Archivio di luglio 2016

DANIEL MARTIN MOORE – Golden Age

di Paolo Crazy Carnevale

31 luglio 2016

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Daniel Martin Moore – Golden Age (So far Burn/Hemifran 2015)

Non è un pivellino questo songwriter del Kentucky. I suoi esordi risalgono a quasi una decina d’anni fa e da allora non si è risparmiato, producendo ben sette dischi, tra quelli da solo (come questo recente Golden Age, penultimo lavoro a tutt’oggi) e quelli in tandem con Ben Sollee o Joan Shelley (quest’ultima ospite anche in questo lavoro), il tutto senza contare i singoli o gli EP digitali.

Il debutto del nostro (e i suoi due successori) è stato addirittura su etichetta Sub-Pop sotto l’egida del produttore Joe Chicarelli, e le frequentazioni altolocate sono continuate anche negli anni a venire, dal tour britannico con Iron & Wine fino alle collaborazioni con Jim James dei My Morning Jacket che oltre ad aver prestato i suoi servigi in altre produzioni di Moore, è produttore del disco che mi sta girando nel lettore CD.

Golden Age è un disco equilibrato, dalle atmosfere molto essenziali e senza fronzoli, sorretto da una sezione ritmica talvolta non umana e soprattutto da pianoforte, organo, poche altre tastiere (suonate da Moore e da Dan Dorff Junior, suo collaboratore abituale), qualche chitarra (Jim James o Moore stesso, come nell’intro acustica della delicata To Make It True) ed una piccola sezione d’archi. Le canzoni stanno a cavallo tra certe cose del passato (più che altro quanto a echi lontani che emergono qua e là) e l’alternative rock dei giorni nostri, senza dubbio merito della produzione di Jim James che a tratti richiama alla mente oltre che naturalmente i My Morning Jacket, anche certe produzioni del grande Jonathan Wilson, in particolare quella per i Deep Dark Woods già recensita in questo sito.

La voce è interessante, molto eterea, di quando in quando richiama certe inflessioni tenorili di David Crosby, ad esempio in Proud As We Are, aperta da un pianoforte che ricorda molto il Neil Young più cupo, o nella successiva Anyway: ma non traggano in errore i paragoni, Daniel Martin Moore, non è un clone dell’uno o dell’altro, è un buon artista, capace di farsi riconoscere, magari poco incline verso soluzioni rock più spinte, ma senza dubbio apprezzabile. Oltre ad i brani citati spiccano lo strumentale (o meglio senza parole, visto che la voce c’è comunque, ulteriore richiamo crosbyano o nashiano che dir si voglia) Lily Mozelle, la ballata retrò Our Heart Will Over e la più movimentata On Our Way Home.

DANIELE TENCA – Love Is The Only Law

di Paolo Baiotti

30 luglio 2016

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DANIELE TENCA
LOVE IS THE ONLY LAW
Route 61 2016

Giunto al quinto disco, quarto in studio dopo Guarda Il Sole (Ultratempo 2007), Blues For The Working Class (Ultratempo 2010) e Wake Up Nation (Route 61 2013), preceduti dall’esperienza con i Badlands influenzata principalmente dalla passione per Bruce Springsteen, il cantautore lombardo sorprende con una sterzata intimista e una scelta di tematiche personali basate sull’amore nelle sue più ampie sfaccettature. Se i due albums precedenti si caratterizzavano per i testi su problematiche sociali, sul lavoro e sulla situazione sempre più drammatica delle classi socialmente deboli, accoppiati ad un blues aspro mischiato con la roots music di matrice americana, Love Is The Only Law cambia registro soprattutto dal punto di vista testuale, mentre la parte musicale tutto sommato prosegue nei solchi già tracciati. La produzione prestigiosa del bluesman americano Guy Davis, che si affianca a Tenca e ad Antonio “Cooper” Cupertino, non può essere estranea al tipo di suono, essenziale e minimalista, in bilico tra blues, folk e americana. La band comprende il nucleo dei fedelissimi Pablo Leoni (batteria), Luca Tonani (basso) e Heggy Vezzano (chitarre) con qualche aggiunta e, come sempre, si affianca alla perfezione alla voce di Daniele, adeguata sia nelle tracce intime che in quelle ritmate. Love Is The Only Law apre e chiude il disco, racchiudendolo come un concept, prima in versione gospel-folk acustica e rilassata con la chitarra di Guy Davis, poi in versione elettrica e oscura tra soul e blues, con gli intrecci delle chitarre di Vezzano e Leo Ghiringhelli. The Day You’ll Say Sorry è un roots-rock che rappresenta la consapevolezza tardiva della crisi o della fine di una storia, Along Your Path un rabbioso rock-blues nel quale quasi a sorpresa si inserisce una sezione fiati, Haunted House una traccia tetra e avvolgente che esprime l’incomunicabilità all’interno della coppia, Hard To Let You Go un rock grintoso sulla rottura di un rapporto, Darker Side un blues cadenzato e ipnotico sulla sofferenza dei ricordi e sul dolore della perdita che mi sembra influenzato dalle atmosfere dei Doors più tenebrosi. Nella parte finale emerge l’eccellente ballata Phantom Pain, uno dei momenti più profondi dell’album, mentre un barlume d’ottimismo pervade il blues ritmato di Colors, prima della ripresa della title track.
Un disco sofferto e personale che evidenzia la maturazione della voce e della scrittura di Tenca, tra i più interessanti autori di roots rock in Italia, insieme ai Lowlands dell’amico Edward Abbiati (con il quale Daniele ha effettuato recentemente quattro riuscite date acustiche) e ad altri artisti meritevoli di maggiore spazio come Cheap Wine, Miami & The Groovers, Cesare Carugi e Graziano Romani.

