Archivio di giugno 2012

Ragazzi, fate come Neil Young!

di Roberto Anghinoni

26 giugno 2012

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Sta usando l’MP3? Ha un Ipod? Sta scaricando abusivamente? E’ sul web a rincoglionirsi?

No, cari amici, il nostro amato Vecchio Bisonte si sta sporcando i polpastrelli come ogni essere umano degno di questo nome!

Sta godendo del piacere di aprire una copertina e di leggere i testi, ha ancora voglia di sorprese e le cerca in un negozio di dischi, dove ancora circola un po’ di umanità consapevole.

Se proprio abbiamo bisogno di un modello esistenziale, facciamo come il vecchio Neil Young. Lui sa come si fa.

Musica per vecchi boscaioli

di Marco Tagliabue

21 giugno 2012

Registrato interamente in presa diretta in quel di Sidney, lungo il misero arco di ore di un singolo rovente pomeriggio, The Axeman’s Jazz, opera prima di abbagliante bellezza degli australiani Beasts Of Bourbon, è uno di quei dischi attraverso i quali si tramanda l’essenza stessa della musica di cui, ancora oggi, qualcuno vorrebbe incolpare il demonio: quel legame che unisce indissolubilmente la fisicità di un suono, la sua percezione quasi tattile, all’elettricità che contagia l’intero corpo a partire da un piede che batte il ritmo; un vigore che continua a turbinare anche nel cervello, che riconcilia con la vita anche a un passo dal baratro alimentando una insaziabile sete di ricerca per addivenire a nuova linfa: il rock, in una parola, quella malattia che, anche in tempi di maturità vera o presunta, continua a resistere a qualsiasi antibiotico e a qualsiasi cura.
Diretta emanazione del blues sporco e malato di Cramps, Gun Club e Birthday Party, nipotini degeneri di Rolling Stones e Captain Beefheart, i Beasts Of Bourbon nascono un po’ per gioco nel 1983, una sorta di supergruppo ideato inizialmente come side project dai propri membri e assurto giocoforza a progetto principale solo qualche anno più tardi, nel 1988, con la pubblicazione dell’ottimo Sour Mash, dopo un esordio, questo, che si dimostra fin dall’inizio inequivocabile fondamenta della nascente babele dell’ aussie-rock.
Blues si è detto, e profondamente blues è l’anima che pervade il disco dal primo all’ultimo solco, un blues già perfettamente memore della lezione del punk, che trova negli sguaiati pub di periferia, dove l’alcool si misura a litri e il fumo si abbatte a colpi di machete, il terreno più fertile per il suo irrefrenabile contagio.
Molte le anime che attraversano il lavoro, uno solo il segno che le accomuna e le sospinge nella stessa direzione.
Si parte con Evil Ruby, ballata elettrica dal piglio vagamente stonesiano, e il ghiaccio è rotto dopo poche battute: con le temperature che iniziano a svilupparsi non sarebbe del resto pensabile altrimenti…; Love & Death è uno splendido blues lento e malato, retto da un giro di basso e dagli eccitanti gemiti di due chitarre, con Grave Yard Train proseguiamo nella stessa direzione, addentrandoci nel cuore della foresta, verso la sorgente del suono più (im)puro, mentre Psycho, già edita su singolo, è una ballata davvero trascinante ed emozionale di stampo quasi fifties.
Drop Out aumenta un po’ la tensione grazie ad un travolgente e sguaiato riff di chitarra, mentre in Save Me A Place esce allo scoperto un po’ di cattiveria insieme ad una voce sofferta come non mai; Lonesome Bones, sempre più ostaggio delle dodici battute, è ideale preludio a The Day Marty Robbins Died, fra i capolavori dell’album, ballata lenta, magica e solenne, introdotta e sostenuta da uno splendido giro di chitarra. A Ten Wheels For Jesus, infine, il compito di chiudere con ritmi più folli e convulsi, e una contagiosa chitarra voodoobilly, un album davvero travolgente ed indimenticabile.
Indimenticabile per chi, da lezioni come questa, ha tratto spirito ed energia per ridere di tutte le morti del rock decretate, con impressionante e regolare cadenza, dalla corrente o dal giornale trendy di turno; per chi, in preda a questi spasimi, si è fatto latore di un sogno, lo stesso fra i grattacieli di Sidney, le spiagge della California o le risaie della bassa Padana ed intorno ad esso ha plasmato la propria esistenza, riuscendo a resistere, nelle diverse situazioni, grazie ad un pizzico di follia nel metodo o, viceversa, ad un pizzico metodo nella follia. Per chi, insomma, ha iniziato allora ad ammalarsi e ringrazia il cielo di non essere ancora guarito.

