ritorno sulle scene di un grande vecchio. Spesso mi sembrano dettate dalla nostalgia, o addirittura dal senso del dovere di chi scrive: dover parlar bene per forza di un artista dalla leggendaria carriera. Ramblin’ Jack mi è sempre stato simpatico come personaggio, mi piace ricordarlo al fianco di Dylan nella Rolling Thunder Revue, ma per il resto l’ho sempre reputato uno cresciuto all’ombra di Guthrie e poi, pur essendone più vecchio, del grande ebreo (il cui ultimo disco non piace affatto). Qualche anno fa mi ero lasciato tentare da un suo celebratissimo disco di duetti per la Hightone, ma l’avevo trovato null’altro che piacevole. Con queste premesse, quando ho letto di questa pubblicazione della Anti, mi sono sorti molti dubbi, ma non ho saputo resistere, per fortuna, perché stavolta c’è davvero da gridare al miracolo. Finora uno dei dischi migliori dell’anno, forse della decade. Dieci blues tradizionali che più tradizionali non si può. Dal reverendo Gary Davis a Blind Willy Johnson. Il segreto della bellezza di questo disco sta probabilmente nella produzione intelligentemente essenziale di Joe Henry, che ci mette molto del suo per garantire un risultato da record. Elliott poi fa la sua parte cantando questi vecchi blues come non lo avevamo mai sentito cantare prima, con una rara intensità e con la voce più giusta che potesse esserci. Pochi compagni in studio, David Hidalgo, Van Dyke Parks, Greg Leisz, tutti tesi a costruire un sound penetrante come non se ne sentiva da quando Ry Cooder incise i suoi primi dischi. Sarà la presenza di Parks, forse, ma questo disco ricorda davvero molto i suoni dei primi tre dischi del chitarrista di Los Angeles, sia per il risultato che per gli intenti. Tra le perle del disco vanno senz’altro citate Death Don’t Have No Mercy e Soul Of A Man, ma piacciono molto tutti i brani come il country blues Richland Women Blues di Mississippi John Hurt, How Long Blues, la tristissima Grinnin’ In Your Face.

Paolo Crazy Carnevale

 

 

RANCHO DELUXErancho_deluxe
True Freedom
2009 Rancho Deluxe CD

Non sono ben chiari i criteri dell’industria discografica, ma non c’è di che stupirsi: il fatto che dischi come questo possano girare solo grazie all’autoproduzione la dice davvero lunga. True Freedom è la seconda prova di questo duo californiano dalle grandi risorse, si tratta di un signor disco ben sorretto dalle composizioni di Mark Adams (autore principale) e Jesse Jay Harris (sopraffino chitarrista e polistrumentista), figlio, quest’ultimo, di quel Greg Harris che sul finire degli anni ‘70 seppe infondere nuova linfa ai riformati Flying Burrito Brothers, rivestendo il mitico live giapponese del1978 di un gran suono chitarristico e della propria voce graffiante. I Rancho Deluxe sembrano proprio figli di quel suono, un gran bel country-rock californiano caratterizzato da ottimi suoni di chitarra, dove le acustiche si mescolano bene con la Telecaster (Jesse Jay) e con la pedal steel di Jaydee Maness restituendoci sonorità che temevamo passate a miglior vita. Le canzoni sono molto convincenti, con un bel treno di ritmo (alla batteria c’è nientemeno che Don Heffington che ha suonato con Dylan e con i Lone Justice), con le belle tastiere di Skip Edwards e qua e là la partecipazione di papà Harris che passa dalla chitarra al violino e al mandolino come ai tempi dei FBB. Maintenance Man è un gran brano con una bella e lunga coda strumentale con le chitarre a dettar legge, Ghost Town, breve ma spedita, è un honky tonk con le chitarre giuste e il piano che saltella qua e là. Negli strumentali Bone Rock Breakdown e Templeton Gap Jesse Jay Harris ha modo di sbizzarrirsi e dimostrare di che pasta è fatto il suo suono, degno figlio di papà Greg e con la lezione di Clarence White ben fissata in testa. Mercy Me è un altro brano convincente che richiama molte cose, Semi Cool Cube si muove più sui toni da ballata e nel finale gioca bene sugli intrecci delle chitarre che sono le vere protagoniste del disco. La title track è invece un brano di largo respiro, con una bella introduzione strumentale e con toni molto più rilassati rispetto alla maggior parte dei brani e belle armonie vocali. L’augurio è che questa band possa avere un futuro, perché di suoni come questi c’è davvero molto bisogno…