KATE CAMPBELL – The K.O.A. Tapes (vol. 1)

di Paolo Baiotti

30 luglio 2016

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KATE CAMPBELL
THE K.O.A. TAPES (VOL. 1)
Large River Music 2015

Figlia di un pastore battista, nata a New Orleans nel ’61, cresciuta nel nord del Mississippi prima di stabilirsi a Nashville, Kate è vissuta in un ambiente pieno di musica, con una madre cantante e pianista e una nonna violinista. Dopo avere studiato piano classico e clarinetto, si è spostata sulla chitarra, coltivando anche l’interesse per lo studio fino alla laurea in storia all’università di Auburn.
Ha debuttato nel ’95 con l’ispirato Songs From The Levee, seguito da una dozzina abbondante di dischi nei quali ha evidenziato le sue capacità di narratrice influenzata nei testi e nelle atmosfere dal retaggio religioso di famiglia e da autori della letteratura americana quali Flannery O’Connor e William Faulkner e nella musica da tradizione folk, country, blues e rhythm and blues. A meno di tre anni da Due South Co-Op, disco inciso con The New Agrarians, band formata con Pierce Pettis e Tim Kimmel, Kate propone una raccolta di brani incisi prevalentemente sul cellulare, nel suo salotto o in albergo, registrazioni casalinghe in alcuni casi completate da successivi interventi di qualche collaboratore come Spooner Oldham alle tastiere, John Kirk al violino, Missy Raines al basso e Laura Boosinger al banjo, mentre Kate suona chitarra e tastiere. Tracce prevalentemente acustiche, molto scarne (a volte anche troppo), alcune precedute da brevi presentazioni, che compongono un puzzle interessante per verificare le influenze e le passioni dell’artista, ma non costituiscono un disco essenziale nella sua produzione. La scelta delle covers denota la passione (inevitabile) per songwriters come Paul Simon (America), Kris Kristofferson (una delicata Me And Bobby McGee) e Richard Thompson (From Galway To Graceland). Tra gli altri brani spiccano la ballata Greensboro, il tradizionale I Am A Pilgrim, l’intima Hope’s Too Hard e The Locust Years dall’album d’esordio. La scelta più sorprendente è posta in chiusura, una cover acustica di Freebird, l’inno dei Lynyrd Skynyrd che, seppure spogliato dell’elettricità delle chitarre (e delle armonie del piano), rimane un brano di spessore.

STEVEN CASPER & COWBOY ANGST – I Feel Like I’ve Got Snakes In My Head

di Paolo Baiotti

25 luglio 2016

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STEVEN CASPER & COWBOY ANGST
I FEEL LIKE I’VE GOT SNAKES IN MY HEAD
Silent City Records 2016

Originario di New York, Steven Casper si è stabilito da tempo a Los Angeles dopo una giovinezza trascorsa tra Giappone, Italia, Nigeria e Messico con la famiglia. Ha fatto parte di numerose band minori (Bullet Boys, Vena Cava, Blood Red Roses) prima di formare i Cowboy Angst, che attualmente comprendono l’esperto Herb Deitelbaum al basso, Carl Byron alle tastiere (tra le altre cose compositore di musica elettronica), John Groover McDuffie alla chitarra (già con Rita Coolidge e titolare di un trio) e Jay Nowac alla batteria, session man per svariate formazioni californiane.

I Feel Like I’ve Got Snakes In My Head, titolo piuttosto aspro come la copertina nella quale Steven alza con le braccia un serpente un po’ inquietante, è un mini album di sette canzoni prodotto in studio dall’esperto Ira Ingber a Venice e Los Angeles. Non è il primo della band che ha alle spalle alcuni altri ep’s e un paio di albums con una formazione diversa. Qualcuno ha parlato della più calda band senza contratto dell’area di L.A. esagerando un po’, ma il dischetto è di buona qualità e denota possibilità interessanti di sviluppo.

Destreggiandosi tra roots rock, blues con venature country e influenze punk, Casper apre le danze con lo strumentale For A Few Dollars Less, chiaro omaggio non solo nel titolo alle composizioni di Ennio Morricone, impetuosa cavalcata guidata da una chitarra elettrica vibrata e dalla slide. Driving Fast è un rock blues rabbioso con chitarra e organo protagonisti della parte strumentale, Restless Heart una ballata deliziosa con lap steel e piano in evidenza, oltre alla voce sicura di Casper, She’s Bad un rock and roll ammorbidito dai backing vocals di Charity e Linda McCrary. Le divagazioni tex-mex di Maria con la fisarmonica di Byron richiamano la musica di frontiera di Blasters e Los Lobos, mentre Slow Dancing è una ballata country punteggiata dalla chitarra. In chiusura come bonus track una versione notturna di Driving Fast, acustica e bluesata.