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/17

di admin

6 giugno 2012

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SLIVOVITZ – Bani Ahead (Moonjune, 2011)

Il nome del gruppo fa venire subito in mente un distillato molto alcolico di provenienza balcanica, che poco sembra avere a che fare con la provenienza geografica dei suoi sette componenti. Slivovitz è infatti il nome di un gruppo partenopeo che nato nel 2001 ha già al suo attivo diverse pubblicazioni e con questo disco pubblicato nello scorso settembre dalla Moonjune pare intenzionato a esportare il proprio jazz-rock, già apprezzato in patria e in Europa, al di là del mare: sono infatti previsti concerti in Sudamerica e Stati Uniti.  Ma se la provenienza dei musicisti può trarre in inganno, la musica è invece riconducibile alla scelta del nome: con un organico assai vario che oltre agli strumenti più classici del genere include anche violino e armonica, gli Slivovitz danno una propria originale e piacevole visone di un genere che affonda le proprie origini in anni, ahimè, distanti.  Bani Ahead è un disco che partendo da una prospettiva legata a certo jazz-rock delle origini – ci sono echi zappiani, ma anche (e trovandoci in casa Moonjune c’era da aspettarselo) del Canterbury sound – si evolve puntando verso sonorità legate alle tradizioni etniche del Mediterraneo meridionale e dei Balcani.  Non è un caso che la casa discografica newyorchese abbia deciso di puntare ancora su di loro dopo che il precedente cd del gruppo aveva raccolto unanimi buoni consensi un po’ ovunque.  I titoli dei brani Egiziaca e Cleopatra Through, entrambi composti dal sassofonista Pietro Santangelo, sembrano accomunati da una passione per l’antico Egitto, Opus Focus si tinge di colori rilassanti, mentre forse, il brano migliore è proprio quello che intitola il disco, particolarmente ricco di sonorità che riconducono ad una lettura di certi temi che ricordano Moni Ovadia e Bregovic , rivisto naturalmente in un’ottica più orientata verso il jazz-rock, con inserimenti strumentali ben definiti ed un drumming efficacemente energico e sostenuto.

Paolo Crazy Carnevale

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AA. VV. – Musiche per viaggiatori distratti (Banksville, 2011)

Un bel progetto questo disco prodotto dalla piemontese Banksville Records: si tratta di una raccolta di brani inediti e non il cui nobile intento è raccogliere fondi per l’associazione GiùLeManiDaiBambini, una onlus che si occupa di disagi dell’infanzia.  All’operazione hanno aderito il produttore Paolo Baltaro, sia in solitudine che con i SADO – gruppo deconstruzionista di cui fa parte – il bluesman argentino Gabriel Delta, la cantante italiana Emma Re, il bassista Pier Michelatti (collaboratore di De André), i partenopei Slivovitz e Fabrizio Consoli.  Il disco si apre con una bella rilettura di The Kids Are Alright eseguita da una allstar band che comprende molti degli artisti coinvolti. Una cover per nulla scontata e caratterizzata dalle belle voci che la interpretano. I due brani degli Slivovitz sono tratti dalla loro ultima fatica pubblicata dalla Moonjune, recensita a parte, mentre i due grintosi contributi dell’argentino Delta sono tutt’ora inediti. Belle anche le due prove di Paolo Baltaro e tra quelle dei SADO spicca il medley di Santana riletto ad hoc fin quasi a diventare un brano originale.  Emma Re si distingue per la sua voce particolare, mentre la cover della Canzone di Marinella ad opera di Pier Michelatti e del progetto Caro Faber, per quanto ineccepibile dal punto di vista dell’esecuzione, non aggiunge nulla alle numerose che già si conoscono sia per l’interpretazione che per l’arrangiamento.  In definitiva un disco positivo e apprezzabile, anche per la sua estrema varietà sonora.

