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JONATHAN WILSON – Dixie Blur

di Paolo Crazy Carnevale

20 luglio 2020

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JONATHAN WILSON – Dixie Blur (Bella Union 2020, 2 LP)

Ci voleva un disco così per Jonathan Wilson, dopo le perplessità lasciate dal suo LP precedente che avevano lasciato l’amaro in bocca a chi aveva apprezzato i suoi Gentle Spirit e Fanfare, nonché un paio di suggestivi EP usciti in occasione di passati Record Store Day e Black Friday.

Wilson, che è soprattutto un grande manipolatore di consolle e creatore di suoni ci aveva abituati ad un sound moderno ma dalle radici ben piantate negli anni settanta e nei tardi sessanta: echi di Grateful Dead, Pink Floyd, ma anche del grande cantautorato californiano erano stati alla base dei suoi dischi più applauditi, e negli EP aveva dimostrato di saper scegliere anche azzeccate cover per nulla scontate da proporre al suo pubblico.

Spostatosi dalla West Coast al Tennessee, ora Wilson mette sul piatto una quindicina di nuove tracce registrate a Nashville con l’aiuto di musicisti del posto e del producer Pat Sansone, con cui divide i crediti in sede di regia. Nashville vuol dire country music, ma non solo, vuol soprattutto dire studi molto professionali ed al tempo stesso a misura d’uomo e vuol dire musicisti in grado di riprodurre qualunque atmosfera sonora, con umiltà e professionismo, senza sbavature e sempre all’altezza della situazione.

E questa è la caratteristica principale del disco, che ci restituisce le buone cose del Jonathan Wilson che abbiamo apprezzato sui dischi succitati e nelle sue rare apparizioni dal vivo (ricordiamo in particolare quelle come apripista per Tom Petty & The Heartbreakers nel tour che portò la band in Italia per l’ultima volta nel 2012).

I dischi di Wilson non sono fatti di canzoni memorabili, per quanto ogni brano sia cantato, sono dischi di grandi atmosfere e di suoni spettacolari, e questo Dixie Blur segue una ricetta ben collaudata: Wilson per creare un ponte con Fanfare (che ospitava David Crosby, Graham Nash, Jackson Browne, Mike Campbell, Benmont Tench) ha pensato bene di iniziare la scaletta con una cover, ma non una cover scontata e stra-ascoltata, bensì un brano dei Quicksilver Messenger Service, quella Just For Love che intitolava il loro disco del 1970, quando Dino Valenti (autore del brano) aveva assunto il comando della formazione. La versione di Wilson supera l’originale, pur non cambiando molto, l’esecuzione è commovente, cantata con ispirazione, con tanto di flauto suonato da Jim Hoke e con grande lavoro di pedal steel (l’incredibile Russ Pahl) e con l’elettrica un po’ nascosta di Kenny Vaughan (dei Fabulous Superlatives di Marty Stuart), il brano si dipana in un crescendo che conquista fin dal primo ascolto, lasciando poi il posto alla prima delle composizioni originali (tutte le altre in pratica), la bella 69 Corvette sorretta dal violino del veterano Mark O’Connor, che duetta con la pedal steel (stavolta la suona Joe Pisapia) mentre Wilson e Sansone arpeggiano con le acustiche e rifiniscono le atmosfere a suon di mellotron: il risultato è una delle più riuscite cose del disco. Segue New Home, brano ancor più soffuso, di nuovo con Pahl e Vaughan, col piano di Drew Erickson più in vista che non nei due brani precedenti.

Il lato 1 si chiude con l’eccellente So Alive, con Wilson particolarmente ispirato, impegnato all’acustica ritmica e alla dodici corde elettrica, di nuovo con un bel pianoforte e soprattutto con Mark O’Connor che oltre a suonare il violino si produce in un entusiasmante assolo di acustica: un’altra delle perle del disco.

