Archivio di dicembre 2014

EMMA TRICCA: La reliquia di un carillon

di PJ

25 dicembre 2014

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Di lei si è raccontato quasi tutto. Le origini, la vocazione artistica, la voglia di andare altrove. Dall’Abruzzo, a Trastevere fino a Londra, passando per New York. La fatica quotidiana impastata di caparbietà; la non facile accettazione della propria identità; lo sguardo sempre rivolto alle radici, quelle di casa e quelle del folk. Dopo il successo di Minor White (album del 2009 pluridecorato dalla stampa d’oltremanica e applaudito infine anche da noi) quasi 5 anni di silenzio urlante hanno portato a Relic (per il quale le pluridecorazioni si sono fatte, se possibile, ancora più esplicite). Un periodo pazzesco che l’ha portata a suonare, come artista d’apertura del tour di Jools Holland, su palchi come quello della Royal Albert Hall di Londra o dell’Apollo di Manchester, di fronte a 8mila persone. La rivista Mojo, parlando di lei, tira perfino in ballo una nuova autenticità del folk del Greenwich Village. Altri ancora collocano Tricca tra le regine della canzone d’autore al femminile, affiancandola a nomi che mettono i brividi solo a leggerli: Joni Mitchell, Sandy Denny, Judy Collins, tendendo un arco temporale che proietta un’involontaria luce sul concetto stesso di modernità. L’abbiamo incontrata a Londra, nella sua casa di Stoke Newington, nell’ambiente che l’ha accolta e cresciuta, ora popolato da artisti di ogni genere (qui, ad esempio, si è da poco trasferito Thurstone Moore). Un quartiere animato da gente bizzarra e novelli Lord Byron. Nella dimensione di casa, dove è riconosciuta e rispettata come persona prima ancora che per ciò che produce, Emma si è lasciata andare con noi al flusso di coscienza che vi offriamo nelle righe che seguono. Corrente di riflessioni in cui l’estensore si fa per forza invisibile, lasciando spazio al mistero della creazione artistica. L’invito è di ascoltare Relic senza troppi schemi mentali e farsi condurre per mano dal medesimo flusso, incarnato in canzoni che, realmente, possiedono una particolare magia: sanno parlare a ciascuno della propria fragilità.

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“Dopo Minor White ho continuato a scrivere e mi sono ritrovata con una collezione di nuove canzoni che volevo registrare con le stesse persone; sentivo che con loro potevo affidarmi e superare le mie paure innate di uno studio. Ciò che Carwyn Ellis (leader dei Colorama e produttore di Minor White, nda) aveva tirato fuori da quel disco era prezioso; mi aveva dato la possibilità di essere me stessa e nel contempo conoscere qualcosa che ancora non avevo esplorato”. Naturale, quindi, e anche confortante, ci racconta Emma, registrare le canzoni di Relic in questa dimensione di protezione e ascolto reciproco. Anche a rischio di ripetersi. “Partivo dalla forte consapevolezza che Carwyn stesso non ama ripetersi e, del resto, mi spronava continuamente a guardare un altro lato di me, che emergeva anche dai nuovi brani; infatti, la prima sessione ha fatto affiorare un’identità generale lievemente più pop. E’ successo però che, nella rosa delle canzoni, ce n’era una che ancora non avevo finito, Golden Chimes. Quando Carwyn ne ha sentito l’accenno, in una sessione successiva, mi ha costretta a concluderla: avevamo ultimato e registrato la struttura musicale e lui mi ha inchiodata alla sedia per completare le parole”.

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Teniamo in mente questo dettaglio perché, subito dopo, nel luglio del 2011, le vicissitudini dei London Riots, l’incendio dei magazzini dell’etichetta nei roghi di Croydon, tengono tutto fermo per qualche mese. “Quando Andy Votel e Jane Weaver, manager della mia etichetta Finders Keepers e miei veri fan, riprendono in mano quelle registrazioni, rimangono incantati proprio da Golden Chimes e mi chiedono di lavorare nuovamente ai brani con l’idea di sviluppare meglio quell’identità, più intima e più folk, se vogliamo”. Con questa sintonia quasi cosmica tra Ellis, Emma e l’etichetta, il brano germoglia nuovamente e in maniera naturale come contenitore e, aprendo e chiudendo idealmente il disco, diventa il palmo della mano su cui vengono accudite di nuovo le altre canzoni. Remixando tutto l’album con questa sensibilità, il disco ha così mosso i suoi passi concreti, sia in senso pragmatico, riferito alla sua pubblicazione, sia spostandosi avanti di una decade rispetto a Minor White, album che poteva essere paragonato alle registrazioni fatte negli anni ’60, come ci conferma la stessa Tricca. “Ritornando in studio, Andy Votel mi portò proprio l’esempio di due dischi che io amo profondamente: Illuminations di Buffy Sainte Marie (del 1969, nda), più fisico e perfino elettronico e Parallelograms di Linda Perhacs (1970), psichedelico ed etereo, spronandomi a lavorare alla voce come nei dischi di Leonard Cohen, in primo piano e senza effetti”.

