Archivio di febbraio 2023

AA.VV. – Americana Railroad

di Paolo Crazy Carnevale

26 febbraio 2023

V.A. - Americana Railroad (1)

Various Artists – Americana Railroad (Renew/BMG 2021)

I treni, nell’immaginario musicale americano hanno sempre avuto un posto in primo piano: in un paese immenso con distanze enormi da coprire, la ferrovia è stata un progresso importante, peccato a discapito di due eccidi imperdonabili come quello dei nativi e quello dei bisonti che fecero le spese – gli uni e gli altri – dell’avanzare della cosiddetta civiltà.

I treni, i macchinisti e la ferrovia sono stati protagonisti di fior di canzoni, da Chattanooga Choo Choo a Midnight Special, passando per Kansas City Southern e i classici più tradizionali tipo Orange Blossom Special che l’incedere delle locomotive ce li hanno fin dal ritmo sferragliante su cui sono costruite. C’è gente come Johnny Cash che ha scritto e interpretato decine di canzoni ferroviarie, e ci sono gli eroi dell’epopea ferroviaria come Joe Hill e Casey John, sulle cui leggende si basano numerose canzoni.

Va da sé che qualcuno abbia avuto l’idea di fare un disco dedicato a questi temi: parliamo di Carla Olson, già leader dei Textones e sparring partner di Gene Clark a metà anni ottanta. La Olson, rockettara di razza, con conoscenza profonda della materia, ha chiamato a sé una serie di colleghi, talvolta molto blasonati, tal altra più di nicchia, ma comunque tutti all’altezza della situazione, per registrare i brani destinati al progetto. Qualcuno si è limitato a fornire qualcosa che aveva già pronto nel cassetto e magari già pubblicato, qualcun altro invece si è rimesso in gioco accettando la sfida ex novo. Quel che conta è che il doppio vinile uscito col titolo di Americana Railroad è un bel disco, con una serie di belle cover non sempre scontate, alcune davvero eccellenti, altre basate su brani poco noti o addirittura opera dell’interprete stesso, come è il caso della fantastica song d’apertura, Here Comes That Train Again scritta da Stephen McCarthy per i Long Ryders e qui da lui rifatta insieme alla Olson (con cui ha attivo un progetto come duo). Robert Rex Waller Jr., si mantiene sullo stesso livello qualitativo con una grintosa cover di The Conductor Wore Black, ripescata dal repertorio dei Rank & File, anche qui c’è la Olson ai cori. Rocky Burnette gioca facile con la classica Mistery Train e il risultato è anche in questo caso tra le cose più interessanti del doppio album, tra gli accompagnatori ci sono il mitico Barry Goldberg alle tastiere e Mickey Raphael all’armonica.

Peter Case gioca invece a fare le cose spartane e in quasi totale solitudine (c’è solo la seconda voce di Jesse DeNatale) rifà This Train nell’arrangiamento che fu di Sister Rosetta Thorpe. Chiude la prima facciata il leone di Berkeley, John Fogerty che offre al progetto la City of New Orleans di Steve Goodman apparsa nel suo album inciso coi figli durante i vari lockdown.
Marrakesh Express ripresa dai Dustbowl Revival apre il secondo lato senza entusiasmare, assolutamente meglio Kai Clark che omaggia la musica la musica del suo immenso padre con Train Leaves Here This Mornin’. Gene Clark era uno che aveva l’ossessione dei treni e questa ossessione tornava di tanto in tanto nelle sue composizioni, Kai offre la versione incisa per il suo disco solista che conta su begli intrecci di chitarra (Done Ian all’elettrica, Kevin Post alla pedal steel e lo stesso Kai all’acustica), il violino è una delle ultime cose incise dal vecchio Byron Berline prima di salutarci per sempre.

Grande energia per la versione di Train Kept A Rollin’ affidata alle cure del trio di Gary Myrick, poi Dave Alvin crea un’atmosfera molto western per Southern Chief, dal lui stesso scritta in coppia con Bill Morrissey, a quanto ci risulta appositamente per il progetto della Olson. Più stucchevole la 500 Miles di Alice Howe, meglio Deborah Poppink con una minimale rilettura della celeberrima People Get Ready di Curtis Mayfield.

