Archivio di dicembre 2013

DUSAN JEVTOVIC – Am I Walking Wrong?

di Paolo Crazy Carnevale

29 dicembre 2013

 

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DUSAN JEVTOVIC 

Am I Walking Wrong?

(Moonjune, 2013)

 

Per la sua cinquantottesima uscita, la Moonjune Records sposta l’attenzione dagli abituali terreni della fusion indonesiana e dalle formazioni prog-jazz dell’underground americano virando verso una nuova proposta, quella del power trio del chitarrista serbo – naturalizzato catalano – Dusan Jevtovic.

Il disco, registrato tutto a Barcellona, praticamente live in studio, ci presenta una solida formazione che oltre al chitarrista leader include il bassista Bernat Hernandez ed il batterista Marko Djordjevic, la base su cui il disco si sviluppa è quella di un jazz-rock dai contorni molto duri, le note di accompagnamento parlano di “Jack Fruscinate meets Robert Fripp”, ma il discorso, ascoltando il disco sembra poi allargarsi anche verso altri orizzonti: dalla psichedelia che fuoriesce da Embracing Semplicity che sembra scomodare anche echi pinkfloydiani al pari del brano seguente, Third Life, o addirittura evocando lo spettro di Jimi Hendrix che esce invece dalle tracce del CD con i suoi riff immarcescibili e le sue svisate citate ampiamente in One On One.

Il tempo e i dischi a venire ci daranno modo di capire quale delle tante vie qui intraprese sarà quella più congeniale a Jevtovic, che per ora rimane un soggetto da tener d’occhio e che non sta comunque camminando dalla parte sbagliata.

THE RIDES – Can’t Get Enough

di Paolo Crazy Carnevale

27 dicembre 2013

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THE RIDES

Can’t Get Enough

(Provogue 2013)

 

Ecco uno dei dischi più inattesi di questo 2013 che volge al termine, e soprattutto uno di quei dischi belli che dissipano al primo ascolto i timori dovuti al fatto che uno dei suoi protagonisti sia Stephen Stills che, visto in azione la scorsa estate al fianco di Crosby e Nash, aveva destato qualche perplessità per lo stato della sua voce.

Sono anni che la voce di Stills è cambiata, soprattutto però, negli  ultimi tempi, si è notato quanto faccia fatica a restare intonata; ma in questo disco, condiviso con Kenny Wayne Shepherd e Barry Goldberg, i dubbi sono fugati, la voce, c’è, è quella di adesso e non quella dei verdi anni, ma c’è. E ci sono le canzoni, tutte d’impronta blues, perché con Goldberg e Shepherd va da sé che non si vada a suonare latin rock o bluegrass acustico.

Pare che il disco sia nato come una sorta di seguito del mitico Supersession a cui Stills partecipò con Al Kooper e Michael Bloomfield nel 1968, in cui suonò tra l’altro anche Goldberg, ma, diciamolo subito a scanso di equivoci, questo Can’t Get Enough è un’altra cosa. Non peggiore, né migliore, solo un’altra cosa. Innanzitutto nel disco del 1968 Bloomfield e Stills non apparivano negli stessi brani, il leader era Kooper e Goldberg non c’era nei brani in cui suonava Stills.

Qui invece i tre sono onnipresenti in tutte le tracce del disco, Stills canta (mentre in Supersession si limitava a suonare) ed è lui il leader, le chitarre sono sempre due e perfettamente distinguibili.

Fatta questa precisazione vi dirò che il disco è gran bello, carico di energia, di voglia di suonare, di suoni ben fatti e canzoni ispirate. Ci sono brani nuovi e originali e ci sono cover, ma sono i primi a trionfare, a testimonianza di una buona vena compositiva del trio. Già dall’apertura si capisce che il gruppo funziona (la sezione ritmica è per metà CSN e per metà Double Trouble) e che l’abbinamento tra il vecchio leone texano ed il giovane Kenny Wayne è azzeccato. C’è sì il blues più canonico, ma ci sono anche quelle intuizioni bluesistiche sempre virate al rock che da sempre abbiamo riscontrato nel repertorio di Stills.

Roadhouse apre le danze alla grande, Don’t Want Lies e Can’t Get Enough – sto occupandomi dei brani nuovi – sono ancor meglio con Stills che canta motivato e le chitarre che incendiano tutto quello che trovano sul loro cammino. Kenny Wayne canta una scanzonata rilettura di Search & Destroy degli Stooges, la classica Talk To Me Baby e con Stills duetta in Rockin’ In The Free World (fateci caso, è dal 1975 che in quasi ogni disco solista di Steve c’è un brano con la firma di Neil Young!).

Stills dal canto suo è protagonista anche in una lunga versione dello standard Honey Bee, della nuova composizione Only Terdrop Fall (con hammond e chitarre in delirio) e dell’high light del disco, la conclusiva Word Game, un gran brano che in versione acustica era stato pubblicato sul suo secondo disco solista ed era anche stato preso anche in considerazione dai Manassas (come testimonia la versione sottotono apparsa sul recente disco d’archivio Pieces). La nuova versione è elettricità allo stato puro, il gruppo sembra fatto apposta per questo brano e Stills lo canta con un trasporto invidiabile, tanto da averlo reso un must nei concerti che il gruppo ha tenuto nel corso del tour autunnale con cui promuove il disco.