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Il nuovo disco, le sue vicissitudini così strettamente legate alla vita dell’artista (nel frattempo, Emma stava vivendo una lacerante separazione affettiva), contiene tutte queste fragilità che sembrano farsi carico anche del peso emotivo di Minor White. Fragilità che finiscono per simbolizzare la vera forza di questi brani, intrisi di quella solida fierezza sottolineata nelle recensioni entusiaste pubblicate ovunque. L’innata timidezza di Emma, il giudizio rigoroso su se stessa, le impediscono quasi di ascoltare adesso le canzoni e perfino quando vengono trasmesse dalla radio, lei prova a mantenere un certo distacco da esse (cosa che succede proprio mentre stiamo chiacchierando). “Sento di padroneggiarle così come sono state registrate, le avverto mie e mi sento in sintonia con le persone che mi accompagnano in tour (solitamente, il fido chitarrista Andrea Garbo e due coriste, nda). Mi riconosco in quello che sto suonando, ma mi accorgo anche che, nelle nuove canzoni che scrivo, il mio linguaggio sta cambiando: nuovi riferimenti mi stanno spingendo avanti. Mi sento più psichedelica (ride) e vorrei lasciarmi condurre da questa immediatezza. Cerco di fare spazio a tutto quello che assorbo e che mi ha portato fin qui, ma di non razionalizzarlo, di non orientarlo. Quando una canzone mi arriva, devo solo essere pronta a prenderla per mano e vedere dove mi porta; magari capita mentre sono a letto o mentre sbrigo le faccende di casa”.

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Nel gioco dei riferimenti, nel leggere quello che le persone vedono, Emma comprende quanto le canzoni di Relic vadano a toccare corde personali e intime di ognuno: “Mi ha colpito in modo particolare, ad esempio, leggere che qualcuno abbia collocato questi brani tra Nico e Bjork, due musiciste che funzionano in modo completamente diverso. Tu mi hai appena citato Sandy Denny, che è una dei miei cardini. Ecco, il fatto che si colgano tutte queste eco, mi fa capire quanto io sia una spugna. Scherzando, potrei aggiungere di sentirmi l’anello di congiunzione tra Gigliola Cinquetti e Patty Pravo”. Il collegamento con la canzone italiana non è però solo giocoso e casuale: partita dal Folkstudio di Cesaroni, Tricca ha assorbito la cultura nazionale per il fingerpicking americano (ai tempi De Gregori ne era il portabandiera) facendone il perno della ricerca di un proprio linguaggio artistico. “Il fingerpicking è come se mi avesse trovata, in qualche modo. Passavo giorni interi a provare quei due o tre pattern, finché non ho tirato fuori il mio suono e, inevitabilmente, la mia forma canzone, molto quadrata, molto rispettosa dei canoni. Se senti Dylan, non che io mi paragoni a lui ovviamente, ci sono delle strutture che si ripetono e nell’universo parallelo in cui nascono i miei brani, sento di appartenere a quella sensibilità nello scrivere, così come mi sono rimaste impresse nella memoria alcuni ragazzini che, nella mia infanzia, suonavano la fisarmonica in maniera quasi eccezionale”.

