Archivio di gennaio 2016

KREG VIESSELMAN – To The Mountain

di Ronald Stancanelli

23 gennaio 2016

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KREG VIESSELMAN
TO THE MOUNTAIN
2015 Appaloosa / Ird

Kreg Viesselman è un artista americano che è stato adottato dalla terra norvegese che se non erriamo spesso ha avuto tra le sue lande appunto cantautori d’oltre oceano che colà vi si son sistemati; andando a braccio con la memoria, se la stessa non c’inganna per via del tempo che scorre, ci sovvengono in mente Eric Andersen, il 30 gennaio dal vivo a Vicenza con Michele Gazich e da non perdere assolutamente e Lee Clayton. Appunto dicevamo che questo cantautore che ha molti adepti qua in nord Europa e che come stile ha tra le sue spire pacatissime ballate che ci portano ad artisti degli anni settanta come Nick Drake, Alun Davies, Cat Stevens, lo stesso Andersen prima citato, i nostrani Untemberger e Loy &Altomare e in un pezzo anche gli Eagles, sia fermamente figlio della musica di quel periodo. Nel suo recente To the Mountain vi sono undici canzoni da lui scritte e cantate con l’accompagnamento delle chitarre e di un pianoforte tipicamente invernale con note musicali atte a ruotare attorno ad un camino all’interno di gelide esterne temperature. Lo aiutano in questa impresa che rispetto ai suoi precedenti dischi è leggermente più ritmata e modulata una schiera di artisti locali essendo il disco registrato ad Oslo tra cui primeggia il gentil sesso con le voci delle aggraziate Ingrid Bergen e Annelise Frokedal che suona anche varie chitarre mentre da rimarcare anche Mari Persen al violino. Per quanto concerne i maschietti, Goran Grini suona il piano nella cockburniana Honeycomb, Peter Hanafin la tromba mentre Peter O Toole, omonimo del ben più famoso attore ma noto comunque pure lui per chi ricorda quel favoloso gruppo che erano gli Hot House Flowers, quattro eccellenti dischi in studio tra il 1984 e il 1998, porta alla causa il suo bouzouki ed infine alle gentilmente pacate percussioni e batteria troviamo Oistein Rasmussen.

I testi che nel libretto oltre che in lingua inglese troviamo inaspettatamente tradotti in italiano raccontano del duro show businnes musicale, di chi purtroppo parte per l’ultimo viaggio e di chi invece soltanto ci lascia alla ricerca del nuovo, della dura realtà che ci si troviamo a volte attorno, del peregrinare come in una ricerca mistica e di percorsi diversi e infiniti. Testi importanti che ricordano pagine di vecchi libri come Siddharta o Sulla strada.

Almeno quattro pezzi indimenticabili in questo disco che necessita di più ascolti poiché forse al primo un po’ vi tedierà ma al settimo vi avrà fatto impazzire, quindi molte stellette a In the Summer in Oslo, I speak loud ( you speak loder), The Inefficiency Waltz che riporta la memoria alla Saturday Night degli Eagles e la title track, ovvero la dolcissima To The Mountain ma anche il resto dell’album è veramente da favola.
Buttateci occhio ed orecchio, sicuramente non ve ne pentirete. Copertina lucidamente bianca con pennellato un triangolo dagli svariati significati.

ARCHIE FISHER – A Silent Song

di Paolo Crazy Carnevale

20 gennaio 2016

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ARCHIE FISHER
A Silent Song
(Greentrax/Red House 2015 / IRD)

Due cose mi sono state evidenti fin dal primo ascolto di questo disco: la provenienza dalle isole britanniche del titolare ed il fatto che si trattasse di un disco dalle sonorità estremamente calde e rassicuranti, scarne atmosfere acustiche basate quasi esclusivamente su arpeggi di chitarra che sembrano fatti appositamente per infondere calore alla stregua di un caminetto acceso nelle più rigide serate invernali – e mentre vi scrivo, credetemi, siamo proprio in quel periodo dell’anno – quando la sera la voglia di uscire di casa latita.

Ammetto che il nome di Archie Fisher non mi diceva nulla. Quando ho ricevuto questo disco ho pensato si trattasse di un ennesimo folksinger sconosciuto e la povertà della veste grafica non mi ha certo spinto ad ascoltarlo in fretta, lasciandolo decantare per un po’ nella pila di dischi da considerare che si ammucchiano di tanto in tanto sul mio tavolo.