Voltando il vinile (color verde menta), incappiamo nella prima traccia in cui fa deliberatamente capolino la musica di Nashville: In Heaven Making Love coniuga bluegrass e atmosfere da avanspettacolo, non è una delle cose migliori nel disco ma entra facilmente in testa e se il violino di O’Connor è la guida del brano, le elettriche di Wilson e Vaughan si spingono in interventi più azzardati. Oh Girl inizia come una lenta ballata pianistica, in cui Wilson e Sansone (qui in veste di bassista, mentre la pedal steel di Pahl tesse il sottofondo) coinvolgono di nuovo Jim Hoke sia al flauto che ad una serie di armoniche dal suono diverso, riconducendo maggiormente ai suoni che avevamo apprezzato in Fanfare. Atmosfere vagamente marinare sono alla base di Pirate, con Wilson impegnato con varie chitarre e O’Connor protagonista di un dolente assolo di violino
Il secondo disco si apre con le atmosfere elaborate di Enemies, una composizione dal refrain accattivante, con chitarre in evidenza ed un’intera orchestra tutta suonata da Wilson con una Arp String Machine. Fun For The Masses è un lento valzer dominato dalla pedal steel (sempre Russ Pahl) e dall’elettrica di Vaughan, mentre il titolare si dedica ad acustica e mellotron. Meno interessante dal punto di vista della struttura risulta Plattform, in cui comunque rimane sempre molto riuscita l’amalgama sonora, meglio il brano che chiude il lato 3, il blues Riding The Blinds, blues in chiave Jonathan Wilson ovviamente, un brano lento e cadenzato, cantato con passione con citazioni di titoli di classici blues nel testo, con uno spettacolare organo suonato da Wilson stesso, e ovviamente lavoro di fino da parte di Pahl e Vaughan quando il brano accelera concedendosi un breve bellissimo break tipicamente country, prima di rallentare per il finale.

Il country irrompe nel brano che apre l’ultima parte di Dixie Blur, col titolo di El Camino Real Wilson mette in pista un’altra composizione in cui lui forse non è propriamente a proprio agio, ma lo sono decisamente i suoi accompagnatori, O’Connor e Vaughan su tutti (niente pedal steel qui). Golden Apples è struggente, intima, sussurrata, con Jim Hoke di nuovo protagonista con l’armonica cromatica e il flauto, Wilson suona la slide mentre Vaughan si occupa qui dell’acustica e Pahl da ulteriore saggio della propria bravura.

Il disco si chiude con Korean Tea, un brano senza strofe, ma non recitato, ancora con Vaughan all’acustica che ricama sul tappeto creato da Pahl, dal mellotron del producer e dal sempre ben inserito pianoforte di Drew Erickson.

Ribadisco, non un disco di canzoni memorabili, ma di suoni penetranti e coinvolgenti da ascoltare e riascoltare lasciandosi rapire senza remore.

JONATHAN WILSON – Fanfare

di Paolo Crazy Carnevale

15 dicembre 2013

Jonathan Wilson Fanfare

 

 

JONATHAN WILSON

Fanfare

(Bella Union 2013)

 

Se il mercato discografico funzionasse come quarant’anni fa, questo secondo disco del mitico Wilson sarebbe uno dei must sugli scaffali di ogni collezionista di dischi. Le cose vanno diversamente ora. Non è una novità. Ciò non toglie che ci troviamo di fronte ad un disco di quelli che lasciano fortemente il segno e, salvo ulteriori belle sorprese, lo possiamo considerare uno dei dischi dell’anno di questo 2013 che volge al termine. Diciamolo schiettamente: non era facile presentarsi all’appuntamento col secondo disco dopo  un esordio come Gentle Spirit, eppure questo poliedrico artista, produttore, pluristrumentista e performer è riuscito nell’intento. In Fanfare troviamo molte delle cose che ci erano piaciute nel suo predecessore e molto altro, non ultime le presenze di alcuni amici che danno al lavoro un tocco di magia in più. Nei due anni che hanno separato il debutto da questo nuovo prodotto, Wilson è rimasto tutt’altro che fermo: ha accompagnato spesso gli amici Dawes e Jackson Browne in concerto, ha pubblicato uno strepitoso EP uscito in occasione del Record Store Day di un anno e mezzo fa, è stato in tour col suo gruppo facendo da supporter (anche nel nostro paese) a Tom Petty & The Heartbreakers, ha prodotto il graditissimo ritorno di Roy Harper ed è andato in tour facendogli da spalla, non ultimo ha tenuto una serie di concerti americani insieme a Bob Weir. Tutte cose che facevano ben sperare per il suo ritorno sul mercato.