GRAHAM NASH – This Path Tonight

di Paolo Crazy Carnevale

25 luglio 2016

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GRAHAM NASH – This Path Tonight (Blue Castle 2016)

Dei signori della strada a quattro corsie, Graham Nash è senza dubbio quello dalla carriera solista meno memorabile: pochi dischi non sempre particolarmente azzeccati. I più lo ricordano per i primi due, quelli usciti negli anni settanta, quando l’acronimo CSNY faceva muovere folle e denari anche senza esistere di fatto. Personalmente sono affezionato al terzo disco, Earth & Sky, forse non apprezzato come i predecessori (in particolare Songs For Beginners) ma comunque ispirato e ben suonato, con l’unico difetto di essere uscito nel 1980 pagando dunque dazio a certe sonorità del nefido decennio che stava cominciando. I dischi successivi sono finiti (anche giustamente) nel dimenticatoio e le cose migliori Nash le ha sempre riservate ai dischi in trio, quartetto o duo.

Questo nuovo disco arriva a quattordici anni di distanza dal suo predecessore e in un momento denso di cambiamenti per il cantante inglese (naturalizzato californiano), giusto all’indomani dell’annuncio della fine irreversibile della partnership col baffuto Crosby (e di conseguenza anche con gli altri due, leggermente più giovani, ex soci) e del divorzio dalla moglie Susan (che, stando alla bellissima autobiografia uscita un paio d’anni fa, era stata la sua ancora di salvezza quando la sua vita era particolarmente burrascosa).

Le canzoni sono state scritte tra il divorzio da Susan e quello da David e sicuramente tra le fonti d’ispirazione di questo nuovo lavoro c’è la nuova relaziona sentimentale di Graham. Che il nostro avesse delle nuove canzoni nel cassetto non era una novità, ne recenti tour del trio si era ascoltato qualcosa che per altro è rimasto nel cassetto, proprio per dare spazio e visibilità (o udibilità trattandosi di musica) alle cose più recenti: la prima grande novità è la collaborazione stabile a livello compositivo con il chitarrista Shane Fontayne, da tempo colonna portante della band di CSN. Dieci canzoni in tutto, come sui dischi di una volta – la durata è più o meno quella – e pochi musicisti a costruire le architetture sonore del prodotto; sicuramente un buon disco, con delle buone, a volte più che buone, canzoni. L’unico problema – per chi si aspettava un classico disco di Nash – è il fatto che non ci sono le armonie vocali con il vecchio tricheco ed i suoni sono abbastanza lontani, per quanto non brutti, da quelli della California degli anni settanta, quando a suonare nei dischi di Nash facevano capolino i nomi di Craig Doerge, David Lindley, Joe Walsh, Jackson Browne, Danny Kootch Kortchmar. Ma d’altronde esiste un classico disco di Graham Nash? A ben vedere i suoi album (mi piace usare ancora questo termine caduto in disuso) solisti sono tutti abbastanza differenti l’uno dall’altro. Shane Fontayne è uno che suona di volta in volta come il chitarrista il cui ruolo deve andare a sostituire: non in questo frangente però, le chitarre qui sono tutte sue, e d’altronde è lui lo sparring partner nella composizione e quindi non è tenuto ad imitare Neil Young, Stephen Stills o Jerry Garcia (come quando suona in Teach Your Children).

Le canzoni sono costruite su testi di carattere personale, niente inni politici o ecologici, solo canzoni attraversate dalla sempre bella voce dell’ex Hollies e dalle varie chitarre del suo connazionale Fontayne, cori femminili e l’inestimabile ottimo organo di Todd Caldwell (altra colonna portante della CSN band degli ultimi anni): se la title track la trovo personalmente fastidiosa quanto a sonorità, devo ammettere che il registro cambia presto con la succesiva Myself At Last, una canzone presentata nel tour di CSN dello scorso anno), delicata ballata d’atmosfera folk contrappuntata da una deliziosa armonica. Armonica che torna in Target, altro brano particolarmente riuscito del disco, con un sontuoso hammond a tesserne le trame e un coro che sembra riportare per un momento ai suoni perduti degli anni settanta. Golden Days è dedicata alla band degli esordi, gli Hollies ed è un altro di quei brani in punta di piedi. Fire Down Below ha un incipit blues pur non essendolo affatto, buon brano ma meno di Beneath The Waves e Another Broken Heart. Back Home è dedicata a Levon Helm, bel refrain ma con un po’ di tastiere ed effetti di troppo, con cori che cercano – senza riuscirci – di emulare certe cose di Wind On The Water. Di nuovo ispirato alla sua vita di musicista è Encore, il brano finale, basato sulle sensazioni provate dal musicista quando il concerto è finito e il pubblico in piedi continua a chiedere ancora, ancora una canzone: buon brano che inizia in acustica solitudine, crescendo pian piano con l’inserimento di voci e strumenti.

La prova del nove per questo disco, sono stati i concerti del recente tour europeo che Nash ha effettuato nei teatri in compagnia del solo Fontayne toccando anche l’Italia: le nuove canzoni sono state eseguite insieme a quelle storiche e a quelle degli altri dischi solisti di Graham, reggendo perfettamente il paragone.

Oltre all’edizione “regolare “ del disco, ne è uscita anche una in vinile in occasione del Record Store Day ed una con allegato un DVD contenente un concerto del 2015 che rende l’idea di cosa siano stati concerti europei della primavera scorsa.

