Archivio di dicembre 2020

STICK MEN with GARY HUSBAND – Owari

di Paolo Crazy Carnevale

27 dicembre 2020

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STICK MEN with GARY HUSBAND – Owari (Moonjune Records 2020)

La storia dietro questo recente produzione della Moonjune Records è alquanto travagliata, probabilmente qualcun altro, al posto del producer Leonardo Pavkovic si sarebbe demoralizzato, ma il discografico italo-newyorkese non è certo il tipo da perdersi d’animo e nonostante le difficoltose avversità che si sono messe di mezzo durante il tour da cui il live degli Stick Men è tratto, ha voluto portare a termine quanto aveva programmato, consegnandoci una delle migliori produzioni di casa Moonjune dell’ultimo periodo.

Il progetto Stick Men gira soprattutto attorno alla personalità e al nome di un importante musicista come Tony Levin. Pavkovic, da sempre estimatore e fan della scena musicale legata al prog-rock e al Canterbury sound degli anni settanta ha cercato nel corso di una lunga carriera a capo di un’intelligente etichetta di far sposare quelle sonorità a matrici etniche legate ai paesi d’origine dei musicisti a lui legati in primis da stima ed amicizia. Parrebbe naturale usare il termine fusion per definire i dischi prodotti dalla Moonjune, ma sarebbe ormai scontato, più opportuna la definizione jazz-rock, anche se più datata.

Ovvio che Levin, con i suoi trascorsi onorevoli alla corte del Re Cremisi non potesse che trovarsi a proprio agio con questa casa discografica ed abbia coinvolto negli Stick Men il collega crimsoniano Pat Mastellotto, completando la formazione col chitarrista touch Markus Reuter (un po’ eccessivamente prezzemolino negli ultimi dischi della Moonjune).

Per arricchire il sound del trio (oltre una quindicina i titoli al suo attivo se includiamo alcuni live digitali) in occasione del tour asiatico dell’inverno 2020, Pavkovic ha ben pensato di coinvolgere anche il tastierista britannico Gary Husband (già con Allan Holdsworth e John McLaughlin). Purtroppo, quello che avrebbe dovuto essere un tour di una certa lunghezza ha dovuto fare i conti con la pandemia, così delle varie date in Cina e Giappone, molte sono saltate creando non pochi problemi a Levin e soci, anche a livello economico, oltre che col Covid il gruppo ha dovuto fare i conti con i disordini di Hong Kong, una delle città che avrebbe dovuto toccare. Tutto si è risolto in quattro soli concerti in Giappone, tre dei quali sold-out. Il nostro live viene però dall’altro concerto, quello del 28 febbraio al Blue Note di Nagoya, con poco pubblico per via delle restrizioni e dei timori legati alla pandemia. Gran lavoro, oltre che del quartetto, anche da parte del fonico Robert Frazza, responsabile della brillantezza che caratterizza un live che si snoda tra brani del repertorio Stick Men e eccellenti rivisitazioni frippiane, ovvio retaggio dei trascorsi di Mastellotto e Levin.

Il disco si apre con Hajime un brano che include anche alcuni campionamenti con la recitazione di alcuni versi di Pete Sinfield (altra connessione crimsoniana), e poi si dipana tra Hide The Trees, Schattenhaft, Prog Noir, la notevole Crack In The Sky, tutte tratte dai dischi di studio del gruppo, e spettacolari ripescaggi di casa King Crimson come Level 5, del passato recente della band di Robert Fripp, e la classica Larks Tongues In Aspic, risalente agli anni settanta, qui in versione smagliante.
Il titolo giapponese del disco, significa “la fine”, che è anche il titolo del brano omonimo incluso nel live e della bonus track The End Of The Tour, con riferimento alle predette sorti del tour da cui il disco è tratto. Speriamo non all’onorata carriera del gruppo.