La grandezza di questo artista e del suo Fanfare stanno nella sapienza che viene usata per amalgamare i vari stili che lo compongono: ci sono i richiami psichedelici inglesi (Pink Floyd) ma anche quelli americani (Grateful Dead), c’è un tocco di pazzia nel brano d’apertura, una lunga suite che non può non ricordare il beach boy Dennis Wilson (nessuna parentela) e c’è, soprattutto la grande scuola del cantautorato californiano, non a caso uno dei paragoni che si sono letti maggiormente a proposito di Jonathan è quello col primo, indimenticabile e imprescindibile lavoro solista di David Crosby.

Jonathan fa quasi tutto da solo, è uno dei suoi pallini, salvo poi usare una band per i concerti, canta e suona un’infinità di strumenti dalle chitarre al mellotron, al basso al Fender Rhodes, ma i membri del suo gruppo fanno capolino qua e là, soprattutto il batterista Richard Gowen. Il risultato è un affresco sonoro come pochi se ne sono sentiti negli ultimi anni: un doppio vinile o un unico CD con una dozzina di brani di differente ispirazione (in realtà il CD ha un brano in più, ma a vantaggio del vinile va detto che il suono ne esce meglio e che nella pesante confezione cartonata è incluso anche il compact disc col brano in più), con una prima parte molto onirica e dilatata, una centrale molto “canzone” (ma non scontata) ed un ritorno nel finale alle atmosfere iniziali. Le influenze non sono mai concentrate in un solo brano, in una stessa canzone (Illumination) si possono ascoltare contemporaneamente echi del Neil Young di Zuma e dei Pink Floyd più ispirati, così nella fantastica Moses Pain – con le voci di Graham Nash e Jackson Browne, la chitarra di Mike Campbell e le tastiere di Benmont Tench – echeggiano allo stesso tempo i songwriting di Browne e di Bob Weir, e ancora: un altro degli highlight del disco, Cecil Taylor, oltre che essere beneficiato dalle voci di Crosby & Nash – con un bel vocalizzo del Croz vecchio stile – ha una melodia che sembra essere uscita dalla penna del miglior Stephen Stills ed un solo elettrico che richiama il Garcia più geometrico!

Ma attenzione: il disco è sì pieno di ispirazioni altolocate, ma ha una sua anima, è Jonathan Wilson al cento per cento, i modelli si fanno sentire, ma sono così ben mescolati da non farlo risultare un disco derivativo, citazionistico, un mero esercizio di stile. C’è spazio per tutto, persino per un’incursione pseudo latin in Fazòn, ci sono composizioni piene di pathos come Desert Trip in odor di Fred Neil, Love To Love e Future Vision, e se ancora non vi basta, provate a scovare anche un pizzico di Traffic in Lovestrong e di Beatles in All The Way Down.

