Archivio di settembre 2010

Al di là del bene e del male…

di Marco Tagliabue

23 settembre 2010

Due splendidi concerti a Bologna ed a Torino ce li hanno restituiti nella forma migliore a trent’anni di distanza dallo scioglimento. Nessuno avrebbe potuto prevedere di poterli rivedere dal vivo e, soprattutto, di rivederli in questo modo, in questo incredibile stato di forma. In attesa di accostare quel nuovo album che danno per imminente i soliti bene informati a “Y” e “For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?”, omaggiamo e ringraziamo il Pop Group delle grandi emozioni che ci ha saputo trasmettere in quelle due date dal vivo, e di aver scelto proprio il nostro Paese per la sua clamorosa rentrée. Questa canzone ha trentuno anni, ma potrebbe essere uscita ieri…

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/8

di Marco Tagliabue

22 settembre 2010

OUT NOW! trasloca dalle pagine cartacee di Out Of The Darkness a quelle digitali di Rock & Pop. Ecco quindi la prima infornata di segnalazioni relative ad uscite più o meno recenti, ma sempre meritevoli, e sempre piuttosto defilate rispetto alla luce dei riflettori…

Tris d’assi in casa Glitterhouse. L’ormai storica label tedesca, che proprio nel 2010 registra il  ventennale della sua prima pubblicazione, sembra oltretutto essere tornata ormai stabilmente alle pubblicazioni nel formato a 33 giri, abbandonato più o meno dai tempi gloriosi della distribuzione europea dei dischi Sub Pop: un segnale, speriamo duraturo, di un cambio di prospettiva dettato da un rinnovato gusto del pubblico che, per una volta tanto, va nella direzione auspicata. Il tempo dirà se si tratterà di qualcosa di più del solito fuoco di paglia…

Wovenhand-Threshingfloor

Il primo squillo di tromba è per il nuovo album di Wovenhand, “The Threshingfloor”, il sesto capitolo di una discografia che si è costantemente mantenuta su livelli medio alti, con punte di assoluta eccellenza in lavori quali l’eponimo debutto del 2002 o il più recente “Consider The Birds”, anno di grazia 2004. Per l’occasione le strade di Wovenhand e Glitterhouse Records sono tornate ad incrociarsi e, considerato questo ed i precedenti risultati, c’è da augurarsi che il matrimonio non abbia altri appannamenti. Chi ha avuto modo di conoscere David Eugene Edwards attraverso la precedente, fondamentale esperienza dei 16 Horsepower, della quale Wovenhand è la naturale emanazione, e di assistere ad una delle esibizioni dal vivo nelle quali, con incredibile generosità, spalanca le porte della sua anima con un’intensità che rasenta la sofferenza, potrebbe tranquillamente di evitare di leggere le righe che seguono. La folgorazione con il carisma dell’artista, con la sua presenza scenica, con i toni salmodianti della sua voce enigmatica e sofferente, con la sua musica ora aspra, ora delicata, mai accomodante o facilmente classificabile, è di quelle immediate e destinate a lasciare un segno che difficilmente il tempo potrà scalfire: una traccia profonda che è pura spiritualità, afflato mistico che ciascuno può e deve leggere attraverso le proprie corde, al di là dei valori “tradizionali” della fede. Per tutti gli altri l’invito è di non perdere altro tempo e cominciare pure da questo, ottimo, “The Threshingfloor”, un disco in cui si placano sia gli eccessi elettrici del precedente “Ten Stones”, sia i canoni prettamente legati alla tradizione che ebbero la loro apoteosi nel glorioso “Folklore” dei 16 Horsepower e che hanno costellato la discografia del Nostro con una presenza più o meno evidente, più o meno costante, ma mai troppo ingombrante. In questo nuovo, appassionante capitolo della saga Wovenhand si respira l’aria, inedita, di una psichedelia etnica dalla matrice prevalentemente acustica: soffiano venti asiatici, latini, balcanici, mediorentali a condire le danze lente e sinuose, ricche di pathos e atmosfera, con le quali David conduce la propria musica a spasso fra le rovine del folk americano, lo stesso fra le pareti del quale hanno più volte cercato di ingabbiarlo, in una sorta di “day after” che lascia intravedere una nuova luce. La luce di una musica avara di facili concessioni al gusto del pubblico, una musica che elargisce in proporzione a quello che chiede, una musica che non appartiene ad alcun genere: che è Wovenhand e nulla più. Una delle musiche più sincere con le quali vi possa capitare di imbattervi: una splendida, incredibile cover di Truth dei New Order ne sembra essere suggello ideale.

Lilium-Felt

Quasi in contemporanea con l’album di Wovenhand è uscito anche “Felt”, il nuovo lavoro, il terzo se non andiamo errati, del progetto Lilium, dietro al quale si nasconde Pascal Humbert, già contrabbassista nei 16 Horsepower e negli stessi Wovenhand. Qualsiasi paragone fra le due realtà, sia in merito ai principi ispiratori che agli esiti artistici, sarebbe del tutto fuori luogo, ma gli amanti delle sonorità desertiche, soprattutto di quelle più quiete ed introspettive, non resteranno delusi da questo nuovo, affascinante viaggio. Coadiuvati dalle voci suggestive di Hugo Race e Kal Cahoone, Pascal ed il socio di sempre Bruno Green (il progetto, fra pause e ripartenze, è attivo fin dal 1984) ci guidano attraverso paesaggi aridi e spettrali per mezzo di sonorità scarne ed essenziali ricche di echi e profondissimi silenzi, di corde appena pizzicate e struggenti inserti di tromba, sovente screziate da qualche leggero sfrigolio elettronico, che rappresentano la colonna sonora ideale di un deserto che è anche interiore. Un disco difficile, destinato a pochi già in partenza, che Glitterhouse pubblica coraggiosamente e proprio per questo non merita di passare inosservato.