Dom Flemons alfiere dell’old time music pedemontana di nuova generazione si cimenta con un brano di sua composizione intitolato Steel Pony Blues dal titolo molto eloquente, il risultato sembra provenire da un’epoca lontana, come si addice all’old time music. John York è uno che non frequenta molto gli ambienti discografici: negli anni sessanta è stato bassista del Sir Douglas Quintet e ha fatto parte della band d’accompagnamento dei Mamas & Papas, il suo nome è però rimasto indissolubilmente legato ai Byrds con cui ha inciso due dischi (tra cui il noto Ballad of Easy Rider). Poi è quasi sparito dalla circolazione, continuando a fare musica senza scopi commerciali, salvo tornare a far parlare di sé per progetti legati alla celebrazione dei Byrds o a livello di titolare per collaborazioni più sperimentali spesso condivise con Chris Darrow. Carla Olson, complice il comune legame con lo scomparso Gene Clark, lo ha voluto a bordo del suo treno e il risultato è una riuscitissima cover della Runaway Train di John Stewart, molto country rock.

Tra i musicisti ferrovieri più noti c’è sicuramente Jimmie Rodgers, i suoi blues yodel sono rimasti celeberrimi nella storia della musica americana delle origini: Paul Burch e Fats Kaplan ci regalano una perfetta ripresa della sua Waiting For A Train. Il terzo lato del disco si chiude con la Freight Train di Elizabeth Cotton eseguita da AJ Haynes degli Sheratones con estrema bravura e ispirazione.

Carla Olson e Brian Ray rockano alla grande su Whiskey Train dei Procol Harum, poi James Intveld è interprete dell’unico brano della raccolta proposto due volte, se la prima versione di Mistery Train era più filologicamente legata a quella di Elvis, qui l’arrangiamento vira più su uno shuffle blues ugualmente godibile.

Robert Rex Waller Jr. ci accompagna verso la fine del disco con una superba interpretazione di Midnight Rail del mai abbastanza rimpianto Steve Young, cantata con voce che profuma di Texas: le chitarre sono opera della Olson e di Todd Wolfe.

La chiusura rivede in pista McCarthy e la Olson con un altro brano di Gene Clark (pubblicato nel frattempo anche sul loro disco in duo) intitolato significativamente i Remember The Railroad, McCarthy ne è la voce principale e ci delizia con i suoi lavori di ricamo sia al mandolino che alle chitarre.

Paolo Crazy Carnevale

PETER ROWAN – Calling You From My Mountain

di Paolo Crazy Carnevale

24 febbraio 2023

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Peter Rowan – Calling You From My Mountain (Rebel 2022)

Il nume tutelare della musica bluegrass (credo nessuno possa aspirare a questo titolo maggiormente di Peter) per festeggiare il suo ottantesimo compleanno ha voluto fare le cose in grande, ha partecipato a fior di raduni nel corso del 2022, suonato in autotributi insieme a giovani colleghi, si è esibito con vecchie glorie sulla breccia almeno quanto lui se non anche da più tempo, soprattutto però, ci ha voluto donare questo nuovo disco, poco più di tre quarti d’ora di bluegrass totale, con il suono della sua chitarra e una voce da far gridare “Chapeau!”.

Non che fossero mancati suoi dischi negli ultimi anni, anzi, la media è di una decina per decade tra ristampe d’archivio e cose del tutto nuovo, ma era almeno da otto anni che Peter non faceva un disco di questo livello, una bella raccolta di canzoni che pesca tra originali e riletture dal repertorio di altri colleghi.

Peter si è fatto aiutare da una classica formazione che oltre a lui vede sfilare il mandolino di Chris Henry, il banjo Max Wareham, il violino di Julian Pinelli e il basso acustico di Eric Thorin, nessuna star, tutti onesti lavoranti di un genere che difficilmente delude, perché il bluegrass è musica vera, genuina, senza trucchi. E Peter Rowan qui allinea una serie di composizioni che quando non sono bluegrass per nascita lo diventano grazie al suo tocco: si va dall’iniziale brano di Woody Guthrie New York Town a Veil Of The Deja Blue composta col fratello Lorin a Come Along Jody del vecchio compadre Tex Logan. Ottima la resa di Little Joe della Carter Family, poi arriva uno degli highlight, nonché singolo di lancio del disco, la composizione autografa The Song That Made Hank William Dance in cui Peter duetta con la voce di Shawn Camp: niente superstar nel gruppo si diceva, ma Peter che è uno sempre sul pezzo, che conosce la scena e ne è riconosciuto guida illuminante, nelle atmosfere irish di A Winning Hand si fa accompagnare dalla chitarra di Billy Strings, nome di punta del bluegrass virato jam degli ultimi anni. E a ruota, la title track ha la voce della fantastica Molly Tuttle a duettare con lui, come se Peter volesse indicare chi sono i nomi che contano nel futuro bluegrass. Lui però ha pure un background ben radicato nel bluegrass delle origini, negli anni sessanta è stato per un po’ il chitarrista dei Bluegrass Boys di Bill Monroe, ecco allora che una composizione del suo maestro ci sta come il cacio sui maccheroni, Frog on the Lilly Pad è uno strumentale dall’impostazione classica, con tutti i break dei solisti che si susseguono senza tirare mai il fiato, inutile dire che gli applausi dono di rigore.

