Archivio di gennaio 2022

BELEDO feat. TONY LEVIN and KENNY GROHOWSKY – Seriously Deep

di Paolo Crazy Carnevale

30 gennaio 2022

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Beledo featuring Tony Levin and Kenny Grohowski – Seriously Deep (Moonjune Records 2021)

Tra le varie uscite con cui la label di Leonardo Pavkovic ha celebrato il proprio ventennale lo scorso anno, è particolarmente gradito questo ritorno del chitarrista (ma anche pianista all’occorrenza) uruguayano Beledo, di base da molti anni nella Grande Mela però, dove la label ha la sua sede.
Per questo nuovo disco, l’artista si fa accompagnare da due purosangue della scena americana e mondiale, due cavalli di razza non nuovi alle collaborazioni con altri musicisti di casa Moonjune.
Si tratta del poliedrico e a ragione celebrato bassista Tony Levin e del batterista Kenny Grohowski che forniscono a Beledo il giusto appoggio per le sue escursioni in chiave fusion sia sul manico della sei corde che sui tasti del pianoforte.
A testimonianza della particolare attenzione del produttore a far incontrare e collaborare gli artisti della sua scuderia, troviamo in veste di ospiti negli unici due brani cantati la vocalista del Bostwana Kearoma Rantao e il nostrano Boris Savoldelli, autentico maestro della voce.
Il disco prende le mosse dalla fine degli anni settanta, quando un giovane Beledo, già attento ascoltatore e cultore della musica jazz, grazie all’amico Jorge Camiruaga con cui militava nella medesima band, scopre un disco di Eberhard Weber, Colours la cui intera prima facciata era occupata dal brano Seriously Deep.
Il chitarrista è rimasto così colpito da quel disco e da quel brano che ora ha deciso di omaggiare Weber e quella composizione riproponendola come centerpiece di questa nuova produzione. Ecco così che il disco si apre proprio con questo lungo brano, in cui come guest star al vibrafono la formazione di Beledo ospita proprio Jorge Camiruaga, a sua volta divenuto uno stimato jazzista.
Il brano successivo è Mama D, una vera e propria canzone in cui si tocca il tema dell’apartheid, è qui che compare la voce della Rantao, in un excurusus di latin fusion molto classico e a sua volta fortemente legato al periodo musicale a cui risale il brano di Weber. La sezione ritmica si libra con sapienza e senza alcuna pesantezza mentre le dita di Beledo volano sul manico dell’elettrica.
Coasting Zone è un brano elaborato in cui il batterista Grohowski ha a disposizione spazio per brevi passaggi solisti, mentre la seguente Maggie’s Sunrise, anche grazie alle suggestioni del vibrafono di Camiruaga, si ricollega alla suite di Weber da cui il disco prende le mosse.
Mentre i brani fin qui proposti hanno una loro partitura scritta, con Knocking Waves il trio si concede all’improvvisazione più pura e alla sperimentazione sonora.
D’altra pasta i quasi undici minuti di A Temple In The Valley, la composizione con la voce di Savoldelli: il cantante camuno rende omaggio al disco con una prestazione in bilico tra la scuola di Canterbury (uno dei chiodi fissi della label di Pavkovic) e certe armonizzazioni a la Crosby, per quanto riguardo a certi passaggi non pare fuori luogo tirare in ballo anche Stratos, rendedno un ottimo servizio alla scrittura di Bledo.
La breve Into The Spirals si sviluppa attorno ad una jam improvvisata del basso e della batteria su cui il titolare si destreggia all’insegna di un fruibile jazz rock.