Dirtmusic-Bko

Se riuscite ad immaginare il deserto del Mojave, lo stesso nel quale muovono i sogni vagabondi dei Lilium, solcato dai venti dell’Africa sub sahariana ed animato dalle voci e dai colori di Timboctou, ed utilizzate la voce di Hugo Race quale raccordo fra le diverse coordinate geografiche e sonore, potreste riuscire in un primo, parziale tentativo di catalogazione del progetto Dirtmusic, che Chris Brokaw, Chris Eckman e lo stesso Race hanno condotto, con il recente “BKO”, ancora una volta per Glitterhouse, alla seconda prova sulla lunga distanza. “BKO” sta per Bamako, la capitale del Mali, città nella quale i Dirtmusic fanno ritorno per registrare un pugno di canzoni con il complesso tuareg dei Tamikrest un anno dopo la comune esperienza in un festival locale. Le jam comuni e l’utilizzo di strumenti tradizionali trasformano il materiale dei Dirtmusic che, pur mantenendo strutture e connotati tipicamente occidentali, nella fattispecie quelli della ruvida ballata elettrica younghiana con il deserto dell’Arizona sullo sfondo al posto dei laghi dell’Ontario, acquisiscono più o meno evidenti influssi etnici che ne mutano radicalmente la sensibilità. Il risultato è davvero di rilievo, anche e soprattutto perché alla base ci sono grandi canzoni. Il lasciapassare ideale per muovere il primo passo in questo universo affascinante potrebbe essere la cover di All Tomorrow Parties, il secondo brano della raccolta, abbastanza fedele all’originale nel canto e nella melodia, ma completamente stravolta sotto il profilo strumentale grazie all’incredibile tappeto percussivo ed ai sublimi innesti vocali di Fatimata Walet Oumar. Gli stessi che miscelano la sabbia dei due deserti stemperando meravigliosamente gli acidi umori elettrici della successiva, splendida Desert Wind. Nel mosaico di “BKO” c’è posto per tessere dai colori più tenui, nelle atmosfere vellutate e cristalline, nelle melodie dolci ed evocative di Ready For The Sign, Unknowable, Collisions o della conclusiva Bring It Home, e per le tonalità più accese di Lives We Did Not Live o dell’iniziale Black Gravity, con la quale i due umori si fondono nell’intercalare di una cantilena etnica fra le strofe del brano. Un matrimonio perfettamente riuscito anche nell’ottima, delicatissima Smokin Bowl. Da segnalare, infine, la presenza di un secondo dischetto, questa volta un DVD, con materiale visivo (una sorta di “make of” del lavoro oltre ai video di tre brani) e sonoro, con quattro bonus tracks inedite.

Dakota Days

Un altro connubio strano, ma perfettamente riuscito, è quello fra la sensibilità melodica, quasi classica, di Alberto Fabris, da anni nell’entourage del pianista Lodovico Einaudi dopo ormai remoti trascorsi indie-rock, ed il rigido schematismo teutonico del berlinese Ronald Lippok, già anima degli elettronici To Rococo Rot e dei più “umani” Tarwater. Dopo un incontro casuale i due hanno dato vita al progetto Dakota Days, che ha da poco pubblicato l’omonimo debutto per i tipi della label Ponderosa. Dodici canzoni di gran classe che sposano una “calda” matrice elettronica ai canoni di un pop rock di grande atmosfera e suggestione, e che hanno un profondo, splendido impatto nella bellissima voce di Re Mida Ronald Lippok. Una scaletta praticamente perfetta che cresce lentamente ascolto dopo ascolto, come è naturale, quasi doveroso, per brani che associano l’eleganza formale ad una sostanza che si sedimenta timidamente ma inesorabilmente. Si parte con una cover irriconoscibile di Slow, grande successo di Kyle Minogue, che perde ogni connotato mainstream e danzereccio per trasformarsi in un brano lento, scheletrico, quasi malato, che emana una sensualità strana e perversa, per arrivare alla conclusiva, quasi disarmonica, Silver Mine, attraverso un pugno di perle di rara suggestione. Ne citiamo soltanto qualcuna, come la melliflua, armoniosa Planet Of The Apes, la dolcissima Sinners Like Us, che rispolvera il nostalgico impianto orchestrale di un vecchio mellotron, Without A Stone, con tanto di sitar, The Kiss, elettrica e sexy, Sometimes, un country algido e schematico. Merita un cenno a parte anche la title-track, fragile ed eterea, percorsa da soffici minimalismi ed una voce sognante.

Indian Jewelry-Totaled

Parlando a proposito degli Indian Jewelry poco più di un anno fa in occasione dell’allora ultimo “Free Gold!”, citammo i “My Bloody Valentine di Loveless immersi in un barile di acido”. Era il paragone più calzante per quella splendida tappa del loro percorso, che affogava la consueta slabbrata e drogatissima psichedelia in un oceano di stratificazioni e rarefazioni chitarristiche, in una sorta di personalissima rivisitazione dello shoegazing. Per il nuovo atto “Totaled”, edito anche questa volta da We Are Free, Erika Thrasher e Tex Kerschen hanno virato nella direzione di un post punk cupo e tenebroso, che ha le proprie radici nei Velvet Underground e le principali diramazioni nei rami più torbidi e malati del movimento, dai Public Image di “Metal Box” ai Pere Ubu di “Modern Dance”, con la supervisione nemmeno troppo occulta dei Suicide dell’omonimo debutto. Canzoni, o parvenze delle stesse, affogate in sordide spirali di synth stratificati e riverberati, percorse da voci filtrate e sommerse, da ritmi elettronici o percussioni cupe e monotone, da chitarre quasi mai in primo piano, che si limitano a percorrere le trame già solcate da quelle colate laviche senza volere o potere uscire dalle loro tracce profonde, da un pesante contorno di miasmi sonori d’ogni tipo. Un effetto d’insieme che è comunque molto superiore alla somma dei singoli denominatori e molto più lineare di quanto la loro “pesantezza” non faccia pensare –le canzoni, insomma, ci sono!-  e non mancherà certo di appassionare coloro che, come chi scrive, vedono negli Indian Jewelry e nella loro musica una delle poche risposte possibili ad un concetto moderno di psichedelia. Quasi inutile parlare dei singoli brani, visto che il disco va assorbito dall’inizio alla fine come un lungo, ininterrotto flusso creativo, ma dispiace non citare le iniziali Oceans e Look Alive, cosparsa –quest’ultima- da vapori quasi industriali, una sorta di summa dell’aria che si respirerà nell’intero lavoro, Lapis Lazuli e Simulation, con le chitarre che riescono ad alzare la testa, il quasi synth-pop della più sbarazzina Tono Bungay, l’effetto molto Suicide di Parlous Siege And Chapel, con il synth che traccia veri e propri tappeti ipnotici sporcati dalle chitarre e deturpati da una voce metallica ed impersonale, le valanghe sintetiche della conclusiva Dog Days, che sembrano travolgere ed affogare qualsiasi cosa per un ultimo, disperato atto.