THE SUMNER BROTHERS – The Hell In Your Mind

di Paolo Baiotti

19 luglio 2016

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THE SUMNER BROTHERS
THE HELL IN YOUR MIND
Sumner Brothers Records 2015

Ennesimo prodotto del roots rock di un paese come il Canada che offre un contributo finanziario ai musicisti per aiutare le produzioni locali, The Sumner Brothers provengono da Vancouver e sono in attività da più di dieci anni. I fratelli sono Brian e Bob che si occupano della composizione, delle voci soliste e delle chitarre, affiancati da Mike Ardagh alla batteria, Mike Agramovich al basso e Elba Crumar alle tastiere. Cresciuti nel mito di Townes Van Zant, Neil Young, Johnny Cash e Bruce Springsteen, mischiano country e rock con un impeto e una rabbia che si ispira anche al punk e al grunge. Brian ha una voce profonda che si adatta alle tracce più aspre e rocciose, Bob tonalità più morbide che ricordano Chris Martin dei Coldplay o gli Avett Brothers, perfette per i brani più melodici. E proprio su questo doppio binario si esprimono i fratelli, giunti al terzo disco dopo l’omonimo del 2008 e I’ll Be There Tomorrow del 2012, quinto se consideriamo anche i due volumi di demos In The Garage vol. 1 e 2. Musica onesta, diretta, che risente positivamente dell’unione e della vicinanza tra i due protagonisti principali, molto considerati nell’ambito della scena alternativa dell’ovest canadese. Con The Hell In Your Mind cercano di ampliare la loro popolarità anche al di fuori del Canada, pur sapendo che l’impresa non è agevole. Per farlo si allontanano in parte dal country più ruspante e dalle tracce di old time music del passato, approdando ad un roots rock indurito che intende valorizzare la canzoni rispetto alle parti strumentali. Ci riescono in parte, specialmente nei brani più ritmati come l’ipnotica Last Night I Got Drunk che apre il dischetto, un brano trasformato rispetto alle versioni dal vivo di qualche anno fa, nel quale la voce melodica di Bob contrasta l’impianto musicale ripetitivo e sinistro, la lunga e cadenzata Ant Song, con un’introduzione strumentale che precede l’entrata della voce di Bob, la potente Giant Song, contraddistinta dal timbro aspro di Brian e da una base poderosa e Go This One Alone, quasi una versione accelerata di Maggie’s Farm. In contrasto si inseriscono la ballata country It Wasn’t All My Fault, interpretata con malinconia dal fratello e la morbida Lose Your Mind, mentre I’m Not Ready incrocia melodia e rabbia con risultati interessanti. My Dearest Friends chiude il disco con una base elettronica e un suono sparso, lasciando l’impressione di una band ancora alla ricerca di un equilibrio.

WENDY WEBB – This Is The Moment

di Paolo Baiotti

19 luglio 2016

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WENDY WEBB
THIS IS THE MOMENT
Spooky Moon Records 2015

Cantautrice originaria dello Iowa e residente in Florida, pubblica il quarto album di una carriera iniziata nel 2003 con Morning In New York, seguito alcuni anni dopo da Moon On Havana e poi da Edge Of Town nel 2012. Dotata di una voce morbida e melodica, accompagnata da una musica che ondeggia elegantemente tra folk e pop con accenni di jazz e blues, è stata avvicinata a Norah Jones, Joni Mitchell e Jackson Browne, ma la somiglianza maggiore mi sembra con Carole King. Wendy è autrice sia dei testi che delle musiche di quasi tutti i brani, in parte registrati nello studio della musicista con l’aiuto di John McLane (tastiere, basso, batteria, fiati, chitarra), Danny Morgan (chitarra) e Jay Heavilin (basso).
L’opener Venus Is Rocking In The Cradle Of The Moon è un mid-tempo gradevole, debitore di Jackson Browne (con testi del poeta di Nashville Charles John Quarto), mentre This Is The Moment sembra ispirata dal Van Morrison jazzato e Western Channel In the Sky ha il marchio di Carole King nel modo di cantare e nel sottofondo di piano. Echi dei cantautori di Laurel Canyon attraversano le tracce del disco, evidenziando le doti vocali non indifferenti di Wendy, con qualche momento di noia nelle lente My Beating Heart e I Will Remember, superato dalla raffinata You’re My Friend e dal piano di Homespun che richiama il suono di Roy Bittan. L’impronta cantautorale è evidente nel folk pianistico di Big Blue Sky e di Florida, dedicata allo Stato in cui si è trasferita e nella conclusiva Long Day In The Sun, altra dichiarazione d’amore nei confronti del sole e dell’oceano che vede dalla sua casa di Barrier Island.
Un buon disco, forse un po’ uniforme, che negli anni settanta avrebbe avuto più possibilità di essere notato…ma non è detto che sia una colpa!