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Gli anni in cui Emma è cresciuta, le aspettative tradite nei confronti di una famiglia che la voleva studente diligente e professionista affermata, i sensi di colpa verso questo tradimento, l’ascolto della voce che la conduce a seguire la propria vocazione, sono le coordinate profonde dell’arte di Emma, l’impasto di cui le canzoni si nutrono per poi tratteggiare immagini poetiche fatte di incontri casuali, solitudine, senso di appartenenza. “Il mio prozio, alla fine dell’800, soffrì molto per questa dicotomia: amava dipingere e così manifestò il desiderio di frequentare l’Accademia delle Belle Arti, ma fu osteggiato da suo padre che voleva a tutti i costi che si occupasse delle cose di famiglia. Finché un giorno non dipinse una figura accovacciata, illuminata a scacchi dalla luce che filtrava dalla finestra; solo quando il mio bisnonno vide questa cosa, allora lo lasciò andare. Io mi sento un po’ simile: dopo tutte le recensioni uscite per i miei due dischi, sono maggiormente consapevole delle mie doti, ma credo molto nell’intuito doloroso iniziale che ti porta su una strada e che su questa strada ti porta poi a incontrare tutte le persone che ti aiutano a realizzare il tuo percorso; nel mio caso Giancarlo Cesaroni, Odetta, John Renbourn, passando per i giornalisti del club folk di NME, fino a Andy Votel e Jane Weaver e tutti gli altri. Solo Albert Grossman non mi ha ancora trovata (ride)”.

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Chiudiamo il resoconto di questo incontro a mezza voce, con qualche semplice suggestione dei brani di Relic, disco che sprigiona la sua bellezza nei chiaroscuri e nei respiri, anche quelli fissati sul pentagramma. Golden Chimes possiede davvero quella magia capace di inchiodarti a un ascolto empatico, relegando sullo sfondo le tue occupazioni per fare spazio alla potenza trasformatrice di un arpeggio quasi impalpabile e di suoni appena evocati nell’ambiente, guidata da una voce che pare essere quella del tuo spirito. Nella sua dissolvenza, la canzone lascia il posto alla dolcezza antica di Sunday Reverie, fiammella tremolante che si schiude tra folk e carillon. Coffe Time incanta per gli arrangiamenti soffusi e il senso di mistica preghiera. Il primo vero stupore giunge con la straordinaria November at My Door, esplosione floreale in forma di musica che sboccia di fronte ai nostri occhi e ci conduce lontano, in un senso di comune unione con gli artisti folk che l’hanno preceduta in questo nobile compito. La voce, una bambola di porcellana, come ha scritto il NME, si fa più colorata nella struggente All The Pretty Flowers, innervata da frustate di morbida psichedelia, aprendo il cuore alla poetica The Painter, ritratto di rara bellezza ammorbidito dal wurlitzer ispiratissimo di Carwyn Ellis. Distant Screen è quasi una ninnananna in forma di istantanee, incorniciate dentro a sonorità dolcissime e struggenti e impreziosite dalla bellissima tromba in lontananza di Sean Reed. Take Me Away adagia il suo arpeggio onirico sulle onde una slide; A Drunken Conclusions spetta il compito di riconsegnarci nuovamente a Golden Chimes, perché la fine non è che un nuovo inizio.

Le foto di questi servizio sono di Chiara Meattelli, che ringraziamo per la cortese collaborazione

da LFTS n.119

GREG HARRIS – Long Lonesome Feelin’

di Paolo Crazy Carnevale

23 dicembre 2014

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GREG HARRIS
Long Lonesome Feelin’
2014 Appaloosa CD

La rinata Appaloosa Records non conosce battute d’arresto e ci delizia i padiglioni auricolari con questa nuova fatica del chitarrista/mandolinista/banjoista, nonché cantante, che per un certo periodo ha ridato linfa ai Flying Burrito Brothers. Greg Harris non è certo un nuovo arrivato in casa Appaloosa, l’etichetta lombarda aveva dato alle stampe negli anni ottanta i suoi secondo e terzo lavoro, dischi dal sapore antico e genuino, come del resto è questa nuova produzione che giunge gradita quanto inattesa. Sempre su Appaloosa, negli anni novanta era poi uscito un quarto disco, meno convincente.
Per la verità qui abbiamo a che fare con una sorta di sunto di due lavori di Harris che non avevano avuto diffusione nel nostro paese, The Record, che era stato reso disponibile solo attraverso il sito del nostro, e The Last Of The Great Old Country Rockers uscito lo scorso anno solo in versione download da CD Baby.
Due bei dischi, ma questo Long Lonesome Feelin’ è di più, degli altri due fa una scelta oculata e interessante, miscelando sonorità texas swing ad atmosfere acustiche penetranti caratterizzate da un sapiente uso degli strumenti a corda, acustici ed elettrici, suoni scarni, ma capaci di inscenare scenari drammatici ed evocare atmosfere perdute.

