Archivio di agosto 2021

LUCINDA WILLIAMS – Runnin’ Down A Dream/Southern Soul

di Paolo Crazy Carnevale

29 agosto 2021

cover

LUCINDA WILLIAMS
Runnin’ Down A Dream: A Tribute To Tom Petty/Lu’s Juke Box Vol.1 (Thirty Tigers 2021)
Southern Soul: From Memphis To Muscle Shoals/Lu’s Juke Box Vol.2 (Thirty Tigers 2021)

È ormai risaputo che durante i lunghi mesi di fase acuta della pandemia, molti artisti hanno cercato di inventarsi soluzioni alternative all’impossibilità di andare in tour a guadagnarsi la pagnotta (parliamo di artisti i cui introiti non consentono di starsene in panciolle a godersi i proventi di una carriera di successo). Qualcuno si è dilettato in concerti casalinghi, pensiamo alle discutibili session intorno al caminetto del bisonte canadese ( anche se lui problemi economici non dovrebbe averne!),alle spoglie esibizioni in salotto dell’ex Byrd John York, alle simpatiche (ma caspita sono sempre gli stessi brani!) escursioni sonore di John Fogerty e figli; qualcun altro ha fatto dei veri e propri concerti senza pubblico (imperdibili quelli della Tedeschi Trucks Band), altri ancora – ed è il caso di Lucinda Williams – invece del solito concerto hanno offerto registrazioni tematiche che ora stanno diventando una serie di CD di cui questi sono solo i primi due.

Un tributo a Tom Petty ci voleva. Non si discute. Pare strano che ancora nessun altro ci abbia pensato, anche se all’indomani della scomparsa del biondo Seminole di Gainesville in giro per gli Stati Uniti si erano tenuti diversi concerti in suo onore.

Lucinda è forse il personaggio più indicato per confrontarsi col repertorio di Petty, è una delle epoche artiste a possedere quell’indomito spirito rock’n’roll necessario alla bisogna. Certo l’informalità delle sessioni manca forse di quel pizzo di raffinatezza che Tom era in grado di infondere alla propria musica, ma l’urgenza del sound e la sua ruvidità garantiscono alla Williams il risultato. Accompagnata in questa serie di dischi dalla sua band e non dagli eccelsi turnisti che di solito usa nelle produzioni di studio, la cantante sfodera dodici brani di Petty ed un originale (a lui dedicato) che non sfigura al loro cospetto.

Il cantato di Lucinda graffia, morde, accarezza, coccola, penetra, convince e le sue versioni di classici senza tempo come Won’t Back Down, Runnin’ Down A Dream, una soffertissima Southern Accents e l’arcinota Wildflowers sono godibili come le riprese di brani meno celebrati come la cupa Face In The Crowd, Room At The Top e You Wreck Me e soprattutto un’ottima e dylaniana Down South che in origine Petty aveva relegato nel non eccelso Highway Companion, col risultato di essere stata dimenticata in fretta.

Accompagnata dalla stessa formazione (Stuart Mathis e Joshua Grange alle chitarre, Steve Mackey al basso e Fred Eltringham alla batteria), la Williams col secondo disco del suo Juke Box personale rende ulteriore omaggio alle proprie radici sudiste. Stavolta l’ago punta sulla musica nata tra le sponde dei fiumi Mississippi e Tennessee, la musica prodotta negli storici studi di McLemore Avenue a Memphis e in quelli ancor più celebrati di Muscle Shoals. Il disco, intitolato giustamente Southern Soul allinea una decina di standard totali e una composizione risalente al suo celebrato Car Wheels On A Gravel Road. Anche in questo caso il sound è molto compatto, non differente da quello del disco precedente, ma al tempo stesso – mentre a certe composizioni di Petty la Williams aveva conferito tonalità cupe – capaci di suonare con quel classico gusto sixties da cuori spezzati (e non è un gioco di parole col nome del gruppo di Petty) proprio di certa musica.

Curioso ad esempio come pur con l’assenza di ogni tastiera (che nelle musiche di riferimento era quasi d’obbligo suonata dai vari Spooner Oldham, Booker T o Barry Beckett) lo spirito si mantenga grazie alle evoluzioni delle due chitarre.