Paolo Crazy Carnevale

STEVEN GRAVES – All Alone

di Paolo Baiotti

29 gennaio 2022

zz Steven Graves All Alone

STEVEN GRAVES
ALL ALONE
Steven Graves 2021

Californiano di Santa Cruz, Steven ha esordito nel 2010 con Make A New World, proseguendo a incidere con regolarità fino a All Alone, nono album registrato durante la pandemia da solo (da qui il titolo), ma con l’aiuto seppur da remoto della sua band formata da Travis Cruse alla chitarra, Robert Melendez al basso, Bryant Mills alla batteria e Russel Kreitman alle tastiere, nonché con la partecipazione di una sezione fiati, di numerosi coristi, di alcuni session men locali e di Doug Pettibone (Lucinda Williams, Marianne Faithfull, John Mayer) all’elettrica e pedal steel. Come sempre i testi di Steven affrontano temi di attualità e sociali con una vena di ottimismo, molto importante in tempi difficili e confusi come quelli che stiamo vivendo.
Dotato di una voce in grado di giocare su toni più o meno alti e di una scrittura autentica e sincera che lo pone al confine tra il cantautorato folk-rock e l’Americana, Graves parte con l’animato up-tempo Lonely Night venato di sapori caraibici, seguito dalla corale Love Conquers Fear, incitamento a superare le paure anche nei periodi problematici. e da Fire, traccia scorrevole e ritmata scritta durante gli incendi che hanno imperversato in California, con un suono che ricorda i Grateful Dead più leggeri, una delle passioni dell’artista che ha fatto parte del circuito delle jamband, essendo molto apprezzato dall’ex pubblicista del gruppo Dennis McNally. La reggata Angel Came From Heaven e il folk-rock Rita con la fisarmonica di Art Alm completano un quintetto di brani di buon livello, molto promettenti.
Nella parte centrale Steven inserisce tracce più leggere e soft, anche troppo, come You’re The One, l’errebi All Alone e So Far Away (dedicata alla madre) che annacquano l’impatto del disco. Si prosegue con l’errebi jazzato Always Here un po’ alla Steely Dan e con la frenetica I Can Be Free, mentre Rise Together è un mid-tempo che richiama gli Eagles più easy. Dopo qualche alto e basso la chiusura è affidata al roots-rock Sitting Bull con un testo sui torti subiti dai Nativi Americani e sulla necessità di superare le divisioni e alla divertente Good People con il sax di Armen Boyd e una chitarra molto vitale.

Paolo Baiotti

KALINEC & KJ – Let’s Get Away

di Paolo Baiotti

29 gennaio 2022

kalinec

KALINEC & KJ
LET’S GET AWAY
Berkalin Records 2021

Brian Kalinec è un cantautore folk di Beaumont, residente a Houston. Paragonato a Woody Guthrie, Jim Croce e Rodney Crowell, già presidente della Houston Songwriters Association, coproduttore per anni del Sonny Throckmorton Songwriter’s Festival, ha partecipato a numerose manifestazioni e festival ottenendo importanti riconoscimenti non solo locali. Ha esordito discograficamente nel 2007 con Last Man Standing seguito qualche anno dopo da The Fence.
KJ Reimensnyder-Wagner, originaria della Pennsylvania, dotata di una voce pulita e cristallina, ha imparato a suonare la chitarra a dodici anni. Ha inciso numerosi cd, alcuni dedicati al mondo dei bambini, delle fattorie (Proud To Be A Farmer, Farms Food & Fun) e dell’agricoltura (Agriculture is a Big Word). Inoltre, lavorando in ambito motivazionale, ha viaggiato non solo negli Stati Uniti, ma anche in Scozia che considera la sua seconda casa.
Brian e KJ si sono incrociati casualmente durante un concerto di Brian nel 2013. In breve hanno deciso di formare un duo di Americana/folk che ha girato soprattutto in Texas, Colorado e nel nord est del paese, fino alla pubblicazione del primo disco in comune, Let’s Get Away, registrato ai Lucky Run Studios di Houston.
Accompagnati dal basso di Rankin Peters, dal prezioso violino di Jeff Duncan e dalle percussioni di Tyson Sheth i due hanno inciso dieci tracce che rientrano in pieno in ambito folk, con le voci che si alternano alla solista e nei cori tanto da sembrare nate per fondersi, creando melodie soffici e orecchiabili. Dall’allegra atmosfera di Let’s Get Away e di Reach Out all’inserimento delle cornamuse nella sentita Home In Scotland, dalla nostalgica Where Do Old Lovers Go all’Americana di I Don’t Know, dalla malinconica ballata When You Say Nothing At All (unica cover dell’album) alla sofferta On This Winter’s Eve il disco scorre veloce seppur ricalcando schemi già conosciuti e lasciando un sentore di serenità che, in questo periodo, è molto gradito.