DEWA BUDJANA – Jaged Kayhangan

di Paolo Crazy Carnevale

26 dicembre 2013

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DEWA BUDJANA

Jaged Kayhangan

(Moonjune Records 2013)

 

Non ci sono dubbi, Leonardo Pavkovic e la sua casa discografica devono credere moltissimo in questo chitarrista indonesiano recentemente approdato alla scuderia della Moonjune Records, questo nuovo CD è infatti il secondo in poco meno di un anno ed un terzo è già annunciato per gennaio: non solo, basta ascoltare il disco per capire che la fiducia in Deva Budjana è più che ben riposta.

Il nostro, non più un ragazzino visto che lo scorso agosto ha tagliato il traguardo dei cinquant’anni, ha alle proprie spalle una prolifica discografia tra le fila della pop rock band Gigi, oltre ad alcuni album a proprio nome, ma in questo periodo sembra davvero più ispirato che mai, registra i propri dischi negli Stati Uniti, all’insegna di una fusion elegante e intelligente, e si serve di fior di musicisti dal pedigree assai altisonante.

Se il precedente disco, Dewa In Paradise, era uno splendido esempio della capacità compositiva di Budjana , in bilico tra i suoni occidentali a cui si rifà abbondantemente e le matrici asiatiche che ha nel DNA, ora l’asse si è spostato dalla musica dei suoi esordi verso orizzonti più legati al jazz e alla musica fusion, per quanto in alcune composizioni emergano evidentemente e talvolta prepotentemente le sue influenze iniziali.

Così accanto a brani dichiaratamente jazz come Dang Hiang Story o la languida title track, il disco offre prelibatezze come la zappiana Erskoman, l’etno-rock di Guru Mandala e l’avvincente As You Leave My Nest, cantata da Janis Siegel (che ne ha scritto anche il testo), proprio quella dei Manhattan Transfer, che impreziosisce non poco il già bel lavoro del chitarrista, che si occupa delle melodie ben coadiuvato dall’organo hammond  di Larry Goldings, altro solista e session man dalla chilometrica discografia. Alla batteria siede Peter Erskine, pluridecorato session man per un certo periodo nei Weather Report, al sax c’è Bob Mintzer, ex Yellowjackets, e il basso è suonato da Jimmy Johnson (con James Taylor, Albert Lee, Kenny Loggins e Stan Getz, tanto per comprovarne la poliedricità); Deva Budjana compone tutto e dirige la banda, mettendo a segno un altro ottimo colpo, il secondo in pochi mesi.

Buon Natale!

di admin

24 dicembre 2013

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…nonostante tutto…

 

Cari Lettori…

di Roberto Anghinoni

24 dicembre 2013

CI HA LASCIATI DANIELE GHISONI

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Cari Lettori,

dobbiamo purtroppo chiudere questo 2013 con una tristissima notizia: domenica 22 dicembre è infatti inaspettatamente e improvvisamente mancato il nostro Daniele Ghisoni, una firma davvero storica per tutti gli appassionati della nostra musica, soprattutto per coloro i quali lo seguivano magari dai primissimi numeri del “Mucchio Selvaggio”, quindi sul “Buscadero”, e ancora su “Il Blues”, e ovviamente su LFTS.

Dedicheremo a Daniele qualche ricordo sulle pagine di “Late”, invitando quanta più gente possibile a regalargli anche una sola frase, per ringraziarlo per tutte le frasi, un numero infinito, che lui ha regalato a noi. Noi perdiamo soprattutto un amico sincero, e questo è il dolore più grande.

Ciao Ghisa

THE BURRITOS – Sound As Ever

di Paolo Crazy Carnevale

24 dicembre 2013

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THE BURRITOS

Sound As Ever

(Yellow Label SPV 2011)

 

Se dobbiamo prestare fede al titolo, non c’è che dire. Questi Burritos capitanati da Walter Egan per buona parte del disco hanno proprio quel suono di sempre che ha caratterizzato la matrice country rock da cui Chris Hillman e Gram Parsons hanno dato fuoco alle polveri su cui si è fondata l’avventura di un genere musicale che negli anni settanta ha vissuto momenti di vibrante gloria e talvolta anche primeggiato nelle classifiche di vendita.

Il gruppo che qui si fa chiamare The Burritos è probabilmente la miglior proposta musicale – tra quelle che hanno cercato di trarre vantaggio dal nome Flying Burrito Bros. – che si sia ascoltata dopo gli anni settanta. Meglio sicuramente di tutte le vigliaccate sonore propinateci negli ultimi due decenni del novecento da Gib Gilbeau e da quello squalo di John Beland.

Ci troviamo al cospetto di quanto è rimasto di quei Burrito Deluxe che nel 2004 vedevano in formazione anche Sneaky Pete e Garth Hudson. Ma la storia è triste: il povero Pete a quell’epoca era già divorato dall’alzheimer e dal vivo lo mettevano sul palco a far finta di suonare, tenendo abbassato il volume del suo strumento! Poi nel gruppo è arrivato Walter Egan, proveniente dai Brooklyn Cowboys, e nella formazione hanno suonato diversi session men. Alla fine il gruppo è rimasto nelle sue mani e il nome è mutato in Burritos e basta.