Sleepy Sun-Fever

Gli amanti delle sonorità psichedeliche più tradizionali potranno invece tranquillamente convergere sul nuovo album degli Sleepy Sun, “Fever”, che succede al debutto di “Embrace” per i tipi di ATP Recordings, gli stessi che hanno ristampato il primo disco nel 2009 dopo l’autoproduzione quasi clandestina dell’anno precedente. Qui si respira l’aria di un classic rock che la band si premura di mantenere il più classic possibile, come se ogni estate fosse quella dell’amore ed il vento portasse ancora sogni di pace e libertà. Il disco, semplice e gradevole, poggia sui contrappunti vocali fra la voce femminile di Rachel Williams e quella maschile di Bret Constantino, sull’alternanza fra ruvide atmosfere scandite da riff sabbathiani e delicate oasi in cui, sovente nello stesso brano, il fervore elettrico si placa in momenti di dolcissima intimità (l’iniziale Marina, con belle aperture lisergiche nel finale), in un contesto piuttosto controllato che lascia poco spazio ai momenti di rottura (la mesta preghiera pagana di Acid Love, con un po’ di feedback in sottofondo). Una possibile pietra di paragone potrebbero essere i Black Mountain, anche se i Nostri sono ancora lontani dagli standard dei più navigati colleghi canadesi. Poche, comunque, le eccezioni alla formula anzidetta, fra le quali vale la pena di ricordare il folk bucolico di Rigamaroo, il bozzetto acustico con qualche disturbo elettrico di Ooh Boy, la ritmatissima, funkeggiante Freedom Line, che non si risparmia comunque qualche fuga acida nel finale. Da segnalare anche Open Eyes, uscita su singolo, fra chiaroscuri ed aperture lisergiche e la lunga, conclusiva, Sandstorm Woman, che sembra condensare l’intero album nei suoi dieci minuti.

National-High Violet

Una sorta di (disperato) classicismo è anche quello ormai raggiunto dai National. Dopo un lungo processo di avvicinamento che, dalle atmosfere tipicamente indie di un piuttosto caotico omonimo album di debutto del 2001, li ha portati ai meticolosi arrangiamenti orchestrali ed alle atmosfere notturne del precedente, pluri celebrato “Boxer” del 2007, attraverso le tappe intermedie di “Sad Songs…” (2003) e “Alligator” (2005), il loro sound sembra ormai puntare verso una sorta di crooning moderno che, come d’uopo, ha il proprio baricentro nella voce calda e baritonale del cantante Matt Berninger. Le canzoni di “High Violet”, pubblicato nei mesi scorsi dalla 4AD in cd e doppio vinile, con anche una tiratura limitata color porpora, sembrano intrappolare Frank Sinatra in rigide strutture post punk: la voce di Matt, profonda precisa e sottilmente monocorde, declama i suoi versi su un suono denso e magmatico, scuro e pulsante, tutto basso e batteria con la chitarra relegata a compiti di puro accompagnamento, intonando melodie tragiche e sofferte. All’inizio sembra un unico, ininterrotto flusso che trasporta placidamente i fantasmi di un pugno di canzoni racchiuse in un’intensa ed ossessiva cifra stilistica, poi, dopo qualche ascolto, cominciano ad emergere i singoli episodi. Anche i brani più scarni e confidenziali, come le iniziali Terrible Love e Sorrow, o le successive Little Faith e Lemonworld, rivelano anime diverse che rivendicano, ognuna, la propria identità; Anyone’s Ghost si apre ad una piccola esplosione ritmica, Runaway ad una struttura classicheggiante percorsa da sottili arpeggi chitarristici, Conversation 16 ad un’inedita varietà strumentale e vocale. E ancora Bloodbuzz Ohio, primo singolo tratto dall’album, atmosfera cupa post Joy Division, onde sonore compatte in leggero crescendo, splendida melodia vocale, e le conclusive England, come intuibile ballatona molto english old style, e Vanderlyle Crybaby Geeks, un lungo, romantico e avvolgente congedo. Un disco bello e trasversale, insomma, che potrà mettere d’accordo generazioni di fans diversi: da quelli di Frank Sinatra a quelli di Joy Division e dei Tindersticks migliori. Rimane semplicemente da appurare se è proprio questo che volevano fare i National da grandi o se si tratta semplicemente della nuova tappa di un discorso in costante divenire: il tempo, insomma, dirà se il termine classicità sarà destinato a far rima con staticità.

The Books-The Way Out

E a loro modo classici sono ormai anche i Books, inventori di una formula che ha fatto scuola negli ultimi dieci anni, quella della cosiddetta folktronica, che fonde suoni acustici a samplers elettronici in un guazzabuglio di intemperanze ritmiche, vocali e sonore, melodie appena abbozzate o completamente negate, che ha stravolto, con successo, la forma canzone tradizionale stabilendo un nuovo standard intorno al quale si è costruito un genere cui si sono accodate torme di più o meno validi imitatori. Ora che il senso di novità è stato soppiantato, in molti casi, dalla ripetitività di un suono prigioniero di schemi molto più rigidi di quanto non si potesse immaginare, è spontaneo chiedersi se questa musica non abbia già espresso tutte le sue potenzialità, se esistano insomma ancora frontiere che possano essere proficuamente esplorate. Ed è normale attendersi il segnale più forte da quelli che del movimento sono stati gli indiscussi fautori. I Books sembrano però prendersi tempo, aggirare la domanda regalandoci con il ritorno di “The Way Out” (Temporary Residence), a quasi cinque anni dall’ultimo, e a parere di chi scrive più convincente, “Lost And Safe”, un ulteriore perfetto trattato della loro arte che solo a tratti si discosta dal puro esercizio di stile. Cinque anni in effetti sono tanti, addirittura un’eternità nella civiltà odierna, non solo musicale, del mordi e fuggi: un lasso di tempo tale da far pensare ad un ritorno sotto una nuova veste o ad un’onorevole deposizione delle armi. Invece niente di tutto questo: i Books continuano a fare ciò che sanno fare benissimo e, almeno in questo, offrono una valida garanzia contro gli improvvisatori. Brani come We Bought The Flood, I Didn’t Know That, Free Translator o The Story Of Hip Hop che, nel più classico stile del duo, uniscono il sentimento alla tecnologia, intrecciando gli elementi o gli stili più disparati per arrivare a confezionare un prodotto perfetto, non deluderanno certo i vecchi fans e non mancheranno, nel caso il terreno sia ancora fertile, di conquistarne di nuovi. Per le eventuali risposte bisognerà armarsi di pazienza….