PAOLO BONFANTI – Elastic Blues

di Paolo Baiotti

23 dicembre 2020

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PAOLO BONFANTI
ELASTIC BLUES
Rust Records 2020

Paolo Bonfanti, bluesman e rocker genovese, uno dei vanti della musica indipendente italiana, compie 60 anni decidendo di festeggiarli nel miglior modo possibile per un musicista, cioè con un disco… e che disco! Coraggioso e intransigente, spesso controcorrente, sorprende anche in questa occasione non limitandosi a celebrare la sua storia ormai lunga, piena di collaborazioni e di album di qualità, ma creando uno dei dischi più completi, sorprendenti e generosi della sua carriera, con settanta minuti che esplorano tutti i generi che lo hanno appassionato e influenzato.
Chi si aspettava un disco di blues elettrico o di bluegrass acustico rimarrà sorpreso al primo ascolto e magari un po’ deluso, ma sono sicuro che riascoltandolo scoprirà molte cose interessanti. Il cd è inserito in un pregevole libretto di ottanta pagine con un’affettuosa presentazione di Guido Harari e le note del Bonfa che racconta la sua storia partendo da Sampierdarena e dal nonno, batterista di jazz e dagli zii, anch’essi musicisti. Paolo ricorda le band con le quali ha suonato, dalla Hot Road Blues Band ai Big Fat Mama, seminali per la scena rock-blues italiana, il manager Umberto Tonello, le collaborazioni con musicisti di fama (Roy Rogers, John Popper, Gene Parsons, Martino Coppo, Fabio Treves e i colleghi del supergruppo Slow Feet), riflette sulla professione di musicista, racconta aneddoti on the road e aggiunge essenziali annotazioni su ogni canzone del disco, cantato in italiano, inglese e genovese, chiudendo con la citazione degli appassionati che hanno partecipato alla raccolta di fondi che lo ha finanziato.
Si parte con il rock ipnotico, robusto e avvolgente di Alt! in cui, oltre ai fedeli Alessandro Pelle (batteria) e Nicola Bruno (basso) è accompagnato da alcuni membri degli Yo Yo Mundi. Nell’acustica e cantautorale The Noise Of Nothing la fisarmonica di Roberto Bongianino, altro collaboratore di sempre, assume preziose tonalità malinconiche mentre Haze, unica cover del disco (un brano di Bob Weir dei Grateful Dead) dimostra l’amore per il funky, ribadito dalla jazzata Unnecessary Activities, accompagnata da sferzanti riflessioni sull’attuale società volta al profitto. La delicata Heartache By Heartache ci riporta al country-bluegrass acustico dei dischi con l’amico Martino Coppo, ma è una breve parentesi superata dalla rabbiosa Don’t Complain. Una delle tracce migliori è Fin De Zugno, sulla ribellione genovese contro il governo Tambroni nel 1960, in cui viene lasciato spazio agli archi dell’Alter Echo String Quartet. I Big Fat Mama tornano insieme per We’re Still Around, roccioso rock di stampo sudista, seguito da A O Canto, un omaggio al Miles Davis dei primi anni settanta con abbondanza di fiati e il piano elettrico di Aldo De Scalzi.
Nel segmento conclusivo, dopo la ballata Hypnosis c’è spazio per il blues texano di I Can’t Find Myself con Fabio Treves all’armonica, per il cajun di Sciorbi’/Sciuscià che unisce Genova e Louisiana, per la title track strumentale in cui la fisarmonica di Bongianino e le chitarre di Bonfa e Matteo Cerboncini si ritagliano spazi solisti, per chiudere con la nostalgica ballata Where Do We Go, seguita da una ripresa di Unnecessary Acrivities.
Elastic Blues è un disco che tiene fede al suo titolo, pieno di idee e di diverse angolazioni, che dimostra la vitalità di uno dei migliori musicisti italiani.

JACK RUSSELL’S GREAT WHITE – Once Bitten Acoustic Bytes

di Paolo Baiotti

20 dicembre 2020

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JACK RUSSELL’S GREAT WHITE
ONCE BITTEN ACOUSTIC BYTES
Deadline/Cleopatra 2020