Paolo Crazy Carnevale

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STRYPER –  Murder By Pride   (Frontiers, 2009)

Gli Stryper sono un gruppo Americano formatosi all’inizio degli anni ’80  considerato come il principale portavoce del cosiddetto Christian-metal, un hard rock con testi votati però al Cristianesimo, protesi a tessere le lodi al Signore ed a diffonderne il messaggio anche presso un pubblico non certo di chierichetti ed educande.  Il loro nome è preso infatti da un verso della Bibbia (Isaia 53:5) ed è anche acronimo per “Salvation Through Redemption, Yelding Peace, Encouragement and Righteousness”.  Famoso per lanciare delle Bibbie al pubblico durante i concerti, il gruppo dei  fratelli Michael (voce e chitarra) e Robert (batteria) Sweet, completato dall’altro, ottimo, chitarrista Oz Fox e dal bassista Tim Gaines ha pubblicato nel corso degli anni ottanta alcuni validi album di hard rock, come l’esordio The Yellow And Black Attack e To Hell With The Devil.  Come molti altri gruppi loro contemporanei hanno però patito molto l’avvento del giunge all’inizio degli anni novanta, finendo per sciogliersi.  Molto piacere ai loro estimatori aveva fatto quindi il loro ritorno sulle scene nel 2005 con il discreto Reborn, bissato nel 2009 da questo ottimo Murder By Pride.  Smesse le ridicole ed invero imbarazzanti tutine giallo-nere degli esordi, che facevano tanto Ape Maia, e che avevano portato loro gli sfottò del grande ed irriverente Dave Mustaine, i nostri quattro sono tornati a calcare i palcoscenici con un buon successo ed una serie di brani pregevolissimi e dal forte impatto melodico.  In realtà la scelta cromatica era dovuta al fatto che negli States il giallo ed il nero sono i colori usati lungo le strade come avvertimento e per attirare l’attenzione della gente, quindi per il gruppo sono una metafora, come per richiamare l’attenzione contro il peccato ed alla ricerca della redenzione. Sicuramente meritevoli di rispetto; ciò non toglie che quelle tute erano francamente orribili.  Torniamo comunque al presente per parlare di Murder By Pride.  Trattasi di album di moderno hard rock melodico, come si intuisce fin dai primi brani, le trascinanti Eclipse For The Sun e 4 Leaf Clover, dai ritornelli accattivanti e la ritmica possente.  Si prosegue con la cover energizzata, ma rispettosa dell’originale, di Peace Of Mind, dallo splendido debutto degli indimenticati Boston, scelta doverosa vista la militanza di Michael Sweet in quel gruppo per un periodo in sostituzione del compianto Brad Delp, e con la partecipazione di Tom Scholz alla chitarra.  Gli Stryper sono anche dei maestri nelle ballate, ed a dimostrazione di ciò troviamo alcuni pezzi da novanta come la dolcissima Alive dall’emozionante crescendo, oppure quello che è uno dei pilastri dell’album, la melodica ma al contempo grintosa I Believe, dal testo profondamente religioso e dal ritornello immediatamente memorizzabile. Un vero gioiellino (per gli amanti del genere, ovviamente).  Si va avanti  fino alla conclusione con ottimi brani sia più potenti, come la title track o The Plan, ed altri più tranquilli come le mid-tempo Run In You e Love Is Why, per arrivare alla bonus track, quella piccola perla di ballata pianistica che è My Life, My Love, My Flame composta da Michael Sweet per l’adorata moglie, comparsa a causa di un male incurabile pochi mesi prima della realizzazione dell’album, ed alla quale Michael rivolge un’accorata e commovente dedica nel libretto del CD.  Un gradito ritorno quindi, un album da avere, altro grande lavoro uscito per la nostrana Frontiers.