In realtà Archie Fisher è una vecchia volpe, è scozzese, ed è sulla breccia dalla metà degli anni sessanta, quando ha inciso le prime cose in seno alla Fisher Family, insieme alle sorelle Cilla e Ray, per l’etichetta specializzata Topic.

Le sue frequentazioni sono state quelle migliori che si potessero avere nella Gran Bretagna in cui il folk revival ha avuto i suoi anni migliori: da Bert Jansch (con cui Fisher si è esibito al festival di Edimburgo nel 1964) ai futuri componenti della Incredible String Band, alla cantante Barbara Dickson con cui ha inciso alcuni dischi.

La sua attività come solista è iniziata con un album eponimo uscito nel 1968 ed è proseguita fino al 1976 (anno in cui ha pubblicato ben due dischi), poi nulla fino alla seconda metà degli anni ottanta, quindi ancora il silenzio interrotto nel 2006 e nel 2008; questo nuovo disco è dunque un ennesimo ritorno sulle scene, ma nel frattempo le sue canzoni sono state riprese – talora con successo – da Steeleye Span, Fairport Convention, Clancy Brothers, Eva Cassidy, John Renbourn; per non dire di Tom Paxton che si è avvalso più volte delle doti chitarristiche di Fisher.

Questo A Silent Song si compone di una dozzina di canzoni, il cui scheletro è composto quasi essenzialmente dalla chitarra delicata e dalla voce forte e tenorile di Archie, che da come canta non dimostra affatto i suoi settantasei anni: ad accompagnarlo ci sono solo un flauto, un basso, un violoncello e di tanto in tanto una seconda chitarra e la voce di Linda Richards.

Tra i brani autografi particolarmente belli sono Half The World Away, il walzer iniziale Waltz Into Winter e A Song For A Friend, ma piace molto anche l’intima The Gifts firmata da Richard Berman, per non dire delle riprese dei tradizionali Mary Ann, Lord Of The May. Ma a funzionare è il tutto, l’insieme delle canzoni, i suoni puliti ed essenziali, il cantato di Fisher…

BETTYSOO – When We’re Gone

di Ronald Stancanelli

17 gennaio 2016

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BETTYSOO
When We’re Gone
2015 Sweet Papaya Music distrib da IRD

Sconosciuta per noi ma nel contempo artista piacevole tal Bettysoo che da un a ricerca in rete ci si prospetta in fotografia fanciulla dalle orientali sembianze anche se non proprio accentuate quindi sicuramente figlia di genitori di diversa etnia. Dischetto di dodici tracce tutte di squisita e piacevole fattezza. La fanciulla pare abbia girovagato tra il nordamerica e anche l’Europa ed oltre a cantare visitando centri di disabilità psichiche e motorie facendo del suo peregrinare motivo di vita anche in servizio per gli altri. Appunto pare da queste esperienze sia nato questo When we’re gone prodotto assieme a Brian Standefer e da lui registrato e missato in quel di Buda, Texas. Disco incisivo che tratteggia diremmo mirabilmente sentimenti in modo intimo e profondo. Dalla sua piacevole voce decisa ma sensibile un corollario di acquerelli che si fanno apprezzare con immediatezza sin dal primo ascolto e che trovano momenti di pura bellezza in 100 different ways of being alone, Summertime, Love is Real e Wheels. Se proprio si vuole dare un senso di comparazione al suo lavoro possiamo andare con la memoria ad alcune delle prime cose fatte da Jony Mitchell a inizio carriera o a certe pagine dello stesso periodo di Janis Ian. Nel disco troviamo con piacere un amico di vecchia data, il bassista Glenn Fukunaga che conoscemmo appunto anni fa quando venne in tour nel nostro paese con Joe Ely e poi vari anni dopo se non ricordiamo male lavorò anche con Bob Dylan. Diremmo un eccellente biglietto da visita iniziale nell’ambito dei musicisti che la supportano e certamente non possiamo esimerci dal rimarcare l’eccellente lavoro di Standefer al violoncello e alle tastiere. Will Sexton suona la chitarra elettrica in due brani mentre la Bettysoo, che scopriamo or ora essere texana di origine coreana, si diletta con ottimi riscontri alle chitarre, alla fisarmonica, al piano e anche lei alle tastiere. La batteria è invece affidata a Dave Terry. Una massima della Bettysoo troneggia all’interno della confezione in digipack, a proposito accattivante il bel disegno di copertina, che dice Love is Here Love is Real e che ben si addice sia alle tematiche delle canzoni che alle notevoli doti musicali e canore della cantautrice, i brani sono tutti a sua firma, che dei musicisti che suonano con lei. Bel dischetto, restato purtroppo quasi un paio di mesi sulla mia scrivania tra miriadi di cose da fare ma stasera averlo finalmente potuto ascoltare e riascoltare e riascoltare ancora mi ha dato una pace interiore e un senso di beatitudine. Bettysoo non dimentichiamoci di lei.