Il disco è bello, non si discute, ma rimangono tanti dubbi  circa l’ostinarsi ad usare la parola burrito nella denominazione. Okay, il genere si rifà a quello storico, i suoni, almeno in buona parte del disco sono quelli, alcune canzoni non sono male, ma perché allora non trovarsi un nome originale e smetterla di sfruttare una storia esaurita da tempo?

Invece le furbate sono non poche: a partire dalle vesti dei musicisti e dallo sfondo del Joshua Tree Desert in copertina, per passare per l’inserimento di due brani di Egan (già peraltro presenti in un disco dei Brooklyn Cowboys) legati alla figura di Gram Parsons (Love Hurts che Parsons aveva inserito nel suo secondo disco da solo e California Calypso composta in tandem da Egan e Parsons), il tutto per finire con Out Of Left Field, cover di un brano di Spooner Oldham e Dan Penn (la cantava Percy Sledge) per tratteggiare la continuità con i FBB che avevano fatto loro Do Right Woman e Dark End Of The Street. Ciliegina sulla torta dello sfruttamento parsoniano, un brano, peraltro bello, in cui compare la firma di Jock Bartley che era stato chitarrista dei Fallen Angels nell’ultimo tour di Gram.

Fatte le dovute critiche, il disco, ripeto, è bello. Forse avrei lasciato a casa i due brani legati a Parsons, che non brillano particolarmente in queste versioni. Per il resto ci sono grandi spunti, le voci se la cavano, soprattutto fa un bel lavoro Fred James con le chitarre e la pedal steel, così come solido è il drumming di Rick Lonow, unico superstite degli originari Burrito Deluxe, e le tastiere di Chris James non sono mai invadenti.

Tra i titoli che si fanno preferire c’è sicuramente quello a firma Penn-Oldham, le iniziali For The Sake Of Love e Beggars Banquet, I Ain’t No Angel, Midnight Blue e lo slow City Of Angels.

BRANCO SELVAGGIO – Ridin’ Again

di Paolo Crazy Carnevale

22 dicembre 2013

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BRANCO SELVAGGIO

Ridin’ Again

(Folkest Records 2013)

 

Il Branco Selvaggio è ancora qui, non se ne era mai andato e la sua musica è più potente e genuina che mai. La formazione storica del country-rock italiano è sempre ben salda nelle mani di Ricky Mantoan, polichitarrista – mi si consenta il neologismo, visto e considerato il numero di differenti chitarre con cui il Mantoan si destreggia con uguale bravura – canavese, francese di nascita e americano nel cuore musicale che può vantare collaborazioni con diversi componenti delle famiglie Byrds, FBB e con Chris Darrow; al suo fianco ci sono Luciano Costa ed il bassista Dario Zara, due che del Branco fanno parte (il seocndo non in modo continuato) fin dalla fine degli anni settanta, e c’è Beppe D’Angelo che col suo drumming è stato anche il cuore pulsante di un progetto che vedeva Ricky al fianco di Skip Battin e John York, ex bassisti dei Byrds. Erano anni che si attendeva questo ritorno discografico della band piemontese, e finalmente eccolo qui, grazie agli sforzi dell’etichetta discografica del Folkest friulano. E che disco signori, tutti brani originali, tutti nello spirito del country rock più puro, un’autentica fiera di quei suoni chitarrosi di cui il Branco è capace. Pedal steel guitar, dodici corde Rickebaker a-la McGuinn, Stringbender, Danelectro baritonale, acustiche e dobro. Il tutto al servizio di canzoni ricche di sfumature, citazioni anche (come ad esempio Long Riders, ispirata al film “Easy Rider”, nel testo che si rifà ai personaggi del film e nella musica che in apertura cita un refrain di McGuinn tratto dalla colonna sonora), belle ballate come Reflection N°1, dall’andamento scanzonato e con una chitarra acustica piacevolissima,  The Loser o Winter Song molto intimista e con una bella armonica. E Ancora sfuriate rock come l’ottimo brano di apertura, Down In Hell, una composizione di Ricky che risale a molti anni fa ma che debutta su disco solo ora.

Non mancano gli strumentali come il cajun Country Jig e Nashville Rag che sono una spettacolare vetrina per mettere in risalto tutte le doti e le influenze chitarristiche di Ricky (da Richard Thompson a Clarence White passando per Sneaky Pete e viceversa). Rispetto alle vecchie formazioni del Branco non c’è più la voce di Renata Boratto e anche la sua sostituta Jessica Cavallari ha lasciato da tempo il gruppo apparendo solo come backing vocalist inun brano dall’andamento psichedelico in stile New Riders; poco importa i maschietti fanno ottimamente la loro parte e il disco pur registrato in maniera casalinga usando gli studi di casa suona bene, le chitarre escono con impeto e originalità e il mastering di Andrea Del Favero ha dato al suono finale la giusta brillantezza.