Pontiak-Living

I Pontiak continuano a macinare un grande disco dopo l’altro mostrando, oltretutto, una prolificità tanto più invidiabile nella misura in cui continua a far rima con qualità. Circa un anno fa eravamo a tessere le lodi dell’ottimo “Maker”: da allora un “mini” album più vicino ai quaranta minuti che ai trenta, l’avvincente “Sea Voids”, e, ormai da qualche mese nei negozi, il nuovissimo “Living” per i soliti tipi della Thrill Jockey. Innanzitutto il consiglio di mettere le mani, nonostante qualche difficoltà di distribuzione, sulla splendida edizione limitata a 1.000 copie in vinile arancione, con una veste davvero de-luxe. Poi, a prescindere comunque dal formato, l’invito ad ascoltarlo. La psichedelia moderna passa obbligatoriamente da qui, non perché i Pontiak ne abbiano stravolto i canoni, ma perché oggi è davvero difficile trovare di meglio. Un genere che, nella sua forma più classica, è di per sé immodificabile, mi verrebbe da dire eterno, rivive nel trio dei fratelli Carney gli antichi splendori ed oggi è davvero difficile chiedere di più. Gli ingredienti sono sempre i medesimi: riff sabbathiani, suggestioni desertiche, impennate post-stoner, delicate oasi pinkfloydiane, atmosfere oniriche, suggestioni melodiche, aperture sperimentali che si susseguono, quasi senza soluzione di continuità, in un universo psichedelico che i Nostri sembrano voler esplorare in ogni sua sfaccettatura. Quello che contraddistingue i Pontiak è la qualità davvero superiore della loro magnifica miscela. Inutile fare citazioni perché il disco va assorbito come un unico, ininterrotto, flusso –oserei dire- spirituale. Un elemento di novità? Le chitarre acustiche…

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/7

di Roberto Anghinoni

16 settembre 2010

Una nuova infornata di recensioni di dischi usciti più o meno recentemente. Fra i nostri big J.J.Cale ed Eric Clapton, Richard Thompson, il vecchio Ozzy, i Black Crowes e poi tanti altri. E che la musica tenga alto il vostro spirito!

  

J.J. CALE & ERIC CLAPTON
The Road To Escondidojjcaleclapton
2006 Reprise CD

 
Cronaca di una collaborazione annunciata: doveva andare a finire che prima o poi i due chitarristi si trovassero insieme a registrare un disco. D’altra parte Slowhand non ha mai fatto mistero della propria ammirazione e predilezione nei confronti del collega dell’Oklahoma, anzi, è un dato di fatto che due dei suoi maggiori successi di sempre siano proprio le versioni di After Midnight e Cocaine. In molti si erano chiesti perché non ci fosse mai stata una collaborazione tra i due e questo ottimo disco è la risposta all’interrogativo. Una risposta che gronda musica vera e diretta, come Cale ci ha sempre, o quasi, abituati ad aspettarci da lui e come Clapton ha (quasi) sempre evitato di fare nella sua carriera solista. I primi anni del nuovo decennio sono forse tra i migliori per Slowhand che ci ha consegnato una serie di luminose collaborazioni che non possono non mettere in ombra tutti i suoi prodotti laccati e perfettivi dei decenni precedenti, indirizzate più al pubblico qualunquista che a chi ama la musica per davvero. Basta pensare ai tour con Derek Trucks, ai concerti con gli Allman Brothers, al ritorno con Winwood e a quello dei Cream, o ancora ai concerti recenti con Jeff Beck. The Road To Escondido si inserisce magnificamente in questo filone e ci propone una quindicina di ottimi brani, alcuni nuovi, altri tratti dal repertorio passato di Cale, qualcosina a firma Clapton e un blues di Brownie McGee. Il genere è quello solito, né più né meno, nessuna novità, solo due vecchi amici in stato di grazia che hanno voglia di divertirsi e lo fanno con una maestria unica. Al loro fianco una manciata di altri amici come Albert Lee, Taj Mahal, Derek Trucks, John Mayer (che firma con Clapton Hard To Thrill), Billy Preston nella sua ultima performance di studio, Pino Palladino e altri. Poco importa se tra i brani nuovi When The War Is Over suona esattamente come Call Me The Breeze, poco importa se Don’t Cry Sister e Anyway The Wind Blows non sono nuovissime, il disco suona incredibilmente bene, la presenza di Clapton si fa sentire in sede di produzione, ma senza strafare, e la sua chitarra dosa sapientemente gli interventi. C’è il country e c’è lo slow blues che da sempre è il marchio di fabbrica di J.J., e ci sono soprattutto questi due ispiratissimi amici. Dall’iniziale Danger alla finale Ride The River il disco scorre senza momenti di fiacca tanto che, per quel che può valere ai nostri occhi e alle nostre orecchie, si è guadagnato pure un Grammy come miglior disco di blues contemporaneo. E non poteva essere diversamente.

   

 

 
TRE NOVITÁ SU ETICHETTA MOONJUNE RECORDS

Sempre più versatili le proposte musicali dell’etichetta newyorchese che fa capo a Leonardo Pavkovic, innanzitutto grande fan dei Soft Machine e del movimento musicale a essi legato e il nome dell’etichetta la dice lunga in proposito. Dopo i primi dischi dichiaratamente connessi ai musicisti di quel gruppo, la Moonjune Records pubblica ora anche altri dischi che hanno la principale caratteristica di sfuggire a ogni catalogazione diretta. Non sfuggono a questa caratteristica nemmeno gli ultimi tre usciti.

 
BARRY CLEVELAND
Hologrammatonbarry cleveland
2010 Moonjune Records CD

Un disco di rock d’avanguardia in cui il chitarrista Cleveland si fa accompagnare da una variegata formazione che oltre alla cantante Amy X Neuburg, include una sezione ritmica e una pedal steel guitar suonata da Robert Powell (già con David Bowie e Jackson Browne). Hologrammaton è una sorta di concept in cui Cleveland riflette e fa riflettere sullo stato del mondo occidentale all’alba del ventunesimo secolo, stando in bilico tra momenti cupi da rock industriale e atmosfere più rilassate che costituiscono la parte miglior del disco: Stars Of Sayulita, Abandoned Mines e la cover, in puro stile Badalamenti, del brano di Malvina Reynolds What Have They Done With The Rain.

 
 

DENNIS REA
Views From Chicheng Precipice
2010 Moonjune Records CDdennois rea

Il prolifico chitarrista di Seattle che per la stessa Moonjune ha recentemente pubblicato con il gruppo Moraine (art rock) e con gli Iron Kim Style (free jazz) presenta ora questo personale omaggio alla Cina e al mondo orientale a cui è particolarmente legato. Un disco del tutto differente da quelli che lo hanno preceduto, differente e ugualmente affascinante, in cui la musica cinese e coreana si fondono con la strumentazione tipicamente occidentale e la chitarra elettrica di Rea, dando vita a una serie di brani che pur mantenendo molti elementi di carattere esotico vanno decisamente oltre la definizione di world music.