THE GRACE – The Gift

di Ronald Stancanelli

14 gennaio 2016

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THE GRACE
The Gift
2015 Alman Music

Sparse qua e la, cover tratte da Jeff Buckley ne avevamo ascoltate in questi anni, Willie Nile aveva scritto su di lui la bellissima On the Road to Calvary, che spesso esegue dal vivo ma è la prima volta che mi capita di avere tra le mai un disco che omaggia coverizzando per intero praticamente tutto Grace. Il gruppo in questione che si è dato appunto il nome di The Grace ha chiamato questo album The Gift ed è un regalo oltre che alla memoria dello scomparso artista un vero regalo anche per chi dopo tanti anni ancora ha tra le spirali della mente quello splendido capolavoro perché questo tributo-regalo è veramente ben fatto, splendidamente suonato e ottimamente cantato. I Grace sono Claudio Belgrave alla voce, Andrea Costa al violino e Frank Cilio alle chitarre e al basso con l’aiuto alla batteria di Giovanni Cilio e al violoncello di Gionata Costa. Sicuramente la motivazione per un’operazione del genere non può che essere dettata dall’amore per questo artista e dalla passione che dette canzoni suscitano su chiunque si metta ad ascoltarle. Un rischio, un azzardo, un’incognita ? Sicuramente quando i tre + due si sono messi all’opera ci avranno ovviamente pensato ma trattasi decisamente di una scommessa vinta, diciamo per due motivi. Il primo è la bravura degli artisti coinvolti in questa celebrazione che certamente dissetano se stessi con il loro lavoro particolarmente riuscito e di conseguenza l’appassionato fruitore di questi suoni e il secondo forse quello più utile, il portare a scoprire a coloro che non l’hanno conosciuto o non lo conoscono per nulla una miriade di canzoni bellissime, qui lo ribadiamo magicamente riproposte, che restano meravigliosamente nel tempo. Diciamo che questo connubio spazio-temporale tra Buckley, i Grace e lo spirito magico di Cohen che aleggia su tutto è quanto di più emozionante ci è dato di sentire ultimamente sul fronte delle cover e riproposizioni che dir si voglia, considerando che ogni anno il sottoscritto in periodo Premio Tenco di album di cover ne ascolta a profusione. Ecco questa folle tenzone dei ragazzi romagnoli si può ben definire una pazzia andata a buon fine. Per completezza di informazione sono proposti 9/10 del disco Grace più altri tre brani del repertorio di Buckley per un totale di dodici canzoni. Autoprodotto e registrato in proprio. Efficacemente concreta e tangibilmente evanescente la simbolica copertina.

CLARENCE BUCARO – For The First Time

di Ronald Stancanelli

11 gennaio 2016

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CLARENCE BUCARO
For The First Time
Rounder 2 distribuito da IRD

Inizia in modo sfolgorante come un brano degli America Clarence Bucaro in questo For the First Time che è anche il titolo del suo nuovo album seguita dalla ritmata Somewhere in the Middle che sembra uscita dalle cose più riuscite del grande John Prine. Diremmo che come biglietto da visita per tutto il cd a seguire, tutto di stampo interessante notevole, non c’è male. Anche il terzo, piacevolissimo, brano Midnight Blue è alquanto America oriented con finanche un armonica in puro stile younghiano anche se guardando poi la produzione scopriamo che la stessa è affidata a Tom Schick che avendo nel suo percorso già lavorato con Wilco e Ryan Adams in particolare sarebbe realmente tutto da un’altra parte rispetto ai citati America. Ed infatti al quarto, eccellente, pezzo, Let the Mystery in, troviamo echi lancinanti e struggenti di Wilco, Buffalo Tom e Whiskeytown. Bellissima anche la quinta traccia, New Tongues, ballata che profuma di desert song e che ci conferma il grande fascino di questo album che nella ritmata, siamo al sesto splendido brano senza sinora alcuna caduta di tono, Old Brown Shoes ci porta nei territori di Robert Earl Keen Jr. Ancora cinque pezzi tutti di alto lignaggio per un album che si erge tra il lavori di cantautorato più solidi dell’anno passato e che vi consigliamo caldamente per le vostre serate invernali ove dette songs aiuteranno a scaldare il cuore, tra echi rimembranti Nitty Gritty Dirt Band e il Jimmy Buffet più confidenziale rammentiamo pur la presenza dei Blind Boys Alabama che nobilitano ancor di più un lavoro decisamente affascinante. Per chi come lo scrivente ha avuto la fortuna di vederlo nel recente Buscadero Days, ove si è rivelato simpaticamente valido e solidamente capace, Clarence Bucaro è artista da scoprire e da conservare gelosamente tra le cose più care. Un gran bel disco che ha solo un’unica pecca, una copertina purtroppo veramente orrenda. Per il resto come detto una rivelazione.