E nel frattempo il gruppo ha acquisito un nuovo chitarrista, un allievo di Ricky in grado di suonare tutti gli strumenti che suona il boss, cosa che fa presagire grandi duelli nelle esibizioni live. Chissà che il prossimo passo non sia proprio un disco dal vivo…

BOB DYLAN – Another Self Portrait

di Paolo Crazy Carnevale

18 dicembre 2013

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BOB DYLAN

Another Self Portrait/Bootleg Series vol.10

(Columbia 2013 4 CD Box)

  

Non frequento i blog dedicati a Bob Dylan e di rado vado a sbirciare nel suo sito ufficiale, ma credo di poter affermare che la decisione di imperniare il decimo volume delle Bootleg Series ad un periodo così oscuro e poco considerato della storia dylaniana come quello della transizione dagli anni sessanta ai settanta abbia colto più d’uno alla sprovvista.

Non fosse altro perché da un po’ si vociferava della possibilità di dedicare questo decimo volume alle session di Blood On The Tracks, come aveva fatto supporre la pubblicazione di un singolo in vinile uscito per il Black Friday dello scorso anno contenente un’inedita e superlativa versione di Meet me In The Morning. A cancellare ogni dubbio, lo scorso Record Store Day è giunto un altro singolo che annunciava l’uscita di Another Self Portrait. Come sempre l’industria discografica ha pubblicato il nuovo prodotto in maniera di cercare di spremere il più possibile l’acquirente. Francamente mi ero stufato di questi giochetti di immettere sul mercato più versioni dello stesso disco – quella normale con due dischi, quella in vinile, quella deluxe con libro fotografico e ulteriori dischi – ma alla fine ho scelto quella deluxe, ingolosito dalla presenza del concerto integrale dell’Isola di Wight, quello del 1969, l’unico concerto intero tenuto da Dylan tra quello della Royal Albert Hall del 1966 e il tour del 1974 ambedue con The Band. Tutte le esibizioni in pubblico tra queste due date sono state comparsate, alcune da urlo (pensate ai tre brani del tributo a Woody Guthrie del 1967), altre abbastanza routinarie (penso al concerto per il Bangladesh).

Chiaramente il concerto – con The Band anche questo – è solo la ciliegina sulla torta. Il piatto forte sono i due dischi assemblati dagli archivisti con materiale inciso tra il 1967 ed il 1971, con particolare riferimento ai dischi Self Portrait e New Morning. Diciamolo subito, non erano stati di certo due dischi da ricordare, personalmente ho sempre trovato il primo dei due un disco simpatico ma spiazzante e a tratti inutile, il secondo mi è scivolato via senza farmi particolare impressione, pur contenendo indubbiamente qualche brano da ricordare. E non ne farei semplicemente una questione di produzione, evidentemente Dylan in quel periodo era meno ispirato, forse confuso, o probabilmente gli andava solo di fare quello che stava facendo, con i risultati che sappiamo. Queste pubblicazioni d’archivio rendono in parte giustizia ai dischi originali, grazie al fatto che buona parte dei brani appare in versione nuda e cruda senza overdubbings orchestrali e cori fuori luogo. Soprattutto ci sono parecchie canzoni rimaste fuori dai dischi ufficiali, canzoni forse migliori di quelle uscite all’epoca. Per quasi tutto il disco ci sono solo Dylan, David Bromberg e Al Kooper che propongono arrangiamenti scarni e minimali che convincono abbastanza. Tra versioni demo di Went To See the Gipsy – pare ispirata da Elvis Presely – e When I Paint My Masterpieces, con testo leggermente diverso, troviamo una vera e propria miniera di gemme assolute, come una versione di Only A Hobo con Happy Traum, Annie’s Going To Sing Her Song di Tom Paxton, una New Morning addizionata da fiati che non dispiacciono, una versione alternata di I Threw It All Away, ottimi traditional come This Evening So Soon, Railroad Bill, Bring Me A Little Water Sylvie (un classico nella versione di Leadbelly, ripresa anche da Pete Seeger e dalle Sweet Honey In The Rock).

Tra le cose che spiccano c’è una versione come si deve di If Dogs Run Free, spogliata degli orpelli jazz con cui era stata pubblicata nel 1971, e ci sono due brani con George Harrison, Time Passes Slowly e il devertissement di Working On A Guru. C’è anche un estratto dai Basement Tapes, quella Minstrel Boy rispolverata un paio d’anni dopo per il concerto a Wight.

La versione deluxe contiene la versione dell’originale Self Portrait, mai ristampata in versione rimasterizzata, e il concerto di cui sopra. Un concerto che come i dischi incisi in quel periodo lasciò dietro di sé fiumi di critiche. Ascoltarlo oggi fa piacere, dopo averlo visto in svariate versioni bootleg messe insieme con registrazioni di fortuna di differenti provenienze. Non è certo un concerto memorabile, ma si colloca perfettamente in quella che era la dimensione dylaniana dell’epoca. Accompagnato dalla Band, Dylan concede un’oretta di musica, con tanto di intermezzo acustico, tutta cantata con la stessa strana voce che aveva usato in Nashville Skyline. Nulla fa presagire a quello che Dylan ci avrebbe propinato nei due anni seguenti, piuttosto ci troviamo vicini all’impostazione dei Basement Tapes, rilassatezza casalinga, i sei musicisti suonano davanti al pubblico oceanico del festival come se fossero nello scantinato di Big Pink a suonare per sé stessi.