Paolo Crazy Carnevale

 

 

RAY DAVIES & THE CORAL
CROUCH END FESTIVAL CHORUSdavis
The Kinks Choral
2009 Decca CD

Solo un genio come Ray Davies poteva pensare a riproporre le più famose canzoni dei Kinks facendosi accompagnare da un coro liturgico, riuscendo in modo eccellente ad amalgamare brani seminali con sonorità così diverse, unendo il sacro al profano in modo unico. Il risultato è un disco davvero unico per la sua bellezza, nel quale Ray canta facendosi accompagnare da una rock band composta da Billy Shamely e Milton McDonald alle chitarre, Dick Nolan al basso, Toby Baron alla batteria e Gunnar Frick e Ian Gibbons alle tastiere. Il coro è originario di Crouch End, un sobborgo vicino a quello di Mushwell Hill dove Ray è cresciuto, ed è diretto da David Temple. Ray aveva già utilizzato questo coro nella incisione di Other People‘s Lives e in alcune sue esibizioni dal vivo. Dieci brani stupendi, alcuni tratti da Village Green Preservation Society (disco stupendo, recentemente ristampato come triplo CD in edizione deluxe), ma tutti in questa versione col coro che si amalgama perfettamente alla strumentazione elettrica, assumono una prospettiva musicale diversa, mantenendo intatto il nucleo originale della melodia. Le eterne You Really Go Me e All Day And All Of The Night, dal riff chitarristico unico e irripetibile, con il coro assumono un alone di magia. Lo stesso dicasi per le melodiche Days, See My Friend, Shangri -La e Celluloid Heroes (queste ultime due sono tra le composizioni di Davies quelle che adoro) che continuano sempre a incantare. Anche le famosissime Waterloo Sunset e Victoria con questo arrangiamento sembrano avere una immediatezza nuova e avvolgente. Notevole è anche Working Man Cafè, tratta dal suo ultimo, omonimo album, che fa la sua bella figura in mezzo a tanti classici. un cenno a parte merita il medley di Villane Green, con Big Sky, Picture Book, Johnny Thunder, Do You Remember Walter? e ovviamente la title track che coinvolgono in modo sorprendente. Un grande disco che non mi stanco mai di riascoltare! Una volta i dischi preferiti che riascoltavi in continuazione si consumavano, succederà anche per questo CD?

Daniele Ghisoni

 

 

THE HOOCHIE COOCHIE MEN WITH JON LORDhookie
Live At The Basement
2009 Edel Records CD + DVD

The Hoochie Coochie Men (da una canzone di Wilie Dixon) sono un’ottima band australiana di blues guidata dal bassista Bob Daisley che, tornato in patria dopo una incredibile militanza di oltre trent’anni con artisti del calibro di Ozzy Osbourne, i Rainbow di Ritchie Blackmore, Ronnie James Dio, Chicken Shack, Uriah Hep e Gary Moore, solo per citarne alcuni, chiama con sé i vecchi amici Rob Grosser, batteria e Tim Gaze, chitarra, già con i Rose Tattoo e Jimmy Barnes (questo ultimo cantante ex Cold Chisel, altra storica band di blues australiana). Con ospiti Mike Grubb alle tastiere e Jim Conway all’armonica pubblicano l’omonimo album che contiene spettacolari cover di classici come I Just Want To Make Love To You e You Need Love di Willie Dixon, Dallas di Johnny Winter, The Walk di Jimmy Mc Cracklin, Strange Brew dei Cream, oltre a proprie composizioni. Nel gennaio del 2003 il giornalista Paul Hogan (niente a che vedere con l’attore di Mr. Cocrodile Dundee) convince Jon Lord, che stava dirigendo alla Opera House la Sidney Symphony Orchestra, a unirsi loro per una data al mitico Basement Club. La serata, era il 7 febbraio, davanti a pochi ma competenti appassionati, diventa un evento memorabile che sorprende anche gli organizzatori per il feeling che si instaura subito tra Jon e la band, supportata da una robusta sessione fiati. Dopo l’intro e le iniziali Hideway di Freddie King, Green Onions di Booker T. e Dust My Broom di Ellmore James, con Gaze stupendo alla voce e alla chitarra solista, il blues entra nel sangue e tutta la serata diventa una stupenda improvvisazione, con i musicisti che si ritrovano a memoria. Due ore di musica, con Jon che detta i fraseggi dal suo Hammond, con Jim Conway, personaggio stupendo, che si presenta sulla sedia a rotelle alla quale è condannato per tutta la vita a soffiare il suo dolore nell’armonica. Poi, ancora ospiti come l’idolo locale Jimmy Barnes e via a canzoni senza tempo come When A Blindman Cries e The Hoochie Coochie Men Blues. Incredibile come in solo una serata la benemerita DEL sia riuscita a produrre una discografia del genere: prima una edizione in doppio CD, poi in CD+DVD, quindi in triplo CD con tutta la serata e interviste varie, poi un doppio DVD! Dimenticavo un altro doppio DVD, sempre di quella serata, sottotitolato Danger White Men Dancing nel quale è ospite niente meno che Ian Gillan in Over And Over e If This Ain‘t The Bues.