Si parte con la classicissima Games People Play e si procede con una meno nota ma bellissima You’ll Loose A Good Thing. Grande lavoro sul successo di Bobby Gentry Ode To Billy Joe (già eseguita altrove da Lu accompagnata dai Mercury Rev) qui con quasi sei minuti di durata con risultato da applausi. Buone versioni anche per I Can’t Stand The Rain (virata rock), per la soul ballad Misty Blue e Main Street Mission.

Personalissima la rilettura di Don’t Miss Your Water, più classica la bella It Tears Me Up firmata da Penn e Oldham, spettacolare la Rainy Night In Georgia di Tony Joe White seguita da una Take Me To The River notturna e ricca di groove che richiama lontanamente la versione che ne diedero i Talking Heads. Allestita alla bisogna ovviamente anche l’unica composizione firmata dalla rockeuse della Louisiana, Still I Long For Your Kiss, che aveva comunque già in nuce nell’originale del 1998 certe caratteristiche che l’arrangiamento “juke box” valorizza.

Paolo Crazy Carnevale

front

JAMES MADDOCK – Little Bird In The Neighbourhood

di Paolo Crazy Carnevale

26 agosto 2021

james maddock

James Maddock – Little Bird In The Neighbourhood (Appaloosa/IRD 2021)

James Maddock torna a colpire dopo la pausa coatta dovuta alla chiusura di tutto il globo a cui siamo sottoposti negli ultimi tempi, il nostro nell’ultimo lustro non ha mai mancato l’appuntamento annuale col disco, anche se a ben vedere questa assidua presenza nei negozi (virtuali o tangibili che siano) non è sempre foriera di uguale ed eccelsa ispirazione.

La clausura ha portato Maddock a maturare la manciata di canzoni che compongono questa sua nuova fatica che un po’ come quelle che l’avevano preceduta sta in bilico tra cose di pregio ed altre che non convincono a fondo.

Sicuramente la pandemia e la situazione generale in cui il mondo naviga, e non solo a livello sanitario, hanno contribuito all’introspezione che caratterizza il lavoro, ma delle undici tracce (dieci più una ghost track) che compongono questo Little Bird In The Neighborhood alcune sono proprio appena soddisfacenti, un po’ come quando i nostri genitori andavano a udienza e gli insegnanti dicevano: “suo figlio non s’impegna”.

Ecco, l’impressione generale è che James la stoffa ce l’abbia (ripeschiamo il suo disco del 2017, Insanity Vs. Humanity sempre su Appaloosa, ad esempio), ma non sempre la usi tutta.

Il disco si dipana tra brani ostici o misteriosi e storie sonore (le cose che gli riescono meglio).

Il Maddock migliore emerge quando tira fuori i suoi maestri e quando nelle sue canzoni racconta delle storie (anche senza raggiungere le punte del compagno di scuderia Michael McDermott): bene quindi l’apertura affidata alle atmosfere irish di The Pride Of Ashby De La Zouch, col violino di Steve Wickham che – via Waterboys – ci ricongiunge con Van Morrison, ispiratore dichiarato sia di James che dei Waterboys. Under The Milky Wood beneficia nell’arrangiamento del fondamentale flauto di Craig Dreyer, ma rispetto al brano precedente manca di sostanza nel testo. La title track è sorretta da un suono robusto, che è il biglietto da visita della successiva e più interessante Cry Jesus, sorretta da un organo possente in odore della migliore E-Street Band (sappiamo tutti chi sia l’altro eroe di Maddock, oltre al citato Belfast Cowboy). Convince meno la ripetitiva Coming Sorrow che precede la ballata Prairie Grave, pregevolmente arricchita da una bella slide (Scott Sharrad) che ricorda il Rod Stewart degli esordi in solitudine con a fianco il fido Ronnie Wood.

Il mandolino di David Immergluck è il marchio di fabbrica (presente un po’ in tutto il disco) della discorsiva Another Chance che ricorda il suono di Blonde On Blonde, senza brillare più di tanto, come This New Thing’s Getting Old e No Dancing.
Fuochi d’artificio invece per il brano finale Crystal Night, un brano springsteeniano fino al midollo, sin dall’apertura strumentale, un brano bello e importante anche nel contenuto lirico che sembrerebbe molto attuale visto che i riferimenti fanno pensare all’assalto al Campidoglio americano dello scorso gennaio, con ampi riferimenti alla Germania nazista.

C’è poi una ghost track dedicata a Diego Maradona, un brano con forti elementi di musica latina, che riporta alla mente i trascorsi cubani di Stephen Stills nei suoi dischi del 1975 e del 1976; probabile omaggio postumo al calciatore composto in extremis a disco già ultimato.