Forse questo è il vero limite del concerto che peraltro offre comunque alcuni spunti davvero notevoli come I Dreamed I Saw Saint Augustine, Highway 61 Revisited, I Threw it All Away, One Too Many Mornings, I Pity The Poor immigrant e le immancabili Maggie’s Farm e Like A Rolling Stone.

Vi rimando al prossimo numero dell’edizione cartacea di Late For The Sky per un ulteriore e inedito approfondimento sul Dylan di quel periodo.

JONATHAN WILSON – Fanfare

di Paolo Crazy Carnevale

15 dicembre 2013

Jonathan Wilson Fanfare

 

 

JONATHAN WILSON

Fanfare

(Bella Union 2013)

 

Se il mercato discografico funzionasse come quarant’anni fa, questo secondo disco del mitico Wilson sarebbe uno dei must sugli scaffali di ogni collezionista di dischi. Le cose vanno diversamente ora. Non è una novità. Ciò non toglie che ci troviamo di fronte ad un disco di quelli che lasciano fortemente il segno e, salvo ulteriori belle sorprese, lo possiamo considerare uno dei dischi dell’anno di questo 2013 che volge al termine. Diciamolo schiettamente: non era facile presentarsi all’appuntamento col secondo disco dopo  un esordio come Gentle Spirit, eppure questo poliedrico artista, produttore, pluristrumentista e performer è riuscito nell’intento. In Fanfare troviamo molte delle cose che ci erano piaciute nel suo predecessore e molto altro, non ultime le presenze di alcuni amici che danno al lavoro un tocco di magia in più. Nei due anni che hanno separato il debutto da questo nuovo prodotto, Wilson è rimasto tutt’altro che fermo: ha accompagnato spesso gli amici Dawes e Jackson Browne in concerto, ha pubblicato uno strepitoso EP uscito in occasione del Record Store Day di un anno e mezzo fa, è stato in tour col suo gruppo facendo da supporter (anche nel nostro paese) a Tom Petty & The Heartbreakers, ha prodotto il graditissimo ritorno di Roy Harper ed è andato in tour facendogli da spalla, non ultimo ha tenuto una serie di concerti americani insieme a Bob Weir. Tutte cose che facevano ben sperare per il suo ritorno sul mercato.

La grandezza di questo artista e del suo Fanfare stanno nella sapienza che viene usata per amalgamare i vari stili che lo compongono: ci sono i richiami psichedelici inglesi (Pink Floyd) ma anche quelli americani (Grateful Dead), c’è un tocco di pazzia nel brano d’apertura, una lunga suite che non può non ricordare il beach boy Dennis Wilson (nessuna parentela) e c’è, soprattutto la grande scuola del cantautorato californiano, non a caso uno dei paragoni che si sono letti maggiormente a proposito di Jonathan è quello col primo, indimenticabile e imprescindibile lavoro solista di David Crosby.

Jonathan fa quasi tutto da solo, è uno dei suoi pallini, salvo poi usare una band per i concerti, canta e suona un’infinità di strumenti dalle chitarre al mellotron, al basso al Fender Rhodes, ma i membri del suo gruppo fanno capolino qua e là, soprattutto il batterista Richard Gowen. Il risultato è un affresco sonoro come pochi se ne sono sentiti negli ultimi anni: un doppio vinile o un unico CD con una dozzina di brani di differente ispirazione (in realtà il CD ha un brano in più, ma a vantaggio del vinile va detto che il suono ne esce meglio e che nella pesante confezione cartonata è incluso anche il compact disc col brano in più), con una prima parte molto onirica e dilatata, una centrale molto “canzone” (ma non scontata) ed un ritorno nel finale alle atmosfere iniziali. Le influenze non sono mai concentrate in un solo brano, in una stessa canzone (Illumination) si possono ascoltare contemporaneamente echi del Neil Young di Zuma e dei Pink Floyd più ispirati, così nella fantastica Moses Pain – con le voci di Graham Nash e Jackson Browne, la chitarra di Mike Campbell e le tastiere di Benmont Tench – echeggiano allo stesso tempo i songwriting di Browne e di Bob Weir, e ancora: un altro degli highlight del disco, Cecil Taylor, oltre che essere beneficiato dalle voci di Crosby & Nash – con un bel vocalizzo del Croz vecchio stile – ha una melodia che sembra essere uscita dalla penna del miglior Stephen Stills ed un solo elettrico che richiama il Garcia più geometrico!

Ma attenzione: il disco è sì pieno di ispirazioni altolocate, ma ha una sua anima, è Jonathan Wilson al cento per cento, i modelli si fanno sentire, ma sono così ben mescolati da non farlo risultare un disco derivativo, citazionistico, un mero esercizio di stile. C’è spazio per tutto, persino per un’incursione pseudo latin in Fazòn, ci sono composizioni piene di pathos come Desert Trip in odor di Fred Neil, Love To Love e Future Vision, e se ancora non vi basta, provate a scovare anche un pizzico di Traffic in Lovestrong e di Beatles in All The Way Down.