 
 

 

TOHPATI ETHNOMISSIONtohpati
Save The Planet
2010 Moonjune Records CD

Come nel disco di Barry Cleveland, anche qui il tema portante del disco è lo status del mondo attuale, o meglio del pianeta, ma a musicarlo è stavolta un gruppo indonesiano che fa capo al chitarrista Tohpati che, accompagnato da un ensemble di connazionali, realizza un disco di fusion moderna sapientemente mediata con leggeri colpi di progressive in cui chitarre elettriche e sintetizzatori si innestano senza molestare su strumenti tipici della tradizione indonesiana.

Paolo Crazy Carnevale

 

 

CHEIKH LO
Jamm
2009 World Circuit/ I.R.D.517Vy8HvZBL__SL500_AA300_

 
Un disco formidabile. Non occorre essere dei patiti di musica africana per apprezzare l’ingegno di questo musicista senegalese, anche perché si commetterebbe una gran bella imprecisione. A differenza di molti artisti africani che propongono musica tradizionale, Cheikh Lo si schiera piuttosto a fianco di personaggi come Ali Farka Touré, o Youssou N’Dour, alla ricerca di una nuova sonorità moderna, che coinvolge strumenti e ritmi che non appartengono al patrimonio africano, ma sono tratti dal blues, dal rock, dal reggae e da molti altri generi ancora. Certo ci sono stati altri che hanno tentato questa via in precedenza, e continuano a reinterpretare la musica tradizionale dei loro paesi, fondendola con generi occidentali, ma è quantomeno raro incontrare un artista con questa varietà e questa freschezza, capace di giocare con i suoni in maniera originale e allo stesso tempo senza pretese e senza retorica. Non a caso proprio Youssou N’Dour ha creduto nelle straordinarie doti di questo troubadour senegalese producendo il suo primo disco 1996. Oggi a distanza di molti anni Jamm si presenta come un eccezionale punto di arrivo per il suo autore, soprattutto per il cantato di grandissimo pregio e per l’abilità nel cercare una sperimentazione sicuramente non delle più facili. Nella title track, dopo un’introduzione a base di percussioni africane, l’autore si sbizzarrisce in una brillante sovrapposizione di sonorità che va dai ritmi dal sapore cubano, alla chitarra funky, a un cantato in wolof in stile rythm and blues di grande efficacia. Allo stesso modo, in Seyni si può apprezzare la singolarità di un brano caribico cantato per metà in wolof; quando dopo il break incomincia la seconda parte in spagnolo, si ha davvero l’impressione di aver di fronte una figura di spessore che sarebbe un vero peccato liquidare come “nera africana”, per usare una definizione alla Franco Battiato. Particolarmente gradevole il finale del disco, con un brano come Bourama in perfetto stile afrobeat scritto a quattro mani con il sassofonista Pee Wee Ellis, che apre la strada al lento e malinconico congedo di Folly Cagni, una lenta ballata scandita solo dal basso, dalle percussioni e qualche accenno di chitarra: come un ritorno in Africa dopo un lungo viaggio attraverso le musiche del mondo.

Eugenio Goria 

 

 

BLACK CROWES
Croweology
2010 Silver Arrow 2CDblack_crowes
 

A confermare il buono, se non ottimo stato di salute della band dei fratelli Robinson, è giunto lo scorso agosto questo sconvolgente doppio antologico. Qualcuno dirà: ma come, un’antologia? Sì un’antologia. Una raccolta in cui vengono riletti e rivestiti in versione quasi acustica una ventina di brani pescati tra i migliori del repertorio dei corvi neri. Se i dischi precedenti erano stati due spettacolari live di brani inediti registrati informalmente presso gli studi di Levon Helm, a meno di un anno questo doppio di studio con le vecchie canzoni rilette è la definitiva consacrazione della band e la testimonianza della nuova linfa infusa da quel genio della sei corde che risponde al nome di Luther Dickinson. I suoni che scarutirscono dai solchi (sì esiste anche l’edizione in vinile, triplo) di questo prodotto sono affascinanti, avvolgenti, caldi: sia che si tratti di grandi successi che di brani minori, i Black Crowes arrangiano le loro canzoni con rigore, dando spesso vita a lunghe jam su cui pianoforte e chitarre ricamano code strumentali sconosciute. Non abbiate paura di ritrovarvi davanti a un doppione, questa sorta di antologia è qualcosa di completamente nuovo, ascoltate ad esempio la nuova veste sonora di Hotel Illness! E tutto senza che la band perda per un solo momento il proprio status di formazione rock. Nell’intro a base di pedal steel (Donnie Herron, un altro del giro Dylan, come nel disco precedente c’era Larry Campbell, sarà un caso?) chitarra acustica e armonica di Good Friday sembra di ascoltare i Pink Floyd. Welcome To The Good Times è un altro dei brani più riusciti del disco, e che dire di Thorn In My Pride, Bad Luck Blue Eyes Goodbye, Ballad In Urgency? Ci sono poi Cold Boy Smile che appariva solo sul live dei soli Chris e Rich Robinson e la struggente She, un grande brano di Gram Parsons. L’unica nota dolente è che il gruppo ha annunciato, dopo aver portato a termine in dicembre il lungo tour promozionale, di voler prendersi una pausa di durata indefinita, cosa che ci lascerà per un pezzo a bocca asciutta. Dimenticavo: con la prima stampa del disco è stato distribuito un singolo contenente altri due brani registrati durante le stesse session: Willin’ e Boomer’s Story, titoli che dovrebbero dirvi qualcosa…

 Paolo Crazy Carnevale

 