The Red The White And The Blue è una composizione autografa che vede di nuovo la Tuttle, stavolta ai cori e al banjo e Shawn Camp alla chitarra, Light At the End of The World, sempre a firma Rowan risale addirittura al 1971, ci canta le parti basse Mark Howard, presente più avanti anche in Dream Of Heaven. Penitentiary Blues è invecel’adeguamento a la Rown di un vecchio blues di Lightnin’ Hopkins, assolutamente riuscito. Il finale è affidato al medley tutto autografo intitolato Freedon Trilogy formato da Eagle’s Nest, Panther In A Cage e da Freedom State of Mind, di nuovo con il prezioso contributo di Billy Strings, perfettamente amalgamato col gruppo.

Paolo Crazy Carnevale

Ad Agrate Brianza la Fiera del Disco e del CD

di admin

22 febbraio 2023

VOLANTINO AGRATE 26 02 2023

Si svolgerà il prossimo 26 febbraio, presso l’Auditorium Mario Rigoni Stern, in Via G.M. Ferrario 53,
all’interno della Cittadella della Cultura, la nuova edizione della Fiera del Disco e del CD.

Come sempre, ingresso libero, dalle 10.00 alle 18.00.

Late presente con il nuovo numero!

WILLIE NILE: Torino, Magazzino di Gilgamesh, 18/2/2023

di Paolo Baiotti

21 febbraio 2023

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Sembra impossibile che Willie Nile abbia 74 anni! Energico, carico di entusiasmo e di positività come un ragazzino, ha trascinato il pubblico che gremiva il Magazzino di Gilgamesh con un concerto vitale ed esuberante. Dopo una manciata di brani dei torinesi Wooden Brothers che hanno presentato il secondo album Have A Nice Trip (Next Week) guidati dall’instancabile cantante e chitarrista Renato Tammi che si divide tra mille progetti (band tributo a Bruce Springsteen e Rolling Stones, jam rock trio, cover italiane), Willie è salito sul palco accompagnato dal fido chitarrista elettrico di impronta blues Marco Limido con il quale collabora da più di dieci anni.

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La prima parte della serata è stata suonata in duo come previsto dal programma. La ritmata Forever Wild da World War Willie del 2016 ha aperto il set seguita dall’energica This Is Our Time, tipico esempio dell’incrocio tra cantautorato rock e influenze punk di Willie. The Innocent Ones, title track dell’album del 2010, è stata dedicata alle vittime del recente terremoto in Siria e Turchia, percorsa come tutti i brani dagli inserimenti continui della chitarra di Limido. Dopo The Backstreet Slide dal recente New York At Night e Let’s All Come Together, Willie si è spostato al piano per eseguire la notevole ballata Across The River che ci ha riportato all’esordio del 1980 che fu accolto (giustamente) con entusiasmo dalla critica. In questa versione piano e chitarra si sono intrecciati al meglio ricevendo un’ovazione dal pubblico.

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Children Of Paradise e la storica Sing Me A Song, presentata come una canzone sull’ispirazione, hanno chiuso il segmente elettroacustico. A questo punto a sorpresa Willie ha chiamato sul palco i Wooden Brothers presentati come “the bad boys” con i quali ha suonato sei canzoni senza un vero soundcheck di prova, dimostrando di avere ancora voglia di collaborare e rischiare. Eppure tutto è filato liscio, per merito della professionalità dei musicisti e magari anche del bicchiere di barbera che Willie ha chiesto, affermando la sua passione per i vini piemontesi. Il rock and roll di New York Is Rocking e l’anthem House Of A Thousand Guitars in cui sono citate le principali influenze di Nile hanno riscaldato ulteriormente il pubblico, seguite da un paio di cover molto amate, una velocizzata Blowin’ In The Wind e un’impetuosa Rockin’ In The Free World jammata alla grande.