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/30

di Paolo Baiotti

10 dicembre 2013

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MIAMI & THE GROOVERS

NO WAY BACK

CD + DVD         2013            Miami & The Groovers

 

Tredici anni di storia, tre dischi e due ep in studio, un bootleg live, migliaia di chilometri e centinaia di concerti in Italia e all’estero…tutto questo è riassunto in No Way Back, eccellente doppio audio e video che celebra quanto il quintetto riminese ha costruito con passione, pazienza e tanto sudore. Era ora che pubblicassero un live perché se c’è un gruppo rock italiano che sembra nato per suonare dal vivo sono proprio loro. Lorenzo Semprini ha un entusiasmo e un sorriso contagioso, forse non è ancora riuscito a togliere dal suo inglese un fondo di accento romagnolo, ma è un vocalist notevole e un uomo da palcoscenico, Beppe Ardito è un chitarrista concreto ed essenziale, capace di alternare schitarrate punk ad assoli romantici e drammatici, la sezione ritmica di Marco Ferri e Luca Angelici è pulsante e scattante come deve essere e le tastiere di Alessio Raffaelli (che si divide tra Miami e i Cheap Wine) fanno da collante ritagliandosi spazi importanti e ben sfruttati. No Way Back è stato registrato nella bomboniera del Teatro Comunale di Cesenatico il 23 e 24 marzo di quest’anno davanti ad un pubblico che merita di essere citato, perché il rapporto tra questo gruppo e i fans è stretto, viscerale, affettuoso, famigliare (c’è anche un sito: http://www.miami-supporters.com/index.asp), un piccolo fenomeno italiano che ricorda quello che accade su scala ovviamente diversa a Bruce Springsteen…da sempre la principale ispirazione di Semprini che due anni fa ha coronato il sogno di dividere un palco con Bruce ad Asbury Park durante i concerti del Light Of Day. Ma la musica dei Groovers, se è vero che è partita idealmente dal New Jersey, ora ha una sua peculiarità e una validità che prescinde dalle ispirazioni che oltre al Boss si riallacciano da un lato alla tradizione del folk e del rock cantautorale americano da Tom Petty a John Mellencamp, dall’altro alla rabbia del punk di Clash e Ramones e all’irish rock di Pogues e Flogging Molly. Alla festa di Cesenatico hanno partecipato numerosi amici: Daniele Tenca, Riccardo Maffoni, Renato Tammi, ma i veri protagonisti sono i Groovers e la loro musica, filmata e registrata con professionalità degne delle migliori produzioni internazionali. La scaletta con alcune differenze tra la parte audio e video, privilegia il recente terzo album Good Things eseguito quasi interamente, ma pesca generosamente anche dai due dischi precedenti oltre a qualche cover inedita. Spiccano la drammatica opener Always The Same, introdotta dal piano liquido di Raffaelli e chiusa da un assolo epico di Ardito, l’intensa ballata pianistica Lost, l’irish rock di Tears Are Falling Down e We’re Still Alive, il rock and roll di Jewels And Medicines che ricorda i gloriosi Mott The Hoople, l’aspra e intensa Sliding Doors dominata dalla chitarra espressiva e potente di Ardito, il trascinante singolo Good Things, la ballata springsteeniana It Takes A Big Rain, la grintosa Walkin’ All Alone, una rilassata Redemption Song cantata da Beppe con l’accompagnamento della fisarmonica di Raffaelli, il mid-tempo pianistico It’s Getting Late che si trasforma in una cavalcata chitarristica nell’infuocato finale e la filastrocca Merry Go Round che chiude la serata con un abbraccio tra spettatori e gruppo.       

 

hackett live

STEVE HACKETT

GENESIS REVISITED: LIVE AT HAMMERSMITH

3 CD + 2 DVD   2013   Inside Out

 