STING
Symphonicities
2010 Deutsche Grammophon CDsting

I riarrangiamenti sinfonici di un gruppo rock non sono certo l’idea più originale. Può sembrare una buona idea, ma ormai se ne sono viste di tutti i colori, a volte ai limiti del cattivo gusto. Eppure, questa nuova raccolta di versioni inedite dei successi di Sting non riesce a non convincere: è quasi emozionante riscoprire in una nuova chiave dei brani che ormai sembravano dei pezzi da museo come Roxanne o Englishman In New York. A rendere brillante il disco è quella sana compostezza britannica di cui Sting è maestro: invece di pompose tirate wagneriane, l’autore ha preferito un tocco più da camera, sfruttando la Filarmonica di Londra e gli altri due ensemble presenti in modo sobrio e funzionale ai brani scelti. Relativamente poco è lo spazio concesso ai vecchi successi, ma forse è meglio così: mentre Roxanne è un pezzo ben riuscito, ma privo dell’energia dell’originale, Every Little Thing She Does Is Magic lascia un po’ a bocca asciutta, e anche dal grande classico Englishman In New York ci si aspetta in definitiva qualcosa di più; molto piacevole è invece Next To You, che traduce ma non altera la carica del brano. Sentendo il disco si ha cioè l’impressione che i brani più celebri non siano i più indicati per un rimaneggiamento del genere: fanno una figura di certo migliore quei brani che per il loro tono pacato e quasi meditativo calzano sicuramente di più in una veste colta e meno immediata: I Hung My Head è quasi meglio dell’originale, con un ritornello che trascina al primo ascolto, così come I Burn For You, che presenta un arrangiamento tutto da scoprire. Chiude il disco The Pirate’s Bride, un brano del 1996 estremamente malinconico e accattivante. Valore aggiunto dell’ intero lavoro la partecipazione della cantante Jo Lawry, che proprio in questo brano dà il meglio.

Eugenio Goria

 

OZZY OSBOURNE
Scream
2010 Sony Music CDozzy

Decimo album in studio per l’ex leader dei Black Sabbath che a sessant’anni compiuti continua a stupire, dandoci lavori di ottima fattura come il precedente Black Rain che ha ottenuto ottimi riscontri di vendite, favoriti da tour mondiali che confermano lo stato di grazia del Prince Of Darkness, sempre vivo e vegeto malgrado decenni di abusi in ogni senso. Si tratta anche del primo album senza il grande chitarrista Zakk Wylde, con lui dall’incisione di No Rest Of The Wicked del 1998. Il disco è uscito in Europa lo scorso 11 Giugno con la produzione del fido Kevin Churko e, con i trainanti singoli Let Me Hear Your Scream e Let It Die, ha subito raggiunto tutte le top ten mondiali, grazie a concerti che hanno confermato l’incredibile carisma dal vivo del Mad Man e della sua band. Inciso ai Bunker Sudios di Los Angeles ci offre undici nuovi brani composti da Ozzy e Churko, e quattro col tastierista Adam Wakeman. Il resto della band è formato dal batterista di origine greca Tommy Clufetos, ex Alice Cooper e Ted Nugent, dal bassista Rob Nicholson e dal chitarrista Gus G, ex Firewind, non geniale come Zakk (un vero mito) ma graffiante e con un suono potente e aggressivo. Let It Die e Let Me Hear Your Scream sono stupende con il loro suono grintoso e coinvolgente, ma non sono da meno le durissime Soul Sucker e Crucify, o le ballate elettroacustiche Time e Life Won’t Wait, con la voce di Ozzy sempre stupenda e accattivante. Grande e basta, mai nostalgico. Al recente Ozz Festival di Boston ha avuto una interminabile standing ovation dai suoi fan.

 Daniele Ghisoni

  

 

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THE HOOTERS

Time Stand Still
2007 Hooter Music CD

Gli Hooters, americani di Philadelphia, sono attivi fin dal 1980, sia pure con una pausa di sei anni (dal 1995 al 2001). I quattro quinti della formazione sono assieme fin dal 1983 e l’ultimo entrato in ordine di tempo, dopo vari avvicendamenti allo strumento, è il bassista Fran Smith Jr. Il gruppo del cantante/ chitarrista Eric Bazilian e del cantante/ tastierista/ fisarmonicista Rob Hyman (incredibile come assomigli al direttore del Mucchio Selvaggio Max Stefani), autore quest’ultimo di un pregevolissimo album solista assolutamente da riscoprire, Largo, ha pubblicato finora solo sette album, il penultimo dei quali (ultimo in studio) è questo Time Stand Still. Oltre ai tre già citati il gruppo è completato dal batterista David Uosikkinen e dal chitarrista/ mandolinista John Lilley. Questa è una band formata da provetti musicisti, molto esperti, che suonano però per il puro piacere di farlo, con un entusiasmo da debuttanti. Il suono è infatti fresco e decisamente positivo e orecchiabile. Mette di buon umore. A partire dai due gradevolissimi pezzi posti in apertura di CD, I’m Alive e il brano che dà il titolo a tutto il lavoro. Si prosegue con una raffinatissima cover di un vecchio successo del Don Henley solista, The Boys Of Summer. A parte questo brano, le composizioni portano tutte la firma della coppia Hyman/ Bazilian, e che questi siano in grado di comporre brani piacevoli e in grado di restare a lungo in testa, senza però essere commerciali nel senso deleterio del termine, è fuori discussione. Ricordate Time After Time, il successo di Cindy Lauper interpretato da moltissimi artisti, dalla sfortunata Eva Cassidy all’immenso Miles Davis? Bene, porta la firma di Rob Hyman. Until You Dare è una ballata di gran classe, Morning Dew è folk con chiare influenze irish. Splendida poi Where The Wind May Blow con le due voci che riportano agli anni ‘60 e un intro di chitarra che mi ricorda, giuro, non sono impazzito, The Reaper dei Blue Oyster Cult. Ordinary Lives è la più bella canzone che i Jayhawks non hanno mai scritto (nel testo vengono citati Il Giovane Holden e Lucy In The Sky With Diamonds). Il compito di chiudere il lavoro, prima dell’immancabile hidden track, è affidato alla lunga Free Again, gran ballata pianistica, interpretata al solito in modo impeccabile. Davvero molto bella. In definitiva, un disco che fa trascorrere in modo molto piacevole una cinquantina di minuti. Assolutamente consigliato. Concludo ponendomi una domanda. Si mangerà bene al ristorante/ trattoria Totaro’s?