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/16

di admin

24 maggio 2012

Copernicus-LiveInPrague-L COPERNICUS – Live in Prague DVD (Nevermore 2011)

Nel 1989, qualche mese prima del crollo  del muro di Berlino, il poeta/performer  Copernicus intraprese un tour europeo  che lo portò a toccare alcune città di quei  paesi che all’epoca erano comunemente  definiti d’oltrecortina. Un tour di  successo con cui promuoveva il suo  recente disco Deeper, che grazie ad  un’adeguata radiodiffusione era stato  accolto molto positivamente in quei  paesi, che per quanto riguarda la data  nella capitale dell’allora Cecoslovacchia è  stato anche videofilmato e trasmesso in televisione. Il contenuto del Dvd Live In Prague, pubblicato lo scorso autunno dalla Nevermore con distribuzione Moonjune, ci riconsegna, del tutto intatta l’atmosfera di quella serata. Chi ha avuto modo di visitare i paesi dell’est nei primi tempi dopo la caduta del muro, ritroverà certe atmosfere in queste riprese. Copernicus è accompagnato qui da un quartetto di musicisti comprendente il fido Larry Lirwan, che oltre a suonare tastiere e chitarra, si occupa di alcune parti vocali più cantate, rispetto a quelle recitate da Copernicus. L’atmosfera è la stessa cupa e pessimista che domina anche nelle produzioni discografiche del performer, che nel corso dell’esibizione non disdegna di cambiare d’abito per calarsi meglio nei testi delle sue composizioni, tanto che in Son Of A Bitch From The North lo ritroviamo con un sombrero calato in testa, quasi fosse un campesino guatemalteco come quello di cui il testo parla. In Chichen-Itza Elvis, invece, è Kirwan che sfodera un riff che ricorda alla lontana Not Fade Away, usando la musica al posto del travestimento. I brani conclusivi, Nagasaki e Blood, provenienti dal disco d’esordio di Copernicus, si confermano come composizioni di grande effetto, rafforzato in questo caso dalle immagini provenienti da diverse riprese della serata montate – come tutto il Dvd – in una duplice inquadratura, quella ripresa e trasmessa dalla tivù praghese e quella di Corbett Santana.

Paolo Crazy Carnevale

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DANIELE RONDA  & FOLKLUBDa parte in folk (2011)

Anche se il nome di Daniele Ronda, cantautore piacentino, classe 1983, può suonarvi del tutto sconosciuto, le sue canzoni sono finite nei dischi di alcuni noti personaggi del panorama musicale leggero italiano, da Mietta a Nek, a Massimo Di Cataldo, e prima di questo debutto in chiave folk rock, Ronda aveva al proprio attivo un altro disco solista. Il cambiamento di rotta, la virata verso una sorta di combat folk energico ed ispirato, più in senso musicale che per quanto riguarda i testi, sembra aver fatto bene a Ronda che pur pagando dazio a molta musica italiana riesce ad inanellare una serie di canzoni ben eseguite e sorrette da una strumentazione scarna ed efficace in cui la fisarmonica fa la sua bella parte, senza mai sovrabbondare eccessivamente. Il disco si apre con una canzone in dialetto, La nev e ‘l sul, che non può non farci pensare a i primi Modena City Ramblers o a Van De Sfroos, che guarda caso è ospite in Tre Corsari, una delle canzoni portanti del disco, cantata però in italiano. Altro ospite d’eccezione è Danilo Sacco dei Nomadi, che canta in un intenso brano ispirato alla tragedia di Cernobyl. E la musica dei Nomadi ha sicuramente la sua buona dose di responsabilità nell’ispirazione di Ronda, così come certe cose dei Gang, ma anche –complici la voce e il modo di cantare di Ronda – Ruggeri (ascoltate Polvere e sabbia o la bella Ogni passo per rendervene conto) o il Battiato anni ottanta (l’inizio di Cenerentola, altro brano chiave del disco). Il disco nel complesso è piacevole e tra le note positive vi è anche una produzione abbastanza felice che contribuisce a caratterizzarne il suono.