Partiamo da una considerazione: per ritornare in classifica e riempire teatri e palazzetti Steve Hackett ha dovuto riproporre il materiale storico dei Genesis degli anni settanta. Se escludiamo i primi progetti solisti, in particolare Voyage Of The Acolyte, Spectral Mornings e Cured, il chitarrista ha ritrovato un pubblico di una certa entità con Genesis Revisited nel ’96, il live The Tokyo Tapes nel ’99 e il recente Genesis Revisited II. Dal relativo tour è stato tratto questo sontuoso disco dal vivo registrato all’Hammersmith Apollo il 10 maggio del ’13 in una serata speciale con numerosi ospiti, racchiuso in tre compact audio e in due dvd, uno con il concerto completo, l’altro con interviste e immagini del backstage. Bisogna anche dire che il chitarrista ha tutto il diritto di suonare questo materiale…in fondo è l’unico del quintetto dell’epoca interessato a farlo, visto che Peter Gabriel ha altri interessi musicali (e probabilmente non sarebbe più in grado di cantare questi brani), Phil Collins si è ritirato o quasi, Mike Rutherford ha riformato i modesti Mike & The Mechanics e Tony Banks compone partiture di musica classica. Insomma una reunion del quintetto di Nursery Crime e Foxtrot appare improbabile se non impossibile per cui Hackett sembra l’unica alternativa credibile alle numerose cover band a partire dai popolarissimi canadesi The Musical Box. E poi Steve ha dimostrato grande rispetto per la musica della band, chiamando musicisti di qualità e creando uno spettacolo di livello eccellente che è stato accolto con entusiasmo da un pubblico formato non solo da nostalgici che ha consentito di annunciare più di trenta date anche per il prossimo anno. Il gruppo comprende il cantante svedese Nad Sylvan (ex Unifaun e Agents Of Mercy) che si è dimostrato un ottimo sostituto di Gabriel e Collins pur non essendo un clone, le tastiere di Roger King, la batteria e voce di Gary O’Toole, sax, flauto e percussioni di Rob Townsend  (collaboratori di lunga data di Hackett) e il basso di Lee Pomeroy. Il concerto ripercorre la storia dei Genesis da Nursery Crime del ’71 a Wind And Wuthering del ’76 con esecuzioni simili a quelle in studio, con qualche variazione strumentale che rispetta sempre la partitura originale. Hackett è timido e riservato, ma il suono della sua chitarra è unico, melodico e romantico come quarant’anni fa. La maestosa opener Watcher Of The Skies, una superba The Lamia con la voce di Nik Kershaw e un duetto tra le chitarre di Hackett e di Steve Rothery dei Marillion, l’epica Shadow Of the Hierophant, unico brano della carriera solista, composto con Mike Rutherford per Voyage Of The Acolyte, mi sembrano le tracce più brillanti del primo dischetto che si chiude con il primo dei quattro brani del secondo lato di Wind And Wuthering,  Blood Of The Rooftops cantato dal batterista O’Toole. Il secondo disco si apre con gli strumentali Unquiet Slumbers For The Sleepers e In That Quiet Earth seguiti dalla ballata Afterglow con la voce inconfondibile di John Wetton. La corale Entangled e la complessa Eleventh Earl Of Mar precedono il gran finale con la suite Supper’s Ready eseguita alla perfezione. Sul terzo dischetto ci sono i due bis, la memorabile Firth Of Fifth da Selling England By The Pound con l’intro di piano che i Genesis eseguivano raramente dal vivo e uno degli assoli più belli della carriera di Hackett e il finale epico dello strumentale Los Endos arrangiato con qualche variazione. La qualità audio e video è eccellente. Non è un disco indispensabile, ma questa musica continua ad avere un fascino innegabile e non solo su chi ha vissuto l’epoca d’oro del rock progressivo. 

 

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STEVEN WILSON

DRIVE HOME

CD/DVD        2013    Kscope   

 

Questo non è il nuovo album di Wilson, bensì un’appendice dello splendido The Raven That Refused To Sing, considerato da molti il miglior album di rock progressivo di quest’anno. Leader dei Porcupine Tree e dei Blackfield, impegnato in altri progetti con i No Man e i Bass Communion, produttore e ingegnere del suono scelto da Robert Fripp per rimixare i dischi dei King Crimson e da Ian Anderson per quelli dei Jethro Tull, Wilson è il protagonista n.1 della scena prog contemporanea. A pochi mesi dal grande successo del recente album, il terzo in studio della sua carriera solista dopo Insurgentes e Grace For Drowning, esce Drive Home, un doppio (cd + dvd) che riprende da The Raven l’omonima ballata triste e malinconica con un assolo di chitarra magnifico tra Pink Floyd e Genesis più romantici, sia in versione audio (più breve) che video con un commovente cartone animato di Jess Cope. La parte audio aggiunge l’inedita The Birthday Party, traccia nervosa vicina agli Yes più contorti con qualche venatura metal, la versione orchestrale di The Raven That Refused To Sing, ancora più maestosa rispetto all’originale e quattro ottimi brani registrati dal vivo a Francoforte. Il primo è The Holy Drinker, una minisuite aperta da tastiere dissonanti, con un ritmo intenso tra prog e jazz con batteria in controtempo, un assolo di sax e cambi di atmosfera inquietanti che portano ad un finale quasi metal, seguito dalla ballata intimista Insurgentes, introdotta da un piano melodico, quasi sospesa, con un puntuale intervento di flauto. Non poteva mancare la title track dell’ultimo album, tesa nella sua morbidezza con un crescendo strumentale lento e avvolgente che sfocia nel maestoso finale, mentre The Watchmaker è un altro brano complesso introdotto da Wilson alla chitarra acustica, che prosegue con una sezione guidata da un mellotron floydiano e successivi cambi di ritmo che comprendono tra l’altro un assolo contorto di chitarra di Guthrie Gowan, un break di piano, un’altra sezione vocale sussurrata e un finale drammatico molto heavy. Il dvd comprende gli stessi brani live, permettendoci di visualizzare i giochi di luci utilizzati per accompagnare la musica e il dolente cartone animato di The Raven That Refused To Sing, video proiettato anche durante i concerti del tour mondiale. Un doppio forse non indispensabile, ma altamente consigliato a chi ha apprezzato i dischi solisti di Wilson. 