Paolo Baiotti

PAUL KAPLAN – We Shall Stay Here

di Paolo Baiotti

26 gennaio 2022

kaplan

PAUL KAPLAN
WE SHALL STAY HERE
Old Coat Music 2021

Paul Kaplan si può definire un veterano del cantautorato americano. Una delle sue prime canzoni, I’ve Been Told del ’66, si trova sul sito dello Smithsonian Folkways, altre contro la guerra in Vietnam sono state pubblicate sulla rivista Broadside. Nel corso degli anni lo hanno reinterpretato artisti come Paul Messengill, Jay Ungar, Molly Mason e Sally Rogers e hanno speso opinioni egregie su di lui Pete Seeger e Tom Paxton. Per lungo tempo ha lasciato il mondo musicale per insegnare musica nella scuola pubblica (ora a Springfield) e per occuparsi della famiglia, ma non ha mai smesso di scrivere. Il suo primo album solista Life On This Planet è dell’82 seguito tre anni dopo da King Of Hearts, da un disco nel ’94 e da altri due nel nuovo millennio. Inoltre negli anni settanta ha prodotto dischi postumi di Phil Ochs per la Folkways, per due decenni ha presentato un “open mic” mensile ad Amherst dove risiede e ha fatto parte del gruppo The Derby Ram che aveva un ingaggio come gruppo fisso alla Eagle Tavern di New York.
We Shall Stay Here, realizzato durante la pandemia con la collaborazione in remoto di numerosi artisti tra i quali il grande Jay Ungar al mandolino e violino, Molly Mason al basso e un gran numero di contributi ai cori nonché con il decisivo aiuto di Mac Cohen che ha inciso le parti vocali e di chitarra di Paul raccogliendo le tracce digitali degli altri musicisti, si può definire un riassunto della sua storia diviso in tre parti: la ripresa di tre canzoni altrui con dei nuovi testi adeguati al periodo che stiamo vivendo, la riproposizione di tre brani dal suo primo album mai pubblicati su cd e sei canzoni nuove o rifatte con testi aggiornati su temi sociali.
Le prime tre sono la filastrocca folk Little Boxes famosa nella versione di Pete Seeger, la nostalgica These Are The Days, rifacimento dello standard Those Were The Days di Gene Raskin (la cantò in italiano Gigliola Cinquetti) con un tocco di ironia nel testo sul Covid e il mandolino di Jay Ungar e il classico The Frozen Blogger (Logger nella famosa versione dei Weavers). I brani tratti dal disco dell’82 sono la title track Life On This Planet, scorrevole traccia folk con i controcanti di Robin Greenstein, la latineggiante Traffic Jam in the Zocalo e la love song We Shall Stay Here dedicata alla compagna Lisa.
Tra le altre sei canzoni spiccano la dolente The Voice Of Pete, scritta in onore di Pete Seeger, If I Had Half an Acre con l’espressivo violino di Ungar e la drammatica Survival con un accompagnamento minimale di percussioni in cui si inserisce il sax doloroso di Frank Newton. Chiude il disco After The Fire, traccia corale affidata alle voci del coro della Leverett Community.

Paolo Baiotti

ACE OF CUPS – Sing Your Dreams

di Paolo Crazy Carnevale

23 gennaio 2022

ace of cups

Ace Of CUps – Sing Your Dreams (High Moon 2020)

Se avevate pensato che le nonnette di San Francisco reduci dalla Summer of Love e debuttanti con un primo doppio vinile nel 2018 avessero voluto togliersi uno sfizio per poi tornare a sferruzzare o occuparsi dei nipotini, eravate in fallo.
Mary Simpson, Diane Vitalich, Denise Kaufman, Mary Gannon e Dalis Craft ad un paio d’anni di distanza si sono tolte lo sfizio per la seconda volta, con un nuovo disco, singolo stavolta che segue più o meno la ricetta del precedente col risultato di consegnarci un altro piacevolissimo prodotto in cui sotto la guida di Dan Shea (produttore, tastierista, polistrumentista che sedeva in cabina di regia anche nella produzione del 2018) assemblano una nuova dozzina di canzoni firmate dalla Kaufman, talvolta con l’aiuto della Gannon.