Greg Harris si conferma autore di spessore e interprete capace, inoltre riesce a sfornare una cover di Do Right Woman che non ci si aspetta. Prendendo le mosse da quella dei Burritos, Hillman-Parsons era, riesce a dare una nuova veste acustica quasi spagnoleggiante al classico di Aretha Frankin che fa venire i brividi tanto è bella.

Ma non pensate che sia tutto qui, Harris ci mette soprattutto del suo e se The Guilded Palace Of Sin è una sorte di ode, sia per le parole che per la citazione strumentale del tema di Wheels, ai Burritos, la title track è invece puro Harris sound nella vena che aveva caratterizzato il terzo disco del nostro, Things Change, nel 1988.

The Last Of The Great Old Country Rockers, Wills Point e Where’s Your Cowboy Hat pagano dazio alla passione di Harris per lo swing texano, ma il meglio arriva poi con Can You Fool dai risvolti acustici e Brother Lee Love brano intensi venato dai suoni della Telecaster intersecata con violino e mandolino, con Dale’s Tune, accattivante tema strumentale in odore di bluegrass. Degna di nota anche Long Road To Nowhere, mentre Mexico è una ballata d’atmosfera firmata con Rick Danko, probabilmente ai tempi in cui i Burritos guidati da Harris giravano insieme al carrozzone del tributo ai Byrds di Gene Clark, a metà anni ottanta.

Christmas Records: Una Tradizione Americana

di Paolo Baiotti

19 dicembre 2014

Da sempre il mercato americano è inondato nel periodo natalizio da dischi dedicati alle festività. Pochi artisti ne sono stati immuni, dai più popolari a quelli di nicchia quasi tutti si sono cimentati nel disco natalizio. Elvis Presley, Bing Crosby, Willie Nelson, Johnny Cash e più recentemente Michael Bublè e Rod Stewart hanno venduto milioni di copie con album che ogni anno tornano sugli scaffali dei negozi e dei grandi magazzini reali o virtuali. Noi quest’anno ci dedichiamo ad artisti meno conosciuti che hanno recentemente pubblicato album meno scontati e zuccherosi di quelli sopra citati.

 johnny neel

JOHNNY NEEL

MY KINDA CHRISTMAS

www.johnnyneel.com 2014

 

L’ex tastierista di Dickey Betts e degli Allman Brothers, autore di canzoni per John Mayall, Delbert McClinton e Joe Louis Walker, nonché collaboratore dei nostri W.I.N.D. e Jimmy Barbiani, ha realizzato un disco natalizio inconsueto per gli arrangiamenti. I brani tradizionali sono riproposti in modo decisamente personale: l’iniziale Jingle Bells è trasformata in un rock and roll trascinante e ballabile con piano e organo in evidenza, Rudolph (The Red-Rosed Reindeer) diventa un rhythm and blues con le cadenze di New Orleans, mentre il super classico Silent Night è avvolto dai toni gospel dell’hammond, interpretato con rispetto dalla voce roca e un po’ stanca di Neel. Si prosegue con una Merry Christmas Baby accelerata e bluesata con tanto di armonica e piano boogie e White Christmas spezzata da una ritmica reggae non del tutto riuscita, ma con un azzeccato assolo di piano e una chitarra raffinata. Santa Claus Is Lonely è l’unica traccia firmata da Neel, un boogie piacevole di discreta fattura nel quale spicca la chitarra di Jon Conley, mentre il disco è chiuso da Silver Bells, famosa nelle versioni di Bing Crosby, Perry Como e Stevie Wonder, un soul-blues pianistico arrangiato adeguatamente.

 farmer jason

FARMER JASON

CHRISTMAS ON THE FARM

Courageous Chicken 2014

 