 Gianfranco Vialetto       

 

STEVE WALSH
Shadowman   
2005 Muse Wrapped Records CDSWalshShadow_cop

Steve Walsh è famoso per essere stato il cantante/ tastierista dei Kansas nel loro periodo di maggior fulgore. Autore di un paio di discreti album solisti, uno del 1980, Dreamer Schemer, e l’altro, sicuramente prescindibile, Glossolalia, pubblicato nel 2000. Reclutati pochi ma fidati amici come il chitarrista e bassista Josh Kosche, il batterista ex Twisted Sister Joe Franco, nonché il violinista dell’ultima incarnazione dei Kansas, David Ragsdale più, direttamente dai Symphony X, Michael Romeo se ne esce nel 2005 con un lavoro sorprendente, questo Shadowman. Sorprendente perché va ben oltre il canonico suono del gruppo di provenienza del nostro, inserendo molte sonorità assolutamente moderne e in linea con i tempi. Si resta piacevolmente spiazzati fin dal brano di apertura, Rise, che costruisce un ponte fra i Kansas e un gruppo come gli A Perfect Circe. Ancora più bello il brano che dà il titolo all’album, dura ballata hard/prog/industrial che suona come se il  Peter Gabriel dei primi album solisti avesse avuto come gruppo spalla i Nine Inch Nails. Stupenda, fino alla coda finale dove si sente il tocco delle orchestrazioni di Michael Romeo. La cosa strana di questo disco, lavoro come dicevamo di un tastierista, è che le tastiere non sono affatto dominanti, tutt’altro, ma svolgono egregiamente il loro compito al servizio delle canzoni, senza essere assolutamente invadenti. Si prosegue con alcuni grandi hard rock chitarristici come Davey And The Stone That Rolled Away, Keep On Knockin’ e la ritmatissima Hell Is Full Of Heroes. Pages Of Old è una piacevole ballata chitarristica; la lunga cavalcata After potrebbe provenire da uno dei primi album dei Kansas, come Masque o Songs Of America, se questi fossero pubblicati oggi, con anche alcune influenze, non disturbanti, di rock sinfonico alla Nightwish. Comunque molto bella e particolare. La chiusura è affidata al brano più convenzionale del lotto, la piacevolissima ballata The River, degna conclusione di un album al di là delle più rosee aspettative. Steve Walsh ha forse perso negli anni un po’ della sua estensione vocale (che l’aveva fatto invitare da Steve Hackett per cantare un paio di brani nel suo bell’album solista Please Don’t Touch), ma sicuramente ha guadagnato moltissimo come maturità in fase compositiva. Speriamo si conservi a lungo così.

 Gianfranco Vialetto

 

 

DIRE STRAITS
Sultans Of Swing The Very Best
2010 Vertigo 2CD + DVD dire straits

La band si forma a Newcastle nel 1977 e poi si trasferisce a Londra, con David Knopfler, il fratello Mark, e gli amici John Illsey, basso e Pick Withers, drums.Iin piena era punk i Dire Straits (letterariamente “terribili ristrettezze”) riuscirono a creare una sonorità unica, unendo il classico rock & roll a influenze country, jazz, swing e blues, grazie anche alla loro notevole capacità strumentale e compositiva che li fece diventare in poco tempo famosi in tutto il mondo. In particolare, i due primi album, Dire Straits e Communiquè, sono piccoli gioielli del genere, supportati da singoli che ormai fanno parte della storia della musica rock, da Tunnel Of Love a Romeo And Juliet, da Local Hero a Sultan Of Swing, solo per citarne alcuni. Questa raccolta fu pubblicata dalla Vertigo nel 1998 come album singolo con sedici brani, ovviamente i più famosi della band, oltre a due tracce live, Your Latest Trick e Local Hero/ Wild Theme. Visto il successo fu ripubblicata in doppio CD, con il disco originale sul primo e sul secondo un concerto inedito registrato a Londra nel 1996 durante il Golden Heart Tour contenente sette brani, e con versioni strepitose di Romeo And Juliet, Sultan Of Swing e Brothers In Arms. La ultimissima versione è questo lussuoso cofanetto con booklet allegato, a prezzo veramente contenuto, con i due CD già citati e uno stupendo DVD contenente sedici canzoni dal vivo, tratte da vari concerti con brani lunghi e dilatati, con grande spazio ai solismo dei musicisti, con Mark in grande spolvero con la sua chitarra e con la sua voce roca e personalissima: Sultan Of Swing, Romeo And Juliet, Tunnel Of Love, Calling Elvis, Love Over Gold e Heavy Fuel ci faranno sempre sognare.

Daniele Ghisoni

 

 

TOM FREUND
Collapsible Plans
2008 Surf Road Rcords CDtomfreund

Tom Freund non è uno di quei cantautori di cui si sente parlare molto dalle nostre parti. E sì che a cavallo tra gli anni ‘90 e il terzo millennio, sulle nostre coste sono approdati molti nomi di nicchia o addirittura illustri sconosciuti del cantautorato americano che senza troppa arte e parte si sono guadagnati gli onori della cronaca sulla stampa italiana. Tom Freund sarebbe sicuramente svettato orgogliosamente e giustamente sopra le loro teste. Questo Collapsible Plans è il suo quarto disco, ma ciò non deve far pensare che la sua carriera sia iniziata da poco, si tratta solo di uno molto rilassato, che a volte preferisce mettere sul mercato degli EP con cinque canzoni anziché attendere di averne abbastanza da fare un disco completo. Questione di punti di vista. Questo suo sforzo del 2008 lo vede collaborare col suo amico di sempre, quel Ben Harper con cui all’inizio degli anni ‘90, quando Harper era ancora uno sconosciuto, aveva registrato un vinile tutto acustico a tiratura limitata che ricalcava le orme di Taj Mahal (e qui scatta la sfida agli indefessi cacciatori di vinile, pare che la tiratura fosse di appena duemila copie). Nel disco di cui mi accingo a parlare Harper siede in veste di produttore e compare in quasi tutti i brani. Questo impreziosisce non poco un disco che comunque già di suo brilla per l’intimità delle composizioni e per le atmosfere molto tranquille, ma mai soporifere. Si tratta proprio di un bel disco, io ho dovuto darmi il mio da fare per trovarlo su ebay in edizione giapponese (!) a un ottimo prezzo. La title track, che apre il disco è già un grande assaggio della bontà di cui sopra, e poi gli altri titoli si susseguono con gusto, notevole è Can’t Cry Hard Enough, in cui Freund suona tutto lasciando la batteria a Michael Jerome (quello che da alcuni anni accompagna Richard Thompson), e che dire di Why Wyoming, in cui le voci che accompagnano Freund sono quelle di Harper e Jackson Browne (quest’ultimo anche al piano) o Copper Moon (con gli stessi accompagnatori). In altri brani Harper ricama con la sua national guitar, con la lap steel, suona addirittura la batteria, lasciando interventi tangibili e preziosi (Without Her I’d Be Lost). Il disco, nella mia edizione nipponica, contiene anche due bonus track di grande spessore: una cover di Thank You, quella dei Led Zeppelin, prodotta da Danny Kalb, e una versione live di Copper Moon in cui è ancora presente Harper. Fateci un pensierino, magari anche un po’ grosso…