CLARENCE BUCARO – Pendulum

di Ronald Stancanelli

19 luglio 2016

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CLARENCE BUCARO
PENDULUM
Appaloosa 2016

In attesa di vedere e sentire Clarence Bucaro al Buscadero Day domenica 24 luglio, quindi tra pochissimi giorni, della 20/20Records distribuito da Appaloosa l’ultimo breve, non raggiunge i trenta minuti, lavoro, appunto di Clarence Bucaro del quale abbiamo da pochissimo recensito positivamente il suo For the First Time. Nel giro di pochi mesi quindi ecco usciti il suo ottavo e nono album della propria discografia iniziata nel 2002 con Sweet Corn.
Bucaro è natio dell’Ohio e residente tuttora a Brooklyn dopo essere passato da residenze situate prima in Louisiana e successivamente a Los Angeles. Eravamo rimasti entusiasti del suo penultimo cd e anche oggi in questo suo più acustico e intimista lavoro restiamo ammirati ed affascinati da questo cantautore di solida valore. Come il precedente anche questo disco è prodotto da Tom Shick che come dicemmo era stato produttore sia per i Wilco che per Ryan Adams. Dieci brani sviluppati in altrettante ballate d’autore molto intimistiche e scavate nel personale ove in My heart won’t si sente molto forte un’influenza alla Jackson Browne, altro artista decisamente interiore e profondo. Girl in the Photograph ha oltre ad un ritmo corroborante ai buoni sentimenti anche una similitudine di intenti alla famosa Fountain of Sorrow sempre del buon Jackson mentre la conclusiva Strangers cantata a due voci con Allison Moorer, ex signora Earle, è brano di pungente poesia. Pendulum, pezzo che da titolo all’album è brano intimo, penetrante e molto personale, intriso di una dolcezza/tristezza folk molto intensa. Lancinante ed acuta Tragedy ricorda pagine tra le più vivaci e vitali del primo periodo di Joe Henry. Tutti i brani a firma Bucaro esclusa la mesta e malinconica ma bella Strangers redatta con la Moorer. Scott Lingon al basso, piano e tastiere; Alex Hall alla batteria organo e splendidamente all’accordion soffuso in Watching you grow e Rich Hinman alla pedal steel e chitarra elettrica. Voce e chitarra acustica per Bucaro che co-produce come accennato prima assieme a Tom Schick il piacevolissimo dischetto.
Ancora una volta un plauso alla Appaloosa che come fatto altre volte in precedenza all’interno del libretto si preoccupa di stampare la traduzione italiana delle canzoni. Copertina da …. provini di studio fotografico e album che reputiamo decisamente interessante e piacevole, in un ennesimo ascolto sta ora passando la splendida Emerald Eyes mentre doverosa ancora una citazione per la semplice ma radiosa ritmata Barcelona.

LUF – Delalter/Verso Un Altro Altrove

di Ronald Stancanelli

19 luglio 2016

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Dovrebbe essere questo il dodicesimo album dei Luf, gruppo combat rock/folk lombardo delle provincie bresciana/lecchese a brianzola fondato da Dario Canossi più o meno a fine scorso millennio dopo una notevole collaborazione con Davide Bernasconi alias Davide Van De Sfroos culminata all’epoca nello splendido album Breva e Tivan appunto di quest’ultimo; Davide che troviamo ospite nel loro album/dvd /libro ormai oggetto di culto del 2010 dal titolo Live&Luf. Il loro primo lavoro era stato nel 2002 Ocio ai Luf con ospite il bravissimo Lorenzo Monguzzi dei Mercanti di Liquore. Il loro secondo cd del 2005 è invece tra l’altro ricordato per la strepitosa e curiosa So nahit ‘n Val Camonega, trascrizione bresciana della famosissima culto/rock/song Sweet Home Alabama dei Lynyrd Skynyrd. Del 2012 ricordiamo I Luf cantano Guccini anche da noi positivamente recensito e lo stesso dicasi per l’ottimo Terra e Pace del 2014 assieme a Massimo Priviero, album uscito in occasione del centenario della grande guerra ove vengono coniugate in chiave folk alcune delle migliori canzoni della tradizione alpina e bellica. Infine da non scordare anche Mam e famat del 2013, cd nel quale oltre alla collaborazione col piacentino Daniele Ronda e il partenopeo Vincenzo Zitello si ha una fantastica La ‘Al de Legn, cover di American Land di Bruce Springsteen. Oggi abbiamo tra le mani questo doppio album, metà acustico e metà elettrico, otto brani sono presentati in entrambe le versioni, la title track addirittura in tre, che parla di viaggi in generale con propensione per i viaggi della speranza, che parla di mare e acqua che si coniugano appunto con detti viaggi di desolazione e paura. Album che parla schiettamente dell’oggi, dei terribili problemi attuali, delle nostre paure e delle nostre speranze e delle stesse di tanti altri molto più disperati e molto meno fortunati. Una sorta di concept album ove vengono sviscerate tutte dette tematiche in modo penetrante, intelligente ed esauriente. Finito il primo cd mi accingevo ad ascoltare il secondo, quello acustico quando, surprise, invece di estrarre dalla seconda taschina del volumetto il secondo cd mi son trovato tra le dita un cartoncino formato cd che mi invitava a farmi dare alla prima occasione di un loro concerto appunto il secondo cd. Quindi dobbiamo limitarci ai 45 minuti del primo supporto musicale in attesa di farci dare, domenica prossima a Pusiano alla Festa Festival del Buscadero il secondo dischetto !! Loro suoneranno alle ore 22,20 dopo la cantautrice Suzanne Vega. Da quello che abbiamo ascoltato in questo nuovo disco I Luf non possono non ricordarci gruppi storicamente contro come i Gang, i Modena City Ramblers, i Pogues, i The Men They Couldn’t Hang e anche ovviamente molti altri non esclusi i combattivi e battaglieri Clash. I pezzi nel primo cd sono dodici, forieri di buona musica arricchita da una variegata e variopinta strumentazione e da testi, tre in dialetto bresciano che coinvolgono e fanno intensamente pensare. Per tornare alla strumentazione abbiamo Sergio Pontoriero al banjo, mandolino e dobro, Sammy Radaelli alla batteria, Alberto Freddi al violino, Cesare Comito all’acustica,Alessandro Rigamonti al basso, Lorenzo Marra alla fisarmonica , Pier Zuin ad una moltitudine di strumenti irlandesi/celtici e ancora ospiti esterni il gruppo ed altri strumenti ancora. Un disco ricco, vivo, intelligente, ove dimensioni e suoni vanno a pari passo regalandoci ancora un altro eccellente lavoro targato Luf, un album del quale evitiamo la citazione di qualsivoglia pezzo essendo gli stessi tutti paritari e di eccellentissimo valore. Un disco i cui testi sono a firma di Dario Canossi escluso uno in dialetto, co-firmato e una cover di Sergio Endrigo/Bacalov; un disco da avere e ascoltare ripetutamente. Bella la confezione cartonata riccamente abbellita di fumetti vari e disegni a cura di Moreno Pirovano e Daniele Elli.
Ricordatevi del loro concerto a Pusiano, sull’omonimo lago domenica prossima 24 luglio e per informazioni potete andare a vedere sul sito www.buscaderoday.com