Jason Ringenberg è il leader di Jason & The Scorchers, uno dei migliori gruppi di americana/alternative country degli anni ottanta. La band è ancora attiva, seppur saltuariamente e ha festeggiato il trentennale con un dvd dal vivo. Jason ha esordito come solista con un disco di folk acustico nel 2000, seguito da un lungo tour. Due anni dopo ha creato il personaggio di Farmer Jason, per educare e intrattenere i bambini (in primis i suoi), insegnando le fondamenta della vita di campagna e del rispetto della natura (nato in campagna e amante della natura, vive in una fattoria nel Tennessee). Ha inciso quattro cd e un dvd e vinto numerosi premi per questo tipo di attività, che gli ha dato probabilmente più popolarità di quella country-rock. Christmas On The Farm è un disco natalizio per bambini, finanziato da una campagna di fundraising, nel quale le canzoni tradizionali o autografe sono spesso precedute da introduzioni parlate e informative. Tuttavia si ascolta con piacere e almeno a tratti ricorda l’esperienza di alternative rock dell’autore. Il country campagnolo della title track, il country-rock di Santa Drove a Big John Deere, il cow-punk di All I Want For Christmas (Is A Punk Rock Shunk), il punk leggero di The Animals Sang e il rock grintoso di Eat Your Fruitcake si alternano a brani più tradizionali, non privi di ironia e meno scontati di quanto possa sembrare.

 blind boys

THE BLIND BOYS OF ALABAMA & TAJ MAHAL

TALKIN’ CHRISTMAS

Masterworks 2014


Seppur rimaneggiati e fiaccati dall’età avanzata, i Blind Boys Of Alabama restano un punto di riferimento per gli amanti della musica soul e gospel. Hanno collezionato un numero incredibile di partecipazioni e continuano ad incidere con regolarità. Questo album natalizio vede per la prima volta le voci di Jimmy Carter, unico membro della formazione originaria, Ben Moore e Paul Beasley affiancate dal newyorkese Taj Mahal, un altro grande vecchio della musica nera. Bluesman attivo dagli anni sessanta, polistrumentista curioso e multiforme che ha cercato di fondere il blues con world music e folk, Taj è un’icona ancora attiva e rispettata in tutti gli ambienti musicali. In questo disco, raffinato e molto curato negli arrangiamenti, le voci e gli strumenti si fondono quasi sempre in modo riuscito, in particolare nella ballata gospel What Can I Do?, nel soul d’atmosfera Merry Christmas To You e nella morbida Jesus Was Born dove i cori dei Blind Boys avvolgono il cantato di Mahal, mentre Who Will Remember? riprende i dettami della classica ballata soul. La trascinante Merry Christmas, un po’ scontata tra soul e country, chiude un disco da ascoltare intorno al camino aprendo qualche pacchetto (magari discografico…).

Vinilmania Christmas Edition

di admin

16 dicembre 2014

Late Vinilmania Natale II

Ci siamo!

RIDE – Come un sogno ad occhi aperti

di Marco Tagliabue

7 dicembre 2014

Furono le labbra sensuali di Nastassia Kinski, impresse a fuoco sull’etichetta tonda del vinile, a costituire lo strano lasciapassare dei Ride per il rutilante mondo dell’indie rock d’Albione. Erano avviluppate in un bouquet cartonato di avvenenti rose rosse, la fuorviante copertina del Ride EP che, con i primissimi vagiti dell’anno di grazia 1990, portò per la prima volta il nome della band fra le grinfie di pubblico e media. Fuorviante perché il contenuto del supporto, in effetti, poco rifletteva il romanticismo del suo aspetto esteriore: quattro brani devastanti in cui melodie ora stralunate (Chelsea Girl), ora liriche (Drive Blind, All I Can See), ora semplicemente sublimi (Close My Eyes), galleggiavano indisturbate in oceani di feedback attraversati da densi miasmi psichedelici. Non ancora tantissimo, a ben pensarci, ma già abbastanza da far gridare al miracolo la lungimirante stampa d’oltremanica che, anche in tempi di magra per le chitarre com’erano quelli, non vedeva l’ora di scoprire il vassoio d’argento della next big thing. Stretti in una morsa fra il ricordo, ancora vivido, dei confetti propinati dai Jesus And Mary Chain nel loro prodigioso debutto del 1985 e l’attesa, sempre più asfissiante, del seguito che i My Bloody Valentine avrebbero dato al masterpiece d’un paio d’anni prima, i Ride si trovarono in groppa alla tigre senza nemmeno rendersene conto e, quel che più conta, riuscirono a non farsi disarcionare dai primi calcioni: i cuori in crisi d’astinenza da feedback che rifiutavano a priori i lustrini colorati del carnevale di Madchester già battevano tutti per loro.
Andy Bell, Mark Gardener, Stephan Queralt e Lawrence Colbert si erano conosciuti appena adolescenti fra i banchi dell’Art College di Banbury, provenienti dalla signorile Oxford, e, prima ancora delle pagelle, fu la monotonia di quella vita da reclusi a convincerli ad abbracciare gli strumenti: quando il guru della Creation Alan McGee li vide suonare e decise istantaneamente di metterli sotto contratto non avevano neanche vent’anni.
Dopo il primo posto nelle indie charts inglesi e il ragguardevole traguardo delle oltre ventimila copie vendute, toccò all’impronta suadente delle labbra meno famose di Pamela Bordes e ad un fitto tappeto di gialle giunchiglie primaverili il compito gravoso di annunciare l’estate ed il successore del fortunato debutto. Play EP uscì nei primi giorni di aprile e seppe fare ancor meglio del suo predecessore. Nei contenuti innanzitutto, con le dolci melodie vocali di Like A Daydream, le oscure ed immaginifiche derive psichedeliche della magnifica Silver, le accecanti cavalcate elettriche di Furthest Sense e Perfect Time, perennemente in bilico fra melodia e feedback. E nelle vendite, naturalmente, con la testa delle indie charts ed il sospirato ingresso nei top 40 delle classifiche ufficiali. Il processo di beatificazione giunse al suo naturale compimento nell’arena estiva del festival di Reading: qualcuno sorprese i loro occhi fissi sulle assi del palco e poco ci volle per farne i leader della scena shoegazer, la cui delicata e malinconica vena di autocompiacimento era, tanto per cambiare, quanto di più lontano potesse esserci dall’estetica e dal sound dei quattro Oxfordiani.