Paolo Crazy Carnevale

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ED LAURIE – Cathedral (V2  2011)

Una delle belle sorprese di  inizio anno. Devo ammettere che l’occhio, o  meglio l’orecchio, su questo  disco mi è caduto in virtù  del fatto che ho notato i  nomi di alcuni miei  concittadini tra i musicisti  che accompagnano questo  songwriter scozzese, giunto  ormai alla terza prova e  spinto ora da una casa discografica di un certo rilievo come la V2. Cathedral è un bel disco di una quarantina di minuti, come si usava una volta, con dieci tracce mediamente caratterizzate da una buona ispirazione. Si tratta di un disco che entra in circolo mano a mano che lo si ascolta, ben costruito, ben suonato, composto con mano felice ed arrangiato altrettanto felicemente. Nelle recensioni apparse qua e là sono stati fatti paragoni con i Buckley, con Fred Neil e Nick Drake, ma la verità è che Ed Laurie brilla sufficientemente di luce propria senza dover scomodare grossi paragoni, piuttosto, da indiscrezioni ottenute parlando con i musicisti coinvolti si scopre che se mai l’intenzione era di partire da un’idea alla Astral Weeks. Tutta un’altra cosa insomma. E le intenzioni  trovano conferma in brani come Side Of A Candle e la conclusiva title track, una lunga composizione in cui fanno capolino anche le campane del duomo di Bolzano – perché il disco è stato inciso proprio nella mia città – entrate proditoriamente nei microfoni. Il suono gira attorno ad una base di basso, batteria e chitarra su cui si inseriscono sax e violino, un vibrafono, con l’aggiunta in seconda battuta di una scarna sezione d’archi e di  una slide. Ma la colla di tutto è la voce di Laurie caratterizzata da una certa originalità e da un lirismo tutto suo.  Tra i brani migliori, oltre ai due già citati è bene ricordare le iniziali High Above Heartache, East Wind – particolarmente ispirata – e Spirit Of The Stairway. Meno riuscita Across the Border, caratterizzata da suoni troppo stridenti che mal si mescolano col resto di questo interessante disco.

Paolo Crazy Carnevale

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JONATHAN WILSON – Gentle Spirit (Bella Union 2011)

Uno dei dischi migliori tra quelli usciti lo scorso anno. Lo sto ascoltando da mesi a più riprese e di volta in volta mi sento sempre più coinvolto dall’ascolto. Ci sono brani che mi hanno impressionato da subito, ma col passare del tempo mi sembrano più familiari anche gli altri… Jonathan Wilson, a dispetto del cognome, non è uno dei Beach Boys, non è californiano, ma da anni si è trasferito sulla West Coast e per la precisone a Los Angeles, in quel Laurel Canyon che alla fine degli anni sessanta è stato un ricettacolo di artisti di levatura bestiale. Sarà l’aria, saranno i tramonti che si vedono guardando verso il mare, non lo so, ma questo lungo disco di Jonathan Wilson, offre una serie di mappe sonore degne degli illustri colleghi che hanno abitato il canyon molto prima di lui.  Tredici tracce in tutto, alcune molto lunghe ed elaborate, suoni ricercatissimi che vanno a rispolverare un periodo della musica californiana che è difficile dimenticare. Forse la voce di Wilson non è memorabile come quella di David Crosby, non ha le inflessioni nasali di Neil Young o quelle gutturali di Garcia, ma è proprio da quelle parti che il cerchio va a quadrare, perché queste sembrano le influenze principali di questo disco, ci sono le atmosfere rarefatte, le ballate zuccherose, ci sono chitarre acide (Desert Raven e la title track) abilmente mescolate con acustiche delicate (Magic Everywhere e The Way I Feel), ci sono gli assoli distorti trionfali (Valley Of The Silver Moon, autentico inno conclusivo del disco) e ci sono echi di musica cosmica alla Aoxomoxoa.  Il tutto senza che il disco perda un grammo in originalità e credibilità, perché per tessere questo capolavoro Jonathan Wilson si è fatto accompagnare da fior di amici, più o meno noti, il più conosciuto è Chris Robinson, ottenendo i giusti suoni e il le giuste atmosfere, registrando praticamente in casa.  Difetti? Certo, uno davvero grande: l’edizione europea in cd in mio possesso ha note di copertina a stento leggibili, anche con la lente d’ingrandimento. Per fortuna esiste anche in vinile, doppio, naturalmente, vista la durata, ma non so dirvi se ci siano note più esaurienti su chi suoni, cosa suoni e dove suoni. Ma è tutto secondario, la musica è quel che conta: qui ce n’è molta ed è molto buona.