Una nota alla copertina, Maddock dovrebbe affidarsi ad altre immagini perché davvero la grafica scelta per i suoi album è tra le peggiori che si ricordino, e la colpa non è ovviamente dell’etichetta visto che è lui stesso a provvedere alle immagini da mettere davanti.

Paolo Crazy Carnevale

ASAF SIRKIS – Solar Flesh

di Paolo Crazy Carnevale

26 agosto 2021

Asaf Sirkis

Asaf Sirkis – Solar Flesh (Moonjune Records 2021)

Asaf Sirkis è un batterista israeliano titolare di molti progetti musicali sviluppatisi e realizzatisi in seno alla ricettiva casa discografica Moonjune: potremmo in qualche modo definirlo uno dei caposaldi dell’etichetta, in quanto componente di quella che è una sorta di open house band che collabora a molti lavori, al pari di Markus Reuter (il prezzemolino di turno, che però in questo disco non figura), l’americano Mark Wingfield (fedele collaboratore di Sirkis invece) e il britannico Gary Husband. Per non dir poi del fatto che il disco è stato registrato in Spagna in quello studio chiamato Casamurada che è senza dubbio il quartier generale dell’etichetta e dei suoi artisti.

Con questo lavoro Sirkis è protagonista, o quanto meno titolare a tutto campo e mette insieme un disco in cui sonorità prog/spaziali si sposano con più avventurose incursioni nella fusion jazzistica. Il risultato è un lavoro dalle sorti alterne, brani gioiosi a modo loro si mescolano a suite più cervellotiche ed elaborate, come abbiamo modo di ascoltare fin dalle due tracce iniziali: Kinship è una composizione di largo respiro nata dall’improvvisazione ma compiuta, tutta suonata da Sirkis con il tastierista Husband e il bassista Kevin Glasgow (più che scozzese, con questo cognome non poteva essere) a cui si aggiunge l’azzeccata voce della vocalist polacca Sylwia Bialas, già titolare con Sirkis di un progetto a due.

Per contro Under The Ice è più chiusa, più fredda, come se volesse davvero esprimere il concetto del “cosa c’è sotto l’Antartide?” espresso dal titolo. Pregevole per altro l’assolo di chitarra racchiuso nel brano (Wingfield?, le liner notes non indicano un chitarrista in questa composizione, ma anche nelle indicazioni riguardanti altri brani sembra esserci qualche dubbio).

È Wingfield sicuramente invece a suonare la sei corde in Aquila che precede la prima parte della suite in tre tempi intitolata Polish Suite, a caratterizzare questa prima parte sono la voce della Bialas e il pianoforte di Husband, poi nella seconda subentrano Sirkis e il bassista, pur lasciando parecchio campo agli altri due compari e alla chitarra dello statunitense e il brano finisce col srotolarsi in una serie di suoni complessi.

Tocca poi alla lunga composizione (For Eric)dedicata al batterista Eric Kamau Gravàtt, autentico ispiratore del leader che giustamente qui fa la parte del leone, nel brano viene usata anche la voce di Sun Ra, anche se la composizione decolla nella più energica parte successiva. Energia che ritroviamo nella title track, in cui Sirkis si scatena sul suo strumento.

La chiusura è affidata al terzo movimento di Polish Suite che riconduce il disco ad atmosfere più tranquille su cui l’ospite Wingfield lascia stridere le sei corde del suo strumento elettrico e per contro ricama poi sapientemente con l’acustica.