Gianfranco Vialetto

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MAGNUM -  Princess Alice & The Broken Arrow     (Steamhammer/SPV,  2007)

I Magnum sono uno dei gruppi di punta di un certo tipo di melodic hard rock ai confine con l’Aor made in U.K.  Attivo fin dagli anni settanta, il loro debutto risale al 1978,  il gruppo è composto dal chitarrista Tony Clarkin, autore di tutti i brani, dell’ottimo vocalist Bob Catley e del tastierista Mark Stanway (un passato trent’anni fa anche nei Grand Slam, ultima formazione del grande Philip Lynott prima della tragica scomparsa), completati dalla sezione ritmica formata dal bassista Alan Barrow e dal batterista Jimmy Coplay (oggi sostituito da Harry James). I nostri vantano una serie di album amati da tutti i cultori del genere, primi fra tutti On A Storyteller’s Night del 1985 e Wings Of Heaven del 1988. Album però leggermente troppo pomposi e sovrarrangiati per le mie orecchie. Decisamente più “sobrio”, e sottolineo le virgolette, questo Princess Alice & The Broken Arrow, pubblicato nel 2007 dall’etichetta tedesca Steamhammer/SPV.  Il lavoro si apre con When We Were Younger splendida cavalcata con un pregevole solo di chitarra pizzicata. L’anima del gruppo è senza dubbio il pelato chitarrista Tony Clarkin e ne abbiamo dimostrazione un po’ in tutti i brani, impreziositi da ottimi passaggi alla sei corde. Ideale spalla del chitarrista è il biondo Bob Catley, voce molto ben impostata e duttile, come si può sentire nella pregevole ballata Like Brothers We Stand.  Il gruppo di Birmingham è dotato anche di un certo appeal radiofonico, ascoltiamo al riguardo la spigliata Dragons Are Real e la ballata pianistica Inside Your Heart.  Thank You For The Day ha un sentore che mi ricorda vagamente Sweet Home Alabama in versione Aor (e non me li vedo proprio gli Skynyrd con questo genere musicale, piuttosto forse i 38 Special); ad ogni modo è molto piacevole. Your Lies potrebbe far parte del repertorio dei Rainbow periodo con Joe Lynn Turner al microfono.  La mia preferita del lotto è comunque Desperate Times, che mi piacerebbe sentire interpretata e riarrangiata dal grande Bob Seger, anche se siamo anni luce di distanza a livello di proposta musicale. I funghi nel risotto questa sera effettivamente avevano un gusto un pochino strano. Scherzi a parte questa canzone è davvero bella. Si conclude con You’ll Never Sleep, pezzo molto ritmato ma con allo stesso tempo una vena di dolcezza e con l’immancabile assolo di chitarra del leader Tony Clarkin.  Un’ultima nota per la copertina, affidata, come per molti altri loro album, ai disegni particolari e pregevoli di Rodney Matthews.  Probabilmente il loro lavoro migliore, se volete qualcosa di questo gruppo iniziate da qui.

Gianfranco Vialetto

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AA.VV.  – Spin The Bottle – An All Star Tribute To Kiss  (Koch Records, 2004)