SAM OUTLAW – Angeleno

di Ronald Stancanelli

10 gennaio 2016

SAM OUTLAWS Angeleno

SAM OUTLAW
Angeleno
Six Shooter Records 2015
Distribuito da IRD

Sam Outlaw, ma dubitiamo che sia il suo vero cognome, amico di Joachim Cooder, si fa produrre dal di lui padre, il grande Ryland P Cooder, che amiamo e seguiamo da anni, questo suo secondo album, le note d’agenzia ci informano essere questo il suo esordio ma è gia autore di Nobody Loves, cd del 2013 e di un EP l’anno dopo.
Angeleno è invece il titolo di questo suo secondo piacevolissimo lavoro dalla durata di poco più di quaranta minuti come la maggioranza di dischi country rock di una volta e caratterizzato appunto da intense tinte countreggianti con, tra le righe, influenze californiane che in più momenti ci rammentano personaggi come John David Souther, i Poco, Richie Furay, Rick Roberts e tante altre sonorità a noi care negli anni settanta.
Keep it interesting cavalcata di grande impatto con la voce di Molly Jenson è tra i momenti più solari dell’album che ha molte frecce nel suo arco tra le quali la presenza di Ry Cooder alle chitarre sia acustiche che elettriche, al bajo sexto e al banjo, quella del figlio Joaquim, che tra l’altro co-produce il disco, alla batteria e di Danny Garcia al basso. Una band di Mariachi e la pedal steel di Jeremy Long traghettano alcuni momenti verso orizzonti messicani che colorano il tutto con atmosfere ridenti e lussureggianti che portano l’ascoltatore verso cieli lindi e tersi pregni di affascinanti note che si esalteranno sicuramente quando ascoltate durante assolati viaggi automobilistici. Sintesi di quanto detto nella luminosa Angeleno abbellita appunto da trombe messicane mentre la splendida Country Love Song ci riporta alla memoria pagine tra le più ricercate e piacevoli di John Prine. Ballata d’ampio respiro Ghost Town, nessuna parentela con l’omonima dei Poco, copre splendidamente le distanze mentre Jesus take the Wheel and drive me to a Bar porta alla memoria il mai dimenticato Chris Ledoux e ancora radiosa e scintillante la ballata Keep a close Eye on me e come si può facilmente notare non vi sono pezzi minori in questo cd ove tutti si equivalgono sopra uno standard qualitativo diremmo eccellente.
Tutte le canzoni sono firmate da Sam Outlaws e come in un film che corre da Los Angeles a Nashville caratteristica oltremodo la foto di copertina che sprizza stelle e strisce in tutte le direzioni.

DWIKI DHARMAWAN – So Far So Close

di Paolo Crazy Carnevale

6 gennaio 2016

dwiki dharmawan

DWIKI DHARMAWAN
So Far So Close
(Moonjune 2015)

Il vasto catalogo che la Moonjune Records ha dedicato alla musica fusion di produzione indonesiana si è arricchito lo scorso autunno del disco di questo musicista molto amato nel suo paese e altrettanto considerato all’estero viste le sue numerose collaborazioni artistiche che lo hanno portato ad esibirsi in una sessantina di paesi. Per il debutto di Dharmawan sulla sua etichetta, Leonardo Pavcovich gli ha allestito una band di primordine, composta dall’ ex Yellowjackets Jimmy Haslip e dal batterista zappiano Chad Wackerman, impiegati spesso in altre produzioni di Pavcovich; in aggiunta non potevano mancare, alle chitarre, distribuiti quasi equamente nelle otto tracce del disco, i chitarristi Dewa Budjana e Thopati, conterranei del titolare e a loro volta accasati – musicalmente parlando – presso la Moonjune Records.