Paolo Crazy Carnevale

ROGER JOHNSON AND THE VALLEY REGULATORS – Mod Americana

di Paolo Baiotti

11 agosto 2021

johnson

ROGER JOHNSON AND THE VALLEY REGULATORS
MOD AMERICANA
Atm Music 2019

Roger Johnson è un esperto autore, cantante e chitarrista emerso con il doppio cd “Stag Cotillion, Volumes One & Two” del 2009, nel quale era affiancato nella produzione e negli arrangiamenti come in Mod Americana da Bradley Nelson (voce e tastiere). Anche gli altri musicisti sono gli stessi del primo album: Greg Horn alla chitarra e cori, Alan Tosel al basso e Tony Guscetti alla batteria, oltre alla saltuaria, ma essenziale presenza della pedal steel di Craig Wronski. Svariando tra country-rock e rhythm and blues con influenze latine (come nella scoppiettante Jackpot Party Surprise), ispirato principalmente da Byrds, Flying Burrito Brothers e Eagles e dalle melodie dei Beatles (la title track li richiama esplicitamente), Roger ha costruito un disco estremamente scorrevole, forse un po’ leggero e superficiale, con numerose variazioni di tempi e un gusto notevole per le ballate, che è stato pubblicato con l’aiuto di una campagna di sostegno su Kickstarter. La sua voce è stata paragonata a quella di Raul Malo (Mavericks), Rodney Crowell e J.D. Southern ma, aldilà delle influenze, il disco suona fresco e raffinato, arrangiato con cura e non privo di personalità. Dal vivo con la sua band ha condiviso il palco con Joe Ely, Kim Richey e Rosie Flores e partecipato più volte al Cosmic American Music Festival a Joshua Tree. Lo stesso Roger definisce sul sito la sua musica “Cosmic Americana, musica originale nella tradizione di Gene Clark, Eagles, Chris Hillman e Gram Parsons”. Si tratta di un genere fortemente debitore del passato, di quello storico periodo californiano a cavallo tra gli anni sessanta e settanta.
La scanzonata e leggera This Summer Feeling apre il disco, seguita dalla malinconica Waiting For The Rain. Si sente aria del country di Bakersfield in Am I Right? con la pedal steel in primo piano, presente anche nel convincente country di Lucky, mentre il violino di Carolyn Boulay caratterizza High Or Low. Sedici canzoni per oltre settanta minuti sono un po’ troppe, una sforbiciata non avrebbe fatto danni, come d’altronde in molti dischi usciti da quando il cd ha raddoppiato lo spazio utilizzabile, ma Mod Americana regge discretamente alla distanza, pur senza entusiasmare.

Paolo Baiotti

A GALLARATE LA MOSTRA MERCATO DEL DISCO

di admin

5 agosto 2021

GALLARATE 1

Con tutti gli accorgimenti necessari sono finalmente riprese anche le fiere del disco.

Il prossimo 29 agosto, a Gallarate (VA) avrà luogo la Mostra Mercato del Disco, del CD e DVD, presso il locale My Way, in Via Lario, 47.

Ingresso libero dalla 10 alle 18.

DAVID MASSEY – Island Creek

di Paolo Baiotti

4 agosto 2021

massey

DAVID MASSEY
ISLAND CREEK
Poetic Debris 2021

A volte la copertina di un disco ne rispecchia il contenuto musicale. E’ il caso di Island Creek, mini album di sei brani del cantautore David Massey, che esprime calma e serenità nell’immagine del musicista seduto di fronte ad uno specchio d’acqua nell’ombra della sera. Avvocato fino al 2017, ha lasciato un importante studio legale per dedicarsi completamente alla musica. Ha già pubblicato quattro album sulla sua label, esordendo nel 2004 con Blissful State Of Blue, seguito da So Many Roads, Until The Day Is Done e Late Winter Light del 2018. Influenzato dal rock e dal folk con venature blues, ha ottenuto più attenzione in Europa che nell’area di Washington D.C. in cui risiede e in cui suona regolarmente nei clubs e nelle caffetterie, accompagnato dagli esperti Jay Byrd alla chitarra e Jim Robeson al basso, presenti in questo disco unitamente ad Eric Selby alla batteria e Bill Starks alle tastiere e ad altri collaboratori
Island Creek è un un Ep prodotto da Robeson impregnato di melodia, influenzato dalla scrittura di Bob Dylan, Tom Petty J.J. Cale e Mark Knopfler. Se la title track è una ballata impreziosita dal piano di Starks e cantata in modo accorato da David, accompagnata da un video rilassante, Demon Wind è uno scorrevole up-tempo che non sfigurerebbe nel repertorio dei Dire Straits, specialmente per il suono della chitarra di Jay Bird e Long Long Time prosegue nella stessa direzione, con brio e leggerezza. La quiete di Don’t Know Where I’d Be è accentuata da violoncello e mandolino, mentre il mid-tempo Curtain Drawn è caratterizzato da una voce un po’ pigra, da una chitarra raffinata e da una batteria insistente. In chiusura la ritmata Fight Finished vuole essere la celebrazione della vittoria dei Washington Nationals nelle World Series di Baseball del 2019 con un piano esuberante e il sax di Bruce Swain.

Paolo Baiotti