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Non poteva mancare One Guitar, tratta da The Innocent Ones, che il cantautore ha eseguito in passato dal vivo anche con Bruce Springsteeen, seguita da un infiammato medley degli amati Ramones con California Sun e Sheena Is A Punk Rocker che ha chiuso il concerto. Un paio di brani in più sarebbero stati apprezzati, ma è stata comunque una grande serata di rock and roll.

Paolo Baiotti

THE LONG RYDERS – September November

di Paolo Crazy Carnevale

19 febbraio 2023

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The Long Ryders – September November (Cherry Red Records 2023)

Sono trascorsi quattro anni da quando la band di Sid Griffin e Stephen McCarthy è tornata a produrre nuovo materiale: dopo lo split del 1987 il gruppo si era ricostituito sporadicamente, unicamente per esibirsi dal vivo. Poi aveva provato con un singolo a presentarsi con materiale nuovo; da lì all’uscire con un ottimo nuovo disco di studio intitolato Psychedelic Country Soul il passo è stato breve, al disco sono seguiti apprezzamenti ovunque e i Long Ryders si sono ricreati una credibilità e un affetto da parte del pubblico sia negli Stati Uniti che in Europa.

Purtroppo nel 2021 è mancato improvvisamente il bassista Tom Stevens, il cui ruolo nella band era importante sia a livello vocale che compositivo; i tre soci però non si sono pianti addosso e lo scorso luglio si sono finalmente ritrovati in California, nello studio di Robbie Krieger per dare un eccellente seguito al disco del 2019.

Innanzitutto, nel disco c’è la bella canzone che avevano realizzato come singolo un anno fa, appena all’indomani della scomparsa di Stevens: il brano, che s’intitola Tom Tom è una composizione eccellente nata praticamente al telefono, vista l’impossibilità del trio a viaggiare a causa del Covid. Appena però la vita è tornata ad una certa normalità, Griffin, McCarthy e Sowders si sono trovati per registrare la canzone, una commovente ballata scritta da tutti e tre col produttore Ed Stasium e sorretta perfettamente dall’armonica e dal mandolino di Sid e parimenti dalla pedal steel di Stephen.

Inutile dire che questa composizione è andata a finire dritta dritta sul disco September November, previsto in uscita per il 10 marzo e che noi abbiamo avuto la fortuna di poter ascoltare in anteprima per intercessione di Griffin e McCarthy.

Si tratta di un disco solido, ben costruito tra brani di atmosfera acustica (prevalentemente opera di Sid, che nel suo eremo londinese tutte le settimane si trova in un pub per delle jam bluegrass insieme a gente del posto) e altri più legati alla natura rock, country rock ma anche psichedelica che è sempre stata il marchio di fabbrica di questo gruppo.

La title track, posta in apertura è una bella canzone con quegli evidenti richiami jingle jangle: Griffin che ne è l’autore ha pensato bene di fondere le atmosfere outlaw d’altri tempi con il tema del crimine informatico che vede qui come parente stretto del furto di cavalli del vecchio west. Seasons Change è invece un classico brano di Stephen, che vi suona delle grandi chitarre e si mostra in grande forma compositiva. Da parte sua il batterista Sowders sostiene energicamente ogni singola nota. Più lenta Flying Down, chitarre twang e la voce di Griffin in uno dei suoi momenti migliori.

Stephen risponde parimenti con una grintosa canzone intitolata Elmer Gantry Is Alive And Well, ispirata al predicatore ciarlatano interpretato da Burt Lancaster in un vecchio film di Hollywood: ritmica sostenuta, il testo cantato in parti uguali dai due chitarristi, giusto per ribadire che all’interno dei Long Ryders la collaborazione è sempre ben accetta e di casa. Hand Of Fate ha qualche reminiscenza di The Band, complice il suono acustico del mandolino di Sid, del violino di Krenza Peacock (che suonava già nei Coal Porters di Sid) e di un sottofondo d’organo alla Hudson.