Il disco è nella scia di molte produzioni similari dell’etichetta newyorchese, una fusion molto fruibile che sorretta dall’eccellente sezione ritmica jazz-rock oriented si dipana generando trame multiformi e multicolori, toccando di volta in volta terreni differenti, con le tastiere di Dharmawan sempre in evidenza, sia che si tratti del fender rhodes elettrico, sia che le sue dita scorrano sul piano acustico o sui vari minimoog, hammond e korg usati nel corso delle registrazioni.

Il brano d’apertura, Arafura, è già indicativo della strada intrapresa da Dwiki Dharmawan ed è impreziosito dalla presenza, al violino di Jerry Goodman, altro musicista titolatissimo che negli anni settanta era stato uno dei Flock ed aveva poi prestato i propri servigi alla Mahavishnu Orchestra con McLaughling e Cobham e, negli anni novanta, ai riformati Dixie Dregs.

Tra i brani che emergono va citata la title track con un fantastico intervento di Thopati all’elettrica, il chitarrista regala al disco anche un pregevole momento nella successiva Whale Dance imbracciando però l’acustica. Con The Dark Of The Light il disco ricalca sonorità più tipiche della fusion mentre Jembrana’s Fantasy è una lunga elaborata e meno immediata suite dall’andamento decisamente free in cui è protagonista il piano acustico di Dharmawan. In chiusura è sicuramente da citare The Return Of Lamafa, in cui si avvertono influenze quasi barocche tanto distanti dal resto delle composizioni, quanto interessanti per l’ardita idea che ne sta alla base.

SELINA MARTIN – I’ve Been Pickin’ Caruso’s Brain; I Think I Have The Information We Need To Make A New World

di Paolo Crazy Carnevale

1 gennaio 2016

selina martin

SELINA MARTIN
I’ve Been Pickin’ Caruso’s Brain; I Think I Have The Information We Need To Make A New World
(SELMA/Hemifran 2015)

Perplessità… Quando mi è capitato in mano questo CD canadese ho storto subito il naso per via della copertina, che pur ritraendo l’avvenente songwriter che ne è protagonista ha una grafica davvero orrenda che richiama alla mente i peggiori artwork degli anni ottanta. Il naso per altro è rimasto storto anche quando ho cominciato ad ascoltarlo, almeno per i primi tre brani. Non sapevo cosa aspettarmi e comunque quello che mi stava toccando in sorte era qualcosa di totalmente distante da quanto ascolto solitamente e da quanto per abitudine pensiamo provenga da quelle lande canadesi che in tema di cantautorato e rock ci hanno consegnato nomi che non devo certo andare a ricordarvi.

Se la voce, estrapolata dai suoni, poteva anche avere delle chance, il tipo di produzione e la strumentazione proprio mi hanno lasciato perplesso. Ho pensato ai Sugarcubes (e difatti nelle recensioni che poi ho scovato per capire cosa stavo ascoltando ho trovato citata nientemeno che Björk, ma anche Lene Lovich e Kate Bush) ma ho pensato anche ad un’accozzaglia di rumori che le note di copertina hanno confermato: oltre ai consueti chitarra, tastiere, basso e batteria, nel CD di Selina Martin troviamo voci come “kick drum loop”, “rock on glass loop”, “Selina’s phone”, “everything else”, “additional electronics”, “sampled horns”, “found objects”, “pocket piano” , “bleep drum”, “voyageur synth” e molto altro.
Attiva fin dalla metà degli anni novanta, Selina Martin con questo disco dal lungo e intrigante titolo è giunta al suo quarto lavoro, ma ha al suo attivo anche molte collaborazioni sia come titolare di altre formazioni che in campo compositivo e produttivo.

Il disco è decisamente di difficile assimilazione per palati come il mio, abituati ad altri suoni, più umani, ma nel suo genere ha riscosso molti apprezzamenti, qualcuno ha posto come pietra di paragone (forse un po’ esagerata) persino i Talking Heads degli esordi, va detto però che ascoltato nella sua interezza il disco finisce per proporre anche alcune tracce intriganti che riescono ad emergere al di là dei suoni futuristici e brani come My Hearts Ticks On, Hawaii, When The City Fell (nella prima delle due versioni incluse nel CD) riescono a lasciare il segno anche nel profondo di un consumato trapper come il vostro recensore.