Sing Your Dreams ci ricorda quanto siano ancora vitali queste signore e quanta sia la loro voglia di stare insieme e fare musica ora che con l’età l’impegno come madri si è fatto meno pressante.

Il CD si apre con il corposo blues Dressed In Black in cui la Simpson e la Vitalich si dividono le parti vocali oltre che occuparsi una della chitarra elettrica e l’altra della batteria, ospite alla slide c’è Steve Kimock, a testimonianza del fatto che anche in questo disco la comunità musicale della Frisco storica non ha esitato a correre in aiuto delle cinque signore, anche se in questo disco hanno cercato di fare il più possibile le cose da sole. Jai Ma è un brano solare, di quel sole tiepido che aveva scaldato l’estate del 1967, una composizione ricca di ritmo grazie al grande dispiego di percussioni schierato dalla famiglia Escovedo al completo, con la mitica Sheila E. in testa. Le cinque Ace Of Cups provvedono alle voci e di nuovo c’è Kimock alla chitarra.

In Put A Woman In Charge le cinque ex ragazze fanno tutto da sole, dimostrando che gli ospiti sono solo un lusso che si vogliono concedere, ma che potrebbe anche non essercene bisogno, non c’è neppure il producer in questo brano dalle solide atmosfere rock. Poi tutto rallenta e la Kaufman sfodera una ballata intitolata Sister Ruth, un’altra storia al femminile come è lecito aspettarsi da un gruppo così, guidata dal piano di Jason Crosby e dall’organo di Shea, con l’armonica soffiata dall’autrice.

Basic Human Needs è firmata da Wavy Gravy, personaggio storico della Frisco psichedelica e solare coeva delle Ace Of Cups, è lui stesso ad occuparsi della voce solista mentre le ragazze forniscono un minimale accompagnamento strumentale e ordiscono, con qualche amico, una base corale che ricorda le “cose africane” di Paul Simon; minimale anche la base di I’m On Your Side composta e cantata dalla Gannon, uno swing con clarinetto e ukulele e batteria spazzolata dal produttore, non tra i brani migliori del disco.

Gemini ripercorre sentieri venati di psichedelia, Shea tira fuori mellotron, Farfisa e altre cose d’epoca per rivestire questa bella composizione d’un sapore antico che si sviluppa su un ritmo che ricorda i vecchi Jefferson Airplane, ma le voci delle Ace Of Cups differiscono come impostazione da quella della Slick e le tastiere nei Jefferson non c’erano, nel finale abbiamo una parte recitata dall’attore amico di lunga data Peter Coyote. Gli anni sessanta si sprigionano anche nella seguente Boy, What’ll You Do Then, un’altra canzone suonata senza alcun ospite e senza Shea, con una grande performance alla voce e all’armonica della Kaufman, autrice del brano. Assolo di chitarra molto anni settanta di Michael J. Manning su Little White Lies, composizione energica cantata dalla Vitalich con un refrain accattivante.Seguono altre due canzoni, la prima senza guest stars e la seconda col solo Shea ospite al Wurlizer, segno dell’indipendenza delle cinque titolari: Waller Street Blues è un solido blues con ampi riferimenti nel testo al movimento hippy e al passato del gruppo, con un devastante spettacolare assolo di armonica della Gannon che è autrice e voce solista; Lucky Stars ci offre invece la possibilità di ascoltare la voce e la chitarra della Simpson, delle cinque quella con la voce più drammatica, il brano è ottimo e la Simpson, che ne è coautrice con la Kaufman sfodera una serie di soli di chitarra molto azzeccati.