Paolo Crazy Carnevale

moraine

MORAINE – Metamorphic  Rock (Moonjune 2011)

Tra gli artisti in forza  alla  casa indipendente  Moonjune, con sede a New  York, il chitarrista Dennis  Rea è senza dubbio uno dei  più prolifici ed eclettici.    Negli ultimi tre anni è stato  protagonista di altrettanti dischi con altrettante formazioni, esplorando territori jazz rock (in particolare con il quintetto Iron Kim Style), etnici, art rock con la formazione dei Moraine. Questo quarto disco, inciso proprio con i Moraine, è un po’ il sunto di tanto lavoro e la coronazione di tanti progetti con  un bel live registrato a Bethlehem, Pennsylvania, nel corso del North East Art Rock Festival del 2010. La dimensione live si addice molto bene alla musica prodotta da Dennis Rea, che assecondato da un gruppo di musicisti preparati, su tutti la violinista Alicia De Joie (già Alicia Allen, ora sposa del sassofonista del gruppo James DeJoie) offre una performance di altissimo livello.  Il repertorio del live del gruppo di Seattle va a pescare soprattutto in Manifest Density, il disco di studio del 2009, riproponendo una lunga versione di Middlebräu, un medley tra Disillusioned Avatar e Ephebus Amoebus, e ancora Kuru e Uncle Tang’s Cabinet of Dr. Caligari, ma ci s sono anche brani nuovi come Okanogan Lobe e Blues For A Bruised Planet. A impreziosire il disco, il cui missaggio è opera di Steve Fisk (Nirvana, Soundgarden), c’è poi la bella ripresa di un medley che va rispolverare le incursioni di Rea nella musica orientale del suo disco solo: Views Fron Chicheng Precipice, uscito nel 2010.

Paolo Crazy Carnevale

pura fè

PURA FÈ – Tuscarora Nation Blues (Dixie Frog 2006)

Mi sono imbattuto in questo prezioso cd sull’onda della mappa di Late For The Sky cartaceo dedicata agli indiani d’America. Purtroppo l’ho scoperto solo dopo la pubblicazione di quello speciale uscito la scorsa primavera, altrimenti sarebbe entrato di diritto tra i dischi consigliati in quella sede. Cerco di rimediare ora.  Ai più attenti consumatori di note di copertina, il nome di Pura Fè non dovrebbe risultare del tutto ignoto, trattandosi di un’artista che oltre ad aver partecipato a dischi delle Indigo Girls, è anche una delle componenti del trio vocale Ulali, presente tra l’altro nel Red Road Ensemble di Robbie Robertson.  Pura Fè ha origini irochesi della nazione Tuscarora, portoricane e corse ed è titolare di una carriera discografica di tutto rispetto. In questo disco, ribadisco prezioso, fonde con capacità e gran gusto le proprie radici native col blues più tradizionale, realizzando un connubio riuscitissimo che ha dell’incredibile. Tuscarora Nation Blues si compone di tredici tracce per lo più acustiche quasi tutte a firma della protagonista che oltre a sfoderare una voce piena di pathos e molto duttile, suona la slide con sapienza e in qualche frangente anche il piano. Prima di questa edizione europea il disco era uscito negli States col titolo di Follow Your Heart’s Desire, con un paio di brani in meno.  Pochi musicisti la accompagnano in questo blues nativo, un basso, percussioni qua e là, qualche chitarra aggiunta e canti pellerossa ad opera dei Deer Clan Singers che si innestano miracolosamente su trame blues che profumano di altri tempi.  Importante nella riuscita del lavoro è senza dubbio la produzione sobria e calibrata di Tim Duffy e Sol.  Delle tredici tracce non ce n’è una brutta, cosa da non sottovalutare, ma citarle tutte sarebbe dispersivo. Personalmente mi piacciono parecchio You Still Take in cui il coro nativo si infila nel finale di un brano tutto slide, Sweet Willie, forse dedicata a Willie Lowery che accompagna Pura Fè alla chitarra e al canto in tutto il disco. Going Home sembra in qualche modo imparentata col Ry Cooder degli anni settanta, mentre Follow Your Heart’s Desire, forse la perla del disco, è una ballata in cui il piano s’intreccia con una chitarra elettrica acida che ci riconduce ad atmosfere westcoastiane come nella west coast non se ne producono da troppi anni, con armonie vocali che sembrano figlie di David Crosby e Joni Mitchell. Forse non è un caso che la traccia successiva, una delle due cover (ma l’altra è un brano di Willie Lowery) del disco, sia una rilettura di Find The Cost Of Freedom introdotta da un testo originale e terminata in francese.  Credetemi non esagero nel dire che questo disco è una delle produzioni più belle che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi anni, se pur con cinque anni di ritardo sulla sua pubblicazione.