HAYES CARLL – Lovers And Leavers

di Ronald Stancanelli

13 luglio 2016

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HAYES CARLL
Lovers And Leavers
HWY 87 Records Distrib da IRD 2016

Il fatto che sia prodotto da Joe Henry è non solo una garanzia ma anche motivo di interesse per approssimarsi a Hayes Carll, se poi amate Townes Van Zandt, Guy Clark, Steve Earle, Steve Young, Butch Hancock, Joe Ely, Waylon Jenning e compagnia bella allora siete dalla parte giusta della strada. Con alle spalle alcuni album nei quali narrava di sbronze epocali e di strali lanciati alla politica e un Grammy Award vinto lo ritroviamo oggi con un disco totalmente acustico interiormente profondo e forse anche doloroso essendo da poco cessato il suo rapporto di coppia oltre ad essere la passato attraverso il fallimento della sua etichetta, la Lost Highway.

Dei dieci brani proposti preponderanti sono quelli a sua firma a parte una manciata assieme ad amici, tra i quali Jim Lauderdale, Darrell Scott, John David Souther, vecchia anima bluegrass degli Eagles e Allison Mooree, ex signora Earle assieme a Jack Ingram. Dedicata al figlio la delicata The Magic Kid e molto bella anche Sake of the Song con un titolo che non può non portare con la memoria a Townes. Ma tutto Lovers and Leavers è molto bello e piacevole essendo strutturato attorno al piano di Tyler Chester, le percussioni e la batteria di Jay Bellerose e la pedal steel di Eric Heywood, qualcuno ricorderà quest’ultimo proprio da noi a fine anni novanta assieme a Joe Henry in giro per il nord Italia con dei concerti strepitosi. Lo stile abbraccia totalmente il texas-style e dosate e mirate, a tratti minimali come è solito fare il cognato di Madonna, le splendide produzioni di tutti i brani a tratti geniali, ascoltare ad esempio Love is so Easy.

Per chi ama certo tipo di cantautori che abbiamo citato in apertura non possiamo esimerci dal pensare che, ecco, accanto a tutto questo giganteggiare di grandi nomi uno come Hayess Carll può fare tranquillamente la sua porca figura e sicuramente dopo aver ascoltato questo album molti si adopereranno per cercare i suoi vecchi lavori, cosa della quale vi assicuriamo vale la pena, Alcuni lo sta già accomunando ai texani succitati e questo suo disco parrebbe dar loro ragione, diciamo che è sulla buona strada e se così accadrà sarà il tempo, sempre galantuomo, a dirlo. Per adesso ci gustiamo un texican, come direbbe l’amico Peter Rowan, di gran spessore con album di grande impatto. Anonima la copertina ove giganteggia in lettere cubitali il nome dell’artista.

THE RIDES – Pierced Arrow

di Paolo Crazy Carnevale

11 luglio 2016

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THE RIDES – Pierced Arrow (429 Records 2016)

Credo di poterlo dire a voce alta, senza tema di smentite, questo secondo disco dei Rides è un’ottima conferma per il supergruppo formato da Stephen Stills, Kenny Wayne Shepherd e Barry Goldberg; non solo, oltre ad essere un bel disco godibile di rock e blues, è sicuramente anche il miglior disco pubblicato quest’anno dalla famiglia CSNY. Bello anche il disco di Nash, certo, in linea con la sua produzione migliore come solista, che però, diciamolo, non è mai stata ai livelli di quella degli altri soci, meno bello e pasticciato il doppio di Neil Young, un live da un suono manipolato troppo in studio che non fa onore alle recenti incendiare performance dal vivo del canadese. Ma non siamo qui per parlare né di Nash né di Young, bensì dei Rides e di questa bomba ad orologeria che si intitola Pierced Arrow. Dice Stills che questa è la blues band dei suoi sogni, ma forse sbaglia, perché i Rides sono molto più di una band blues, in questo disco ci sono anche ballate intense, c’è qualche venatura soul dovuta all’inserimento di coristi e ci sono anche inserti di chitarra acustica tipicamente stillsiani. I brani sono quasi tutti composti in trio o in duo, salvo un vecchio pezzo di Goldberg ripescato dal passato ed una cover di Willie Dixon, il suono è energico, le chitarre sono sferzanti e, soprattutto, Stills e Shepherd interagiscono alla perfezione, mescolando i loro stili con sapienza ed ispirazione, mentre Goldberg s’infila con le sue tastiere che sono a seconda dei casi svisate di pianoforte quasi rockabilly o bordate d’hammond (quelle che preferisco) degne di un maestro quale lui è.