Il disco si conclude col medley Slowest River/Made For Love, la prima parte vede duettare alle voci la Kaufman e Jackson Browne e il risultato non poteva che essere felicissimo, Jason Crosby suona il piano, la base strumentale è quasi in punta di piedi, poi parte la seconda parte col coro che ripete il titolo e la Kaufman che recita il testo. La Simpson si occupa di tutte le chitarre mentre Shea ci mette l’Hammond B3, il coro è opera della Simpson , della Vitalich, della Gannon, della Craft e di tre insospettabili amici blasonatissimi: Browne, Bob Weir e David Freiberg, meglio di così il disco non poteva terminare.
Bravissime!

Paolo Crazy Carnevale

ANNULLATA LA FIERA DEL DISCO DI SAN VITTORE OLONA

di admin

8 gennaio 2022

Contrariamente a quanto annunciato qualche giorno fa, la Fiera di San Vittore Olona è stata annullata.

Sarà nostra premura annunciare eventuali altre date.

L’anno Vinilico e CDlico inizia a San Vittore Olona, il 9 gennaio.

di admin

5 gennaio 2022

san vittore olona

Tutti i dettagli nella locandina

Obbligatori green pass e mascherina FFP2

Francesco Piu & The Groovy Brothers – Live In France

di Paolo Crazy Carnevale

4 gennaio 2022

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Francesco Piu & The Groovy Brothers – Live In France (Appaloosa/IRD 2021)

A tre anni dall’inarrivabile The Cann’O Now Sessions, live anomalo registrato nella natia Ichnusa, torna, sempre su etichetta Appaloosa, il chitarrista Francesco Piu. Anche stavolta si tratta di un disco dal vivo, un disco che, con l’eccezione di qualche brano, è comunque parecchio diverso dal predecessore, soprattutto a livello concettuale. Stavolta al posto della Peace & Groove Band ci sono i Groovy Brothers e la sottile analogia nel nome del gruppo suggerisce comunque un approccio musicale pepace e grintoso: ma se il precedente era un live studiato a tavolino tutto fatto con musicisti nativi della medesima isola, questo è invece la documentazione di un concerto vero e proprio catturato, come il titolo suggerisce, in Francia, a Sens, lo scorso settembre. Il gruppo stavolta è un quartetto completato da Roberto Luti alla chitarra elettrica (mentre Piu si occupa dell’acustica), Davide Speranza all’armonica e Silvio Cantamore che si occupa di batteria e cose elettroniche: il risultato è un disco vivo e scalciante col quartetto in forma smagliante, dominato dalla costante spinta in avanti delle esecuzioni che si dividono tra brani autografi (che Piu ha composto col conterraneo Salvatore Niffoi) e classici del genere.

Il disco si apre con Down On My Knees, brano originale, seguito da una cover di Jesus On The Mainline molto più veloce di quella più nota eseguita da Ry Cooder. Gotta Serve Somebody è naturalmente il brano di Bob Dylan a cui Piu e soci tolgono l’abito gospel per rivestirlo di funky sferragliante lasciando spazio ad assoli individuali dei musicisti. Trouble So Hard è un lungo brano gospel di Vera Hall che appariva anche nel disco precedente qui caratterizzato dal dialogo tra chitarra acustica ed elettrica, You Feed My Soul proviene anche dal predecessore e riporta in scena il groove funky.

Overdose Of Sorrow è quasi acustica, sorretta dalle percussioni che si sostituiscono alla batteria e la chitarra acustica più in evidenza che altrove, mentre il funk torna con In The Cage Of Your Love; il brano tradizionale Black Woman, invece, si divide tra una prima parte molto essenziale ed un finale in chiave hendrixiana con le chitarre infuocate. Mother ha un feeling sudista che ricorda certe ballate dei Lynyrd Skynyrd o dell’Allman Brothers Band, quei brani lenti, con molta slide e lunghe introduzioni per intenderci, Piu canta con il giusto approccio e il dipanarsi della composizione in una cavalcata che supera gli otto minuti che fa il resto.

Riff alla Hendrix anche per Hold On con l’armonica in bella vista, prima della conclusione affidata ad una rivisitazione della Trouble No More di Muddy Waters a cui Piu e compari riservano un arrangiamento galoppante e dilatato che lascia spazio per assoli individuali che sfociano nel caloroso applauso del pubblico gallico.

Paolo Crazy Carnevale