Considerato uno dei migliori cantanti dell’hard rock americano, californiano di Montebello classe ’60, Jack Russell ha avuto una lunga carriera con alti e bassi, vittorie e tragedie. Con Mark Kendall e il manager Alan Niven ha fondato i Great White nei primi anni ottanta, dopo avere passato qualche mese in prigione, restando con la band fino al ’96 e tornando nel ’99 per un paio d’anni. Hanno esordito nell’84 con l’omonimo album trovando un successo più ampio con il terzo Once Bitten (Capitol ’87), n. 23 in Usa e disco di platino trascinato dai singoli Rock Me e Save Your Love. Autori di un hard rock non eccessivo, mitigato da influenze blues e con venature pop, duttili anche per merito della voce potente e melodica di Jack, hanno confermato la loro popolarità con Twice Shy (Capitol ’89), top 10 e doppio platino in Usa, che conteneva la cover di Once Bitten Twice Shy di Ian Hunter, singolo di maggiore successo per la band salito al n. 5. Hooked ha confermato in parte la popolarità raggiunta, ridotta con il successivo Psycho City, sempre per la Capitol, ultimo disco d’oro della band prima della conclusione del contratto sancita da un Greatest Hits. Nel 2001 Jack annuncia lo scioglimento della band, causato da problemi personali, da inevitabili litigi causati da abusi di stupefacenti, dal logorio per la vita on the road e dal calo di popolarità. Poco dopo il cantante forma i Jack Russell’s Great White con alcuni vecchi compagni e nel 2003 viene coinvolto in una delle più gravi tragedie della musica americana, l’incendio dello Station Nightclub durante un concerto del gruppo, causato dai fuochi artificiali usati nello show, con la morte di cento persone. Dopo un periodo di pausa la band riprende a suonare per raccogliere fondi a favore delle vittime e lentamente torna in studio con la line-up storica che è durata fino al 2010, pubblicando due album. Fermato da problemi di salute nel 2010, Jack è stato sostanzialmente silurato dai compagni e ha riformato i Jack Russell’s Great White che hanno inciso un valido album in studio nel 2017, He Saw It Coming per la Frontiers, in linea con le scelte musicali della formazione di provenienza, seguito da questo album, basato sulla ripresa integrale dell’album Once Bitten in forma acustica.
Coadiuvato dalla chitarra di Robby Lochner che produce il disco inciso nel suo studio personale, dal basso di Dan McNay, dalla chitarra e dalle tastiere di Tony Montana e dalla batteria di Dicki Fliiszar, Russell conferma di avere sempre una voce bluesata, appena arrocchita, adatta sia al suono muscolare elettrico che alla scelta acustica, che evidenzia la buona qualità del materiale. Spiccano il rock trascinante di All Over Now, il boogie-rock di Rock Me, improvvisata anche in veste acustica, l’iniziale Lady Redlight impreziosita dagli arpeggi della chitarra e dal piano di Montana, la bluesata Mistreater, la scorrevole Livin’ On The Edge e la splendida ballata Save Your Love. Il disco è completato da un’eccellente cover di Babe (I’m Gonna Leave You) dei Led Zeppelin; la voce di Jack è stata accostata in passato a quella di Plant e la band aveva pubblicato nel ‘98 Great Zeppelin, un tributo registrato dal vivo nel dicembre del ’96, che non conteneva questo brano.

ANNA NALICK – The Blackest Crow

di Paolo Crazy Carnevale

3 dicembre 2020

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Anna Nalick – The Blackest Crow (Chesky Records/IRD 2019)

La cantautrice californiana Anna Nalick è una di quelle voci pop che in qualche modo potremmo considerare erede di quella scuola facente capo a Carole King, la scuola delle canzoni ben confezionate. Ma Anna Nalick non è Carole King e nonostante il grande successo riscosso dal brano guida del suo disco d’esordio, risalente ormai a ben quindici anni fa, la sua carriera si è dipanata tra pochi dischi, ultimo dei quali è questa raccolta di brani altrui uscita sul finire dello scorso anno per la newyorchese Chesky Records, registrata nella chiesa sconsacrata di Brooklyn in cui qualche anno fa, per la stessa label, è stato registrato il ben più interessante disco di John McEuen.

Le note di accompagnamento di questo disco lo annunciano come un disco che aiuterà la Nalick a conquistare il pubblico degli audiofili, e questo probabilmente è il limite di questa artista.

Il pubblico degli audiofili è sempre in cerca di dischi che facciano suonare bene i loro costosissimi impianti, a loro le vibrazioni e le emozioni derivano da quanto il disco suoni bene.

L’anima è però tutta un’altra cosa e questo disco non ne ha: c’è una bella voce, delle belle canzoni (ma questo va a seconda dei gusti), è suonato bene, ma non trasmette emozioni.