Paolo Crazy Carnevale

Robyn

ROBYN LUDWIK – Out Of  These Blues (Late Show  Records 2011)

Un disco così non poteva  sfuggire all’attenzione di  “Late For The Sky”, non  fosse altro per la bella  copertina  che ricalca a  partire dalle tonalità della  foto per finire con la grafica del titolo, quelle del capolavoro di Jackson Browne da cui la nostra rivista ed il nostro sito prendono il nome.  Premesso che il contenuto del disco poco ha a che fare col cantautore californiano (ma nativo di Heidelberg in Germania!) e che la citazione si limita all’artwork del disco, ascoltando questo prodotto la prima cosa che balza all’orecchio è che si tratta davvero di un buon disco. Buono come se ne producono molti, ma titolare di un suono originale o quanto meno ben prodotto. Robyn Ludwick appartiene chiaramente alla schiera dei songwriters texani, lo si evince subito dal modo di comporre e di cantare, e penso ai texani delle ultime generazioni, non a Willie Nelson e soci.  Nelle sue canzoni ci sono sicuramente le influenze di Lucinda Williams e Steve Earle, ma qua e là emergono anche radici più nere, messe in particolare luce dall’ottimo accompagnamento a base di organo Hammond del sempre grande Ian MacLagan, che si alterna alle tastiere con Gurf Morlix (responsabile come sempre anche di altri strumenti).  Chitarre sobrie, voce decisa, sezione ritmica scarna e precisa, queste le caratteristiche del disco che ha dalla sua anche la presenza di un violino suonato da Gene Elders che  in alcune situazioni fa tornare in mente (e non poco) quello di David Lindley per i dischi di Jackson Browne. Forse perché questa dotata cantautrice texana pare aver imparato bene la lezione dei songwriter della west coast mescolandola perfettamente con quella dei suoi conterranei. Ecco perché i certi momenti l’ascolto della title track e di Hillbilly ci fanno venire in mente certe produzioni di casa Asylum e For You Baby e Woman Now hanno un richiamo, la prima in particolare all’inizio, con lo stile del Neil Young dei primi settanta.  Le dodici tracce del disco scorrono con una piacevolezza unica, forse con l’eccezione della campagnola Can’t Go Back che si discosta stilisticamente dal resto, e piace un po’ meno.  Tra i brani forti si segnalano Fight Song, lenta e cadenzata, l’iniziale Hollywood che fa subito capire di che pasta siano fatti autrice e disco, Steady col B-3 che entra subito sotto la pelle fin dall’attacco.  Questo è solo il terzo disco della Ludwick, ma tutto fa supporre che ce ne dovremo aspettare altri, e di buon livello.

Paolo Crazy Carnevale