A questo punto c’è una composizione strumentale di Sid, Song For Ukraine, che indica come il gruppo sia sempre sul pezzo anche a livello di temi affrontati: un quartetto d’archi accompagna chitarre acustiche e mandolino, Sowders ci mette una spolverata di percussioni. To The Manor Born vede di nuovo le incendiarie chitarre stendersi sul tappeto d’organo, bella la struttura che a tratti ricorda Neil Young, anche nel break di chitarra.

That’s What They About Live è un altro brano d’ispirazione acustica firmato da Sid, svisate swing rimandano direttamente a Django, la Peacock è di nuovo presente al violino.

Ancora chitarre acustiche e violino sono la base di Country Blues, stavolta l’autore è Stephen; segue il brano dedicato Tom Stevens e la breve e ancora acustica Until God Takes Me Away con la voce di Sid, poi il gran finale con il ripescaggio di una composizione del defunto bassista, già apparsa sul suo terzo disco come solista. Flying Out Of London era una bella canzone ispirata dallo scioglimento del gruppo all’indomani del tour di Two Fisted Tales. I Long Ryders l’hanno spogliata del suo abito originale, tenendo la voce e il basso dello scomparso compare e le voci femminili della figlia di lui, Katheryn: il risultato è un altro bell’omaggio a Tom Stevens, la ballata è una commovente dedica e l’arrangiamento è vincente, con il mandolino sempre suonato da Griffin e le chitarre (elettrica e pedal steel) di McCarthy che si srotolano sul tappetto dell’organo probabilmente suonato da Ed Stasium.

Una fine migliore per un signor disco non ci poteva essere: e a ben vedere anche se questo in definitiva è solo il quinto di studio del gruppo, viene da notare che non ce ne sia uno che non valga la pena di avere.

Paolo Crazy Carnevale

FABRIZIO POGGI – Basement Blues

di Paolo Crazy Carnevale

19 febbraio 2023

fabrizio poggi

FabrizioPoggi – Basement Blues (Appaloosa/IRD 2022)

Ci riesce sempre a sorprendere Fabrizio Poggi, sia che se ne salti fuori con un disco nuovo di zecca, che con un progetto tematico come gli ormai molti dischi usciti negli ultimi anni (pensiamo a Spaghetti Juke o il disco del 2021 condiviso con Enrico Pesce).

Stavolta, come fanno i musicisti di razza che ha frequentato nella sua lunga carriera (con i Chicken Mambo, da solo o con Guy Davis), Fabrizio ha ravanato nei suoi forzieri e messo insieme una brillante raccolta di brani che erano in qualche modo rimasti senza casa, o parafrasando il titolo, erano rimasti in cantina.

Il titolo di questo bel disco chiama però in casa anche un’altra cantina: non quella buia dove noi respiravamo piano, bensì quella di West Saugerties, stato superiore di New York, dove Bob Dylan, Robbie Robertson, Rick Danko, Richard Manuel e Garth Hudson si trovavano a jammare nei mesi successivi all’incidente motociclistico che tutti sanno. Levon Helm sarebbe arrivato, o quantomeno tornato, dopo.

La foto di copertina ci consegna addirittura Fabrizio e la sua armonica che sbucano fuori da un modellino ligneo della casa con la facciata rosa: il nostro armonicista è particolarmente legato a quelle atmosfere anche per via dell’amicizia di lunga data che lo lega a Hudson.

Venendo allo specifico del disco, la cosa che stupisce è la magia che si sprigiona da una traccia all’altra, la pulizia del suono, il fatto che ogni brano si sposi alla perfezione con quello che viene prima e con quello che lo segue, pur essendo stati incisi in contesti e tempi differenti. Tutto è stato registrato tra il 2010 ed il 2015, per lo più i brani vedono l’accompagnamento di Enrico Polverari alla chitarra, splendido sparring partner, sia che ci sia solo lui alla chitarra, sia in versione full band. A dominare ovviamente sono la voce intrisa di soul di Fabrizio e la sua inconfondibile armonica, a volte molto folkie, altre filologicamente blues (pensiamo alle due outtake di Spaghetti Juke Joint in cui al fianco di Fabrizio c’è nientemeno che la chitarra di Ronnie Earl). Ci sono ben tre brani con il bluesman Guy Davis, uno di studio e due tratti dai concerti americani che Fabrizio ha tenuto con lui nel 2014: la lunga Black Coffee, Little Red Rooster e See That My Grave Is Kept Clean, tutte particolarmente vibranti e belle testimonianze dell’affiatamento tra i due musicisti.