Le parti vocali sono equamente suddivise tra i due chitarristi e qui va detto che Stills è quello che si fa preferire, alla faccia dei problemi alla voce degli ultimi anni. Il brano iniziale è già una certezza, si chiama Kick Out Of It e il texano lo conduce alla grande, un modo azzeccatissimo per cominciare un disco di questo calibro, a seguire c’è la veloce Riva Diva (che reca anche la firma del bassista Kevin McCormick), cantata da Shepherd con grinta e condotta dall’inizio alla fine da un pianoforte contagioso. I brividi salgono ulteriormente con Virtual World che Stills aveva eseguito spesso nell’ultimo tour con CSN lo scorso autunno: già allora si era capito che il brano era di quelli notevoli e la conferma dell’impressione arriva con la versione Rides, una ballatona in classico stile Stills, con passaggi di chitarra da brivido. Non da meno è By My Side altro brano lento, di nuovo con la voce di Kenny Wayne e con Stephen che oltre all’elettrica tira fuori anche la Martin acustica che snocciola passaggi che profumano di vecchia California, quella che non uscirà mai dai nostri cuori. Le voci delle coriste supportano bene il cantato di Shepherd e nel coro si distingue anche Stills, che ne primo break solista infila un suo classico solo elettrico, forse troppo breve. In chiusura del lato A c’è I’ve Got Use My Imagination, composta in epoca remota da Goldberg con Jerry Goffin per Gladys Knight & The Pips, qui la voce è sempre quella dei Kenny Wayne e la versione è solida, con l’organo che impazza e le chitarre che duettano sempre in fase ispirata.

La seconda facciata del disco si pare con il blues sudista di Game On, con la voce di Stills e ancora notevoli spunti per le chitarre, poi segue Mr. Policeman, sempre con la voce del texano e un’andatura più scontata ma impreziosita da un buon uso della voce e dal pianoforte incessante. I Need Your Lovin’ è blues virato verso il rockabilly, la voce di Kenny Wayne è tagliente e le voci femminili lo supportano nel refrain mentre il piano sembra figlio di Jerry Lee Lewis. La perla totale di questa seconda facciata è una lenta blues ballad There Was A Place, con uno Stills ispiratissimo, la batteria di Chris Layton quasi in punta di piedi, l’acustica a contrappuntare, le elettriche ad urlare, i cori insinuanti e l’hammond protagonista: oltre ad essere il brano migliore della seconda facciata è una delle più belle canzoni del disco, suonata con le contropalle da questa band che convince sempre di più.

La chiusura è affidata al ripescaggio di un brano di Willie Dixon intitolato My Babe, puro Chicago blues passato già per le mani di numerosi altri artisti.

Il disco finirebbe qui, se non fosse che nell’edizione digitale sono stati inseriti come bonus altri tre brani, tutti e tre cantati da Stills e tutti e tre molto notevoli, pur non aggiungendo nulla al di là di performance ispirate e showcase chitarristici d’alta classe: si inizia con Same Old Dog, un brano originale quasi hard blues con la ritmica martellante ed uno Stills molto convincente alla voce, più interessante la versione del classico Born In Chicago, tanto per far capire quale sia la scuola blues prediletta dal gruppo: il brano di Nick Gravenites è una palestra naturale per i chitarristi e seppure ci sia sempre da fare i conti con la versione di Bloomfield, questa versione è meritevole. La chiusura definitiva è affidata alla lentissima Take Out Some Insurance, tratta dal repertorio di Jimmy Reed, forse la migliore delle tre bonus tracks.

Per completezza dirò poi che il disco è stato pubblicato in Europa dalla Provogue: l’edizione americana è con la classica scatoletta denominata jewel case, quella europea è invece in digipack, inoltre sul CD la sequenza dei brani è differente da quella su vinile che ho usato per la recensione.