 

jj grey

JJ GREY & MOFRO

THIS RIVER

CD      2013    Alligator

 

Dopo l’esplosivo live Brighter Days uscito in edizione doppia audio e video, l’artista della Florida prosegue nel suo cammino sulle strade del soul e del rhythm and blues permeate di sapori sudisti. This River è il sesto album in studio, a tre anni da Georgia Warhorse e dimostra quanta strada ha percorso JJ dall’esordio indipendente Blackwater del ’01, ristampato dalla Alligator nel ’07 unitamente al successivo Lochloosa. Grey è uno dei migliori cantanti soul del nuovo millennio, ha un voce potente, ben modulata ed espressiva, perfetta per il repertorio dei Mofro, sestetto comprendente Anthony Cole (batteria), Todd Smallie (basso), Andrew Trube (chitarra), Anthony Farrell (tastiere), Art Edmaiston (sax) e Dennis Marion (tromba) che si destreggia abilmente tra soul, funky e errebi con qualche accenno al rock sudista dei Black Crowes. E’ musica fatta per esplodere dal vivo come dimostra Brighter Days, ma anche in studio i ragazzi se la cavano egregiamente, riuscendo a mantenere l’energia e la carica delle esibizioni live. This River è dedicato al St. John’s River, il fiume che scorre nei dintorni di Jacksonville dove JJ ha trascorso gran parte della sua vita. Il disco è stato registrato in zona a St. Augustine, quasi interamente dal vivo in studio, senza sovraincisioni. Il punto forte dei Mofro sono le ballate intrise di soul che anche in questo disco non mancano, a partire da The Ballad Of Larry Webb, splendido slow con una slide morbida e un impasto elettroacustico, proseguendo con la sofferta Write A Letter per finire con la maestosa This River, una richiesta di aiuto al fiume dolente e melanconica che si sviluppa con un crescendo guidato dai fiati e dalla voce notevole di Grey. Anche le tracce ritmate scorrono piacevolmente: Your Lady è un intenso funky nel quale si inseriscono chitarra e armonica bluesate, Somebody Else e Tame A Wild One rhythm and blues trascinanti con i fiati in ritmica, 99 Shades Of Crazy un funky stonesiano. Non sfigurano neppure il mid-tempo soul di Standing On The Edge e l’aspra Harp & Drums introdotta dall’armonica seguita da una chitarra funky e dai fiati prima di una parte cantata con voce filtrata che sfocia in una brillante sezione strumentale jammata, mentre mi lascia perplesso il funkaccio Florabama cantato con un falsetto alla Prince. Complessivamente un buon disco che conferma JJ Grey & Mofro come una delle migliori formazioni di soul bianco del momento.   

 

 

Mise en page 1 

GUY DAVIS feat. Fabrizio Poggi

JUBA DANCE

CD      2013    Dixiefrog/MC Records

 

Guy Davis è uno dei migliori interpreti contemporanei della tradizione blues. Figlio di artisti e attivisti, nato a New York nel ’52, ha registrato il suo primo album nel ’78, poi ha scelto la carriera di attore teatrale e televisivo per alcuni anni, tornando alla musica acustica country-blues con influenze folk con Stomp Down River nel ’95. Da allora ha proseguito con coerenza la sua storia musicale con otto album in studio fino a questo Juba Dance, una collaborazione con il nostro armonicista Fabrizio Poggi, che ha anche coprodotto l’album registrato quasi interamente a Bergamo negli studi Suonovivo con l’ingegnere del suono Dario Ravelli. Alternando tracce soliste a duetti con Poggi, Davis traccia un percorso di rivisitazione del blues acustico con materiale originale scritto come tributo ai grandi del passato che lo hanno ispirato (Son House, Sonny Terry, Mississippi John Hurt) e con qualche cover eseguita con rispetto e passione. Un disco pregevole nel quale spiccano la voce roca e il fingerpicking di Guy spesso accoppiate alla scattante armonica di Fabrizio, che negli ultimi anni è uscito dalla dimensione nazionale, acquisendo esperienze e consensi di grande prestigio con dischi pregevoli come Spirit & Freedom e Mercy. Il ritmato folk di Lost Again apre il dischetto con entrambi i protagonisti all’armonica, seguito da My Eyes Keep Me In Trouble, scattante blues di Muddy Waters. La ballata Love Looks Good On You mi ha ricordato il miglior Kaukonen, mentre il tradizionale Some Cold Rainy Day è arricchito dalla voce gospel di Lea Gilmore. See That My Grave Is Kept Clean è bella per conto suo, ma il banjo di Guy e le voci degli inossidabili Blind Boys Of Alabama rendono questa versione particolarmente incisiva. Nel prosieguo spiccano Black Coffee, tributo a John Lee Hooker con Poggi in primo piano, Did You See My Baby, tributo a Sonny Terry che dal vivo viene interpretato teatralmente, lo spledido folk blues That’s No Way To Get Along del Rev. Robert Wilkens e il country blues Prodigal Son nella versione di Josh White.

Vinilmania Winter Edition

di admin

4 dicembre 2013

Pubb. Late Natale 2013

Una giornata e via, il 21 dicembre presso le sale dell’Ata Hotel in Via Lampedusa 11/A, a Milano. Il popolo vinilico è chiamato a raccolta per festeggiare fra i dischi l’imminente Natale e il nuovo anno. Una edizione straordinaria della più importante fiera del disco d’ Italia che, come sempre, sarà viepiù allietata dal banchetto di LATE FOR THE SKY. Vi aspettiamo!