In John The Revelator, outtake di Mercy oltre band italiana c’è nientemeno che Garth Hudson col suo organo.

Nel disco però non ci sono solo classici riconosciuti e riconoscibili del genere, Poggi si conferma preparato anche in sede di composizione e le sue canzoni originali, Midnight Train, Your Light, Blues For Charlie, l’iconica Boogie For John Lee Hooker la dicono lunga su quanta strada e quanta dedizione ci siano nelle lamelle dell’armonica di questo musicista. Ascoltate come si approccia all’immortale The Soul Of A Man di Blind Willie Johnson, basterebbe questa da sola a fare di questo disco un superdisco, se poi contate tutto il resto…

Paolo Crazy Carnevale

THOSE BARREN LEAVES – W.I.A.B.R.

di Paolo Baiotti

16 febbraio 2023

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THOSE BARREN LEAVES
W.I.A.B.R.
Autoprodotto 2022

Those Barren Leaves prendono il nome da un racconto satirico di Aldous Huxley del 1925. Si tratta di un duo svedese formato da Marit e Martin Deybler Holmlund, coadiuvati in questa occasione dalle tastiere di Klas-Henrik Horngren e dalla batteria del produttore Kristoffer Ragnstam, aggiunte nel 2021 quando è stato possibile ritornare in studio. Infatti dopo l’esordio di Directions, superati i problemi della pandemia incorsi mentre stavano registrando il loro secondo disco, sono finalmente riusciti a terminarlo l’anno scorso. Sebbene la copertina evochi immagini drammatiche da disco di metal/doom, in realtà la coppia suona un rock melodico influenzato dal pop/rock degli anni novanta e ottanta con echi di U2 e altre band britanniche di quel periodo come nella traccia iniziale Feel cantata da Marit su tonalità alte, seguita dalla più robusta e grintosa Million Forever interpretata da Martin, che ha una voce meno caratteristica. In realtà pur suonando piacevole e scorrevole, il disco manca in alcuni momenti di personalità e di originalità nella costruzione dei brani. La lenta No Sides inserisce un pizzico di psichedelia nell’accompagnamento alla voce sognante di Marit, mentre la lunga Read Between the Lines ha un suono e un feeling da anni ottanta. Nel prosieguo si distinguono l’oscura e affascinante By Your Side che sembra mischiare Velvet Underground e Dead Can Dance, il mid-tempo After The Storm (in una nuova registrazione) venato di echi gotici in cui si fa notare positivamente anche la voce di Martin e la ballata rock Matters Of The Heart con una chitarra abrasiva.

Paolo Baiotti

MONSTER – Life Science

di Paolo Baiotti

2 febbraio 2023

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MONSTER
LIFE SCIENCE
Paraply 2022

Nella presentazione sul loro sito dell’esordio Life Science, gli svedesi Monster scrivono ironicamente che “si tratta probabilmente del debutto meno atteso della storia”, nonché di un rimedio contro l’assurdità dell’autotune e di una genuina raccolta di dieci brani old-school nella quale ogni canzone conta veramente, senza riempitivi e con nessuno spreco.
Monster è una formazione underground di Uppsala guidata da Olov Lundberg (voce, chitarra e tastiere) con Henrik Nilsson (batteria), Markus Wilkman (basso) e Mikael Hanstrom (chitarra). La loro musica ha evidenti riferimenti al classic rock con richiami alle tastiere e ai synth degli anni ottanta. Bridges Of Glass apre il disco incrociando echi prog e una batteria un po’ troppo monocorde, con un crescendo strumentale avvolgente nella seconda parte, When Winds Bent The Grass ha un feeling elettroacustico aprendosi in una riuscita coda strumentale, mentre la successiva On My Way ha una naturale musicalità dovuta ad una melodia accattivante e alla rilassata interpretazione vocale di Olov con qualche influenza dei Beatles e di David Bowie, che si ripete nella scorrevole Spacechild. A metà disco viene inserita l’unica traccia cantata in svedese, Skogens Man (l’uomo nella foresta), intensa e drammatica con una chitarra incisiva e una notevole prestazione di Olov che abbassa e indurisce la tonalità vocale.
Nella seconda parte dell’album, complessivamente meno convincente, spiccano la ritmata Save Me, la successiva Particle Arts che ricorda il suono dei Wilco con le tastiere in primo piano e la dissonante Into The Sea tra new wave e indie rock.

Paolo Baiotti