Daniele Ghisoni

 

 

THE POPEScover Popes
Outlaw Heaven
2009 Townsend Records CD

Come nelle migliori storie di fuorilegge irlandesi ubriaconi e poeti è finalmente uscito il nuovo album dei Popes, l’ormai epica band fondata dal leggendario e immancabile Shane McGowan nel 1991, durante una pausa dei suoi fidi Pogues. A distanza di cinque anni dall’ultima uscita discografica del gruppo, Release The Best, comprendente la riedizione del precedente disco, il primo senza Shane, Holloway Road, più un CD live di un concerto londinese, ecco Outlaw Heaven un ennesima bella prova della band irlandese. La voce a tratti waitsiana del fuorilegge Paul “Maddog” McGuinness e il ritmo indiavolato e pieno di whiskey dei suoi Popes ci riportano quel suono così tanto amato da noi orfani dei primi Pogues o degli indimenticabili Thin Lizzy. Proprio dall’esperienza di quattro mesi come ospite della prigione di Sua Maestà di Pentonville e dai suoi eccessi con droghe e whiskey nasce il paradiso del fuorilegge, ironica ma intensa visione di McGuinness sulla sua permanenza in prigione, scrivendo ed eseguendo le bozze di alcune di queste canzoni proprio a un suo compagno di cella. Outlaw Heaven è un ruvido disco rock, un mix a tratti rosso sangue e caotico di punk, rockabilly e irish music prodotto dagli stessi Popes con l’aiuto in sala di registrazione del vate McGowan e del suo fidato Spider Stacy che appaiono anche come ospiti in tre canzoni. Il viaggio nel particolare paradiso di McGuinness si apre con Black Is The Colour che inizialmente ricorda le atmosfere folk per poi scatenarsi in riff alla Metallica con la voce roca di “Maddog” Paul che ci apre la porta della sua cella. Seguono la bella Let The Bells Ring Out e la stupenda Angels Are Coming, una ballata degna di sua maestà Shane, ruvida e dolce in perfetto stile irish con il banjo, il mandolino e il violino di Fiachra Shanks e Ben Gunnery in evidenza. La band ci porta piacevolmente a Outlaw Heaven, la title track dove Paul Mc Guinness duetta con i suoi amici Shane & Spider e il risultato è una splendida canzone in perfetto stile tradizionale irish alla maniera dei Pogues con un riff quasi western in sottofondo alle voci che si rincorrono in un crescendo irresistibile per poi trasportarci alla delicata e intensa Boys – They Don’t Cry, altro brano da non tralasciare dopo un solo ascolto. Dopo la rockeggiante e tradizionale You’re Gonna Shine e la tormentata e ritmica Crucified i gagliardi Popes e i loro illustri amici ci consigliano di “non lasciare che i bastardi ci mettano sotto” nell’ovviamente poetica e intensa Bastards. Non troviamo il romanticismo e la poesia di Shane McGowan ma la convinzione, la forza e il fuoco scorrono nelle liriche di questo lavoro del gruppo irlandese, come dimostrano la rabbia del brano seguente Underneath The Blue Sky e la quiete tra le corde del violino e la voce quasi narrante di McGuinness di Slip Away delizioso preludio alla straordinaria song di chiusura dell’album. Loneliness Of A Long Distance Drunker non può che essere cantata dalla voce impastata e ruvida di Shane McGowan, sempre eccezionale per come conduce la canzone tra spigoli vigorosi e liriche tipicamente irlandesi.
Una chiusura degna di un grande disco ricco dello stream of whiskey irlandese e di ricordi, Bobby Sands, Robert Johnson, James Joyce, John Dillinger e “Lord Fucking Nelson” tra i brani e molti nomi leggendari di “fuorilegge” che ci hanno lasciato come John Belushi e Syd Barret o MalcolmX e Frank Sinatra nell’ultima pagina del booklet. Bentornati!

Michele Marcolla