Quella degli album tributo è una moda dilagata negli ultimi anni. Molti sono gli artisti che sono stati “omaggiati” con cover più o meno riuscite in album dedicati alla loro carriera.  Non fanno eccezione i Kiss, storica band Newyorkese, e fra i vari tribute album sulla loro quasi quarantennale produzione discografica ci occupiamo di questo Spin The Bottle.  Curato da Bob Kulick, che è stato in predicato di far parte del gruppo fin dagli esordi (gli è stato invece preferito Ace Frehley), nonché fratello di Bruce che invece è stato nella band per dodici anni, l’album prende in esame solo brani registrati dalla formazione originale, quella composta da Stanley/Simmons/Frehley/Criss.  Altra particolarità sta nel fatto che per le cover sono stati contattati solo artisti che in qualche modo hanno avuto a che fare col gruppo, vuoi in veste di ospiti, piuttosto che di “ghost player” in alcuni lavori (sappiamo tutti ad esempio che nell’album, peraltro ottimo, Creatures Of The Night, il chitarrista Ace Frehley compare nei credits e nella foto di copertina, ma non suona in quasi nessun pezzo) oppure perché hanno aperto come support band i concerti dei nostri quattro mascherati.  Le versioni, tutte abbastanza fedeli all’originale, sono suonate da gruppi estemporanei, formati per l’occasione da musicisti, alcuni anche molto famosi di area hard/metal/Aor. E’ un vero parterre di stelle che comprende, fra gli altri, e ne cito solo alcuni a caso, Lemmy Kilmister dei Motorhead, Marco Mendoza (Whitesnake, Thin Lizzy e Ted Nugent Band), Dee Snider (Twisted Sisters), Tommy Shaw (Styx), Steve Lukather e Mike Porcaro (Toto), Buzz Osbourne (Melvins), Robben Ford, Vinnie Colaiuta, Carmine Apice, Aynsely Dunbar, Kip Ginger, C.C. Deville (Poison) e Mike Inez (Alice In Chains) e per chi si intende solo un pochino di hard rock sono nomi che non necessitano di alcun commento di presntazione.  Ecco allora scorrere Detroit Rock City da quello che, a mio parere, è il loro album migliore, Destroyer del 1976, e che è anche il più rappresentato, in cui giganteggia la chitarra di Doug Aldrich dei Whitesnake; Love Gun con Tommy Shaw, il sempre grande Steve Lukather e Tim Bogart, Cold Gin con la chitarra di Robben Ford, King Of The Night Time World, I Want You con la funambolica sei corde del Mr. Big Paul Gilbert. Le chitarre dei fratelli Bruce e Bob Kulick compaiono rispettivamente in God Of Thunder e Parasite. Il basso e l’inconfondibile voce dell’inossidabile Lemmy, accompagnato da un duo femminile formato da Jennifer Batten (Michael Jackson) e Samantha Maloney (Hole e Eagles Of Death Metal), trasformano Shout It Out Loud in un brano dei Motorhead. La sempre bella e trascinante Strutter vede invece alla chitarra l’axeman dei Guns n’ Roses Gilby Clarke ed il vocalist, ex L.A. Guns e Girl (con Phil Collen ora nei Def Leppard) Phil Lewis.  In sostanza un album divertente, ben suonato e perfetto per essere ascoltato in auto o per fare air guitar in casa, perfetto riconoscimento ad un gruppo ingiustamente snobbato da certa stampa e certo pubblico snob e con la puzza sotto il naso.  A proposito, qualcuno ha il numero di telefono della modella che impreziosisce la copertina e soprattutto le pagine interne del libretto?

Gianfranco Vialetto

L’infinito. E oltre…

di Marco Tagliabue

4 giugno 2012

Quando provieni da una terra sperduta, la città di Perth sull’estrema costa settentrionale del nuovissimo continente, 650.000 anime in isolamento assoluto a circa duemila chilometri dalla città più vicina, Adelaide, certe cose te le porti dentro tutta la vita e sai che anche dopo resteranno sempre lì ad aspettarti. Distanze che sembrano incolmabili davanti a te, sulla tavola blu dell’Oceano, e dietro le tue spalle, fra deserti aridi e pianure assolate e desolate che non lasciano intravedere l’orizzonte. Born Sandy Devotional è il disco che cerca di colmare questi spazi con dieci brani di grande impatto scenico: melodie ariose ed avvolgenti, atmosfere oniriche e maestose, impianti sonori di grande respiro caratterizzati da una forte presenza delle tastiere o da misurati arrangiamenti orchestrali. La voce di David calda, sofferta, suadente pervasa da un filo di malinconia sottile. La depressione sembra essere lì a due passi, sembra uno sbocco inevitabile, ma alla fine è soprattutto l’ironia a guidare la sua penna, a scovare personaggi e situazioni da quell’universo di amanti, vagabondi e truffaldini che sembra frequentare sin dai calzoni corti.