La Nalick, accompagnata da un gruppo essenziale composto da Jack Morer (chitarra), Doug Hinrichs (percussioni), Jeff Allen (basso) e Mairi Dorman-Phaneuf (violoncello), si cimenta con una scelta di canzoni di estrazione troppo differente, forse leggermente furba – si sa che l’inserire brani di Dylan nei dischi ne assicura automaticamente l’acquisto da parte degli scabinati collezionisti di qualunque cover del sommo bardo –, forse solamente basata sui gusti personali della Nalick.

La sostanza non cambia, le canzoni non legano e non le lega la comunità d’intenti derivante dai minimali arrangiamenti e dalla voce della cantautrice.

Poco più di mezz’ora di musica, talvolta anche piacevole, ma sempre superflua, saltando dalla Waterloo Sunset dei Kinks alla As Time Goes By di cinematografica memoria (ricordante “Casablanca”? La canzone che il pianista Sam viene pregato di suonare di nuovo), a Rough And Rowdy, la composizione di Jimmie Rodgers a cui Dylan ha recentemente rubato il titolo per il suo ultimo disco.

Il disco mescola poi My Back Pages (le canzoni di Bob cantate da Joan Baez o Judy Collins hanno tutta un’altra consistenza) con gli standard jazz Some Of These Days e That’s All, col Buddy Holly di True Love Ways, con Duke Ellington e con CSN di cui viene proposta una bella versione (ma non confrontabile con l’originale) di Helplessly Hoping.

TINGVALL TRIO – Dance

di Paolo Crazy Carnevale

1 dicembre 2020

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Tingvall Trio – Dance (Skip Records/IRD 2020)

Sebbene il trio di Martin Tingvall sia indubitabilmente un formazione d’area jazz, bollare questo suo prodotto come un disco di jazz sarebbe riduttivo, anche perché si tratta di un concept che seppur ovviamente legato a questo genere musicale, in qualche modo ne esula per il fatto stesso di essere un disco a carattere multietnico e vario.

Il pianista Tingvall e i suoi compari Omar Rodriguez Calvo (contrabbasso) e Jürgen Spiegel (batteria), sono già di per sé un trio di carattere internazionale, il progetto di questo Dance poi, è quello di proporre all’ascoltatore un viaggio intorno al mondo al ritmo di danze di varia provenienza rilette secondo i canoni della musica jazz, ma comunque sempre cercando di sfuggire alle classificazioni e definizioni troppo categoriche.

Ogni brano di questo disco è un viaggio a sé, eppure legato a doppio filo con ciascuna altra composizione, il doppio filo del jazz e della danza.

Il progetto, scaturito durante le prove di una delle nuove composizioni, Cuban SMS, si apre con Tokyo Dance, affascinante brano dalle evidenti atmosfere riconducibili al paese del Sol Levante, di seguito il brano che intitola il disco, meno definito e appropinquabile ad una specifica location.

Travolgente il primo accostamento – altri ne troveremo più avanti – alla musica latina, Spanish Swing, in cui gli echi flamenchi, pur ben mimetizzati si fanno sentire. Più intima sicuramente la nordica Flotten, mentre la breve Riddaren si muove sulle ali di una bella ballata slow blues.

Con la menzionata Cuban Swing ovviamente i ritmi si fanno più vivaci e latini, i Caraibi sono all’orizzonte per il trio di Tingvall e la musica vira di conseguenza.

Poi il disco trona in oriente, stavolta quello medio, in Arabia per intenderci e mentre la sezione ritmica lavora di fantasia, il piano ordisce una trama che porta alla mente lunghe carovane di cammelli ondeggianti sulle dune, trama su cui Arabic Slow Dance si srotola a proprio agio.

Qualche eco di musica latina emerge anche in Puls, Det Lilla invece lascia più spazio al jazz più propriamente detto, anche se alla base si lascia ricondurre al tema della danza, come se fosse un lento moderno minuetto.

Ya Man occhieggia di nuovo ai Caraibi, ma stavolta con citazioni reggae, mentre Bolero è il classico ballo secondo la rilettura in stile Tingvall trio. Si resta in Europa, ma stavolta di nuovo nordica con la gelida Sommarvision, che prelude al finale affidato alla lunga In Memory.