Paolo Crazy Carnevale

RICHARD THOMPSON
Dream Attic
2010 Proper CDDream_Attic

Non so se “riff” sia il termine appropriato parlando della chitarra di Richard Thompson, ma una cosa è certa l’attacco del primo brano di questa nuova fatica discografica del chitarrista inglese è proprio uno di quei tipici “riff” alla Thompson. Un grande riff iniziale per un grande disco, seppur torrenziale e lunghissimo, come da tempo Richard Thompson ci ha abituati, forse la sua prova migliore dai tempi di Mock Tudor e della colonna sonora di Grizzly Man. Questo grande artista è uno di quelli che con cadenza biennale torna nei negozi con le sue nuove canzoni, ma stavolta lo fa in modo diverso: Dream Attic è un disco dal vivo composto esclusivamente da nuovi brani. Una scelta insolita, pare dettata dal voler risparmiare sulle spese di produzione. Comunque sia, Thompson, è qui accompagnato dagli abituali partner degli ultimi anni, in particolare il polistrumentista Pete Zorn e il prodigioso e metronomico batterista Michael Jerome. Inutile dire che il disco è tutto registrato negli Stati Uniti, dal momento che i concerti europei col gruppo sono davvero mosche bianche (come le esibizioni milanesi di qualche tempo fa). Il disco è superiore alle pur positive recenti prove del chitarrista, forse per via della bontà del materiale, forse per l’impatto dell’esecuzione live. Richard è in forma notevole, la sua voce e la sua chitarra dominano il disco consegnandoci suoni sempre apprezzati e provenienti spesso da lontano. Sì, perché in questo disco i richiami al passato sono molti, sia a certe composizioni di quando girava in tandem con Linda (ascoltate Burning Man), sia addirittura ai fasti folk rock dei Fairport Conventin, grazie all’inserimento di strumenti tradizionali (flauti, mandolini, violino, quest’ultimo suonato da Joel Zifkin) come nella spiritosa Here Comes Geordie, un brano il cui testo ironizza (con la tipica maestria di Thompson) su certi eccessi di Sting (il Geordie del titolo). Il disco è disponibile anche in edizione doppia, con un bonus CD che raccoglie le tredici tracce in versione semi acustica: viene presentato come la versione demo dei brani inclusi nella parte live, ma vi assicuro che ascoltandolo si ha la sensazione di avere a che fare con brani fatti e finiti, e che brani! In questa versione Dream Attic ha dalla sua il fatto di durare un po’ di meno, risultando più fruibile, ma l’unica cosa innegabile che emerge dall’ascolto è che in una versione o nell’altra ci troviamo davvero davanti ad un grande disco.

Paolo Crazy Carnevale

Il miele…prima della tempesta

di Marco Tagliabue

14 settembre 2010

La dolcezza infinita di una meravigliosa canzone d’amore secondo i Jesus And Mary Chain. Una cascata di miele prima che si scatenino tonnellate di elettricità, con le chitarre costantemente in feedback, ed i confetti psichici che hanno cambiato il gusto degli anni ottanta si rivelino nella loro essenza più pura. Quanta nostalgia, e oggi quanta tenerezza, per quelle acconciature improbabili, quei vestiti neri attillati, quella strumentazione scarna…per quei giorni, ormai lontanissimi, in cui tutto stava per succedere…

Vinile!?!!

di admin

6 settembre 2010

Dalla webzine Sands-Zine un lungo, appassionato, interessante articolo di Etero Genio sull’oggetto che più ci sta a cuore…dedicategli una mezzora del vostro tempo e trovate un buon disco da mettere in sottofondo… 

www.sands-zine.com/articoli.php?id=2413

Greetings from Australia…

di Marco Tagliabue

6 settembre 2010

Australia, frontiera inesplorata, terra di grandi distanze e di smisurati orizzonti interiori.
Ci fu un periodo, più o meno a cavallo della metà degli anni ottanta, in cui il Signore della Sei Corde sembrò aver diretto il suo raggio di luce più intenso proprio sulla Terra dei Canguri: una facile previsione per la nuova terra promessa di un rock sempre più stanco dei circuiti tradizionali.
In principio furono Saints e Radio Birdman a tracciare, attraverso il recupero delle sonorità malate di Stooges e MC5, una ideale linea rossa con la nascente scena punk dei paesi anglosassoni, poi fu la volta, seppur in ambiti diversi, di Birthday Party e Nick Cave, Church e Celibate Rifles, Hoodoo Gurus e Go Betweens, Died Pretty e Dead Can Dance: sembrava insomma che qualsiasi produzione proveniente da quelle lande sterminate fosse destinata ad ascendere in breve tempo al luminoso firmamento del rock’n’roll.
Una scena fiorente e una manciata di dischi epocali: tanto bastò (e scusate se è poco..) a far convergere pubblico e critica su quelle latitudini con i toni enfatici della next big thing: ci volle invece molto di meno per seppellire in breve, con altrettanta facilità, il miracolo dell’Aussie rock sotto un carico eccessivo di aspettative troppo grandi e di sogni irrealizzabili.
Poi, sul finire della decade, venne il grunge con il mito delle cantine di Seattle e nessuno, ma proprio nessuno, sembrò più ricordarsi del Nuovo Continente e del suo sogno infranto.
Uno dei tanti della nostra musica, del resto.
Ciò che rimane e che nessuno può cancellare sono, appunto, quella decina di masterpieces, e, per quanto mi riguarda, una canzone in particolare…

Un vinile per l’eternità…

di Marco Tagliabue

3 settembre 2010

Nemmeno nei vostri sogni più torbidi e peccaminosi avreste mai immaginato di raggiungere la frontiera che andiamo ora a svelarvi…

Volete così bene a voi stessi e così male ai vostri congiunti da pensare, quando giungerà il fatidico momento, di lasciare ad ognuno di essi qualcosa di voi per l’eternità, nella forma e nella materia che avete amato fino al vostro ultimo respiro, che ha catturato l’ultimo anelito del vostro cuore dispettoso, ovviamente il tondo disco in vinile?

Da oggi è possibile farsi cremare e stampare un po’ di dischi con le proprie ceneri, magari riempiendoli della musica preferita…la vostra compilation definitiva…prendere o lasciare!

Occhio alle scelte perchè non sarà più possibile tornare sui vostri passi…togliere una canzone e metterne un’altra come avete fatto fino allo spasimo in gioventù, sputtanando interi pomeriggi e pacchi da cinque di c-60…

Non ci credete? Per saperne di più su prezzi, modalità di prenotazione e termini di consegna, visitate il sito

www.andvinyly.com

…e, mi raccomando, cominciate fin d’ora a cercare una bella foto per la copertina…

 

(grazie a Oliviero)