BOTTEGA BALTAZAR – Sulla Testa dell’Elefante

di Ronald Stancanelli

4 luglio 2016

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BOTTEGA BALTAZAR
SULLA TESTA DELL’ELEFANTE
Azzurra Music 2016

La Piccola Bottega Baltazar che avemmo il piacere di vedere alcuni anni fa a Sanremo al Premio Tenco ci recapita gentilmente il suo ultimo nuovo lavoro che dovrebbe essere il nono della discografia avendo i ragazzi veneti già dato alle presse viniliche eccellenti lavori come Canzoni in forma di fiore (2004), Il disco dei miracoli (2007), nominato tra i migliori lavori di dischi indipendenti dal Premio della Musica Indipendente, Ladro di rose (2010), Radici (2011) oltre a un omaggio a Fabrizio De Andrè uscito sia nel 2002 come Poco tempo, troppa fame, che nel 2005 come Fabrizio De Andrè Cover 100% . Inoltre da ricordare l’atipico L’allegoria delle statue (2005) e due colonne sonore, Mare chiuso (2012) e La prima neve (2015). Attualmente il gruppo che è sempre quello originale è formato da Roberto Gobbo, chitarre e voce, Sergio Marchesini, fisarmonica e pianoforte, Antonio De Zanche, contrabbasso, Graziano Colella, batteria e percussioni, Riccardo Marogna ai fiati e all’organo; anche se non siamo riusciti a scoprire come mai il cd abbia la dicitura Bottega Baltazar e Piccola sia restato nel dimenticatoio. In questo nuovo lavoro si avvalgono dell’aiuto di Valentina Cacco al violoncello, di Laura Gentilin, voce, di Gianluca Segato alla lap steel guitar e di altri quattro eccellenti compagni di viaggio.
Gruppo attivo sin dal 2000, ha vinto vari premi nazionali ed ha suonato in tantissimi festival sia europei che extraeuropei. Ha nel suo dna una miscela musicale interessante e variegata che mescola senza remore ne paure musica folk, classica, da banda, etnica, jazz, popolare e lo fa con gran perizia e profonda serietà regalando al suo pubblico oltre al materiale sonoro inciso sui dischetti, eccellenti prove dal vivo, sicuramente un loro spettacolo merita almeno una volta d’essere visto, oltre a comporre musiche per spettacoli teatrali, documentari e film.
Dieci i brani che vanno a comporre questa interessante loro nuova proposta, nel quale sia il secondo, l’affascinante Sora del Mont,che quello, splendido, che chiude l’album, Foresto casa mia sono cantate in dialetto da Gobbo che si avvale in quest’ultimo di uno straordinario minimale supporto al piano da parte di Marchesini.
Tutti i brani sono a firma Gobbo-Marchesini o in duo o in solitaria e solo in uno vi è l’apporto di Carlo Carcano. Album presumibilmente dedicato alla propria terra, quel Veneto che ha nelle Dolomiti il suo punto più alto, puro e suggestivo. Il monte Elefante è piazzato proprio da quelle parti e Annibale si ricorda che a causa degli elefanti visse la sua famosa fallimentare spedizione verso il nostro paese. Disco di impronta invernale nel quale ci preme ricordare altri due splendidi momenti, la memoria storica di Osteria all’Antico Termine e la sconsolata ma suggestiva Bussarti alla finestra con la neve. Prodotto da loro assieme a Carlo Carcano si avvale di una suggestiva copertina rivolta al passato delle loro genti e, con uno sguardo benevolo al futuro che li/ci aspetta.

REED TURCHI – Speaking In Shadows

di Ronald Stancanelli

2 luglio 2016

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REED TURCHI
Speaking In Shadows
Devil Down Records Distribuito da IRD 2016

Reed Turchi, musicista e songwriter di Asheville nel North Carolina che si era precedentemente caratterizzato con album blues lo ritroviamo oggi con Speaking in Shadows un calderone-mischiatone ove mescola con modi strambi e innaturali un po’ di Bowie, un po’ di De Ville, un po’ di Dr John shakerando il tutto e infilandoci la batteria e percussioni di Paul Taylor, Andrew McNeill e Adam Hill, un po’ di slide e chitarre varie ma soprattutto il sax di Art Edmaiston per dar luogo a un qualcosa di indefinibile che sta a metà strada tra soul , funk, elettronica e venature blande di blues.

I ritmi sono variegati e abbracciano ora stilemi che vanno da una parte , ora altri che si dirigono altrove senza ben capire dove si voglia andar a parare. Gentile e soave la voce di Heather Moulder nell’iniziale Pass me over caratterizzata anche da un’oscura chitarra alla Neil Young, periodo Tonight’s The Night/Time Fades Away. Ho letto di questo disco non tutto il male possibile ma abbastanza perché possa sembrare una solenne porcheria invece andando controcorrente, l’ho ascoltato tante volte e sempre mi ha gratificato, credo sia un disco coraggioso, che forse non sa dove vuole andare ma che alla fine da qualche parte arriva e nel suo shaker alquanto enfatizzato ed iperbolico contenga un mix se non esplosivo almeno corroborante per regalare una forma forse stramba ma piacevole di musica fuori dagli schemi senza per questo andare a sfracellarsi da qualche parte come sentito dire. A me è piaciuto e quando sono specialmente in auto col volume alquanto espanso detto lavoro mi gasa notevolmente; che poi non sia masterpiece da passare ai posteri ne convengo anch’io ma più lo ascolto più nel suo guscio sbilenco e stravagante e singolare mi ci ritrovo e mi ci diverto come un pazzo divorando chilometri .

Per restare in tema, bizzarra e singolare la copertina che pare macchia lasciata da un calamaio d’antica memoria rovesciatosi per caso. Riascoltandolo ancora, non posso non esimermi dal dirvi come Texas Mist sia un brano decisamente seducente e stuzzicante mentre Offamymind piacevolmente corroborante. Mi allargo e dico ancora, interessante bel disco, prodotto dallo stesso Turchi con Billy Bennett.