Kim Gordon si sarebbe scoperta perfino sex symbol nel vedere, qualche mese più tardi, le proprie labbra marchiare il Fall EP, mentre sulla copertina i consueti temi floreali venivano calpestati da un branco di pinguini nella tormenta. E così, mentre fuori tirava un’aria sempre più pesante e un altro Bush si preparava a scaraventare il proprio arsenale bellico contro lo stesso Saddam, i Ride partorivano un sogno con il loro capolavoro assoluto, la lunga Dreams Burn Down, soave melodia magicamente avvolta da cristalline trame chitarristiche ed improvvisi muri di feedback, regalavano splendide conferme con Taste e Here And Now, comunicavano la loro angoscia con la lunga e sinistra Nowhere, puro delirio psichico in libero vagabondaggio per gli anfratti della mente. Le onde del mare in chiusura del brano, nessuno se lo sarebbe immaginato, avrebbero custodito il segreto di un chiaro segno premonitore.
Già, perché sarebbe stata una delicata increspatura in uno sconfinato oceano carta da zucchero l’immagine di copertina del sospirato album di debutto, Nowhere: un bel colpo d’occhio nei freddi scaffali dei negozi di dischi proprio sul finire del 1990. Dopo tre EP di sconcertante bellezza i Ride erano allo zenith del proprio percorso creativo: i ragazzi ancora non lo sapevano, ma ad appena un anno dall’esordio, dopo i fasti di un’opera prima lungamente attesa e frettolosamente consumata, stavano già per imboccare la parabola discendente. Fuori, del resto, gli Happy Mondays bussavano con sempre maggior violenza: nuovi nomi, nuove note, nuovi sogni e, forse nuovi incubi…la stampa inglese, si sa, ama cambiare i propri cavalli appena dopo avergli dato l’illusione del traguardo.
Preceduto da un altro ottimo EP (Today Forever, 1991), il secondo album Going Blank Again del 1992 rivelava una band ancora in eccellente forma proseguire il discorso interrotto un paio d’anni prima fermandosi, come sempre in questi casi, qualche gradino più sotto, anche per colpa di qualche tentazione smaccatamente pop. Venne il tempo dei primi litigi e di quella che, anche in amore, viene chiamata una pausa di riflessione. Sarebbe stato Carnival Of Light, nel 1994, a segnare una tregua nelle ostilità: un album intriso della psichedelia più tradizionale, con un occhio alla West Coast classica, che avrebbe deluso i vecchi fans senza aggiungerne di nuovi. Tarantula, quarto ed ultimo album uscito nel 1996 dopo lo scioglimento della band, avrebbe fatto ancora di peggio. Forse volutamente, come mi piace sperare, con il malcelato intento di non lasciare troppi rimpianti…