Nativo del Colorado Billy Shaddox ci regala un cd, il quarto della sua discografia, dove un certo pop di classe fa il paio con musica country folk di impronta stradaiola e campagnola. Tutti gli undici brani a sua firma con produzione affidata a Sam Kassiker sono di matrice acustica, ben definiti e decisamente ritmati cosicché restano ben impressi sia dal primo ascolto dando un delicato e soddisfacente piacere a chi le ascolta. Bobby Shaddox e lo stesso Kassiser gli altri musicisti coinvolti in questo piacevolissimo lavoro che regala ed assorbe varie componenti musicali, ad esempio molto beatlesiana l’armoniosa Fireflies mentre sul versante Kinks la scivolosa I believe e ancora stupendamente cadenzata la dolce ballata Story of You and me che sembra uscita dalle lontane pagine dei Barclay James Harvest. L’intensa Telescope ricorda notevolmente il periodo sperimentale di metà anni ottanta di Michael Nesmith e scorre via fluida e piacevole mentre una sincopata Golden Coast arranca polverosamente tra sommità e canyon. Un disco meravigliosamente magico e stellare nel suo tourbillon di brani eccitanti e così equidistanti tra loro che ne fanno uno dei momenti molto interessanti di tutti quei misconosciuti, almeno qua da noi , musicisti che si fanno largo in questo affollato mondo cantautorale. D’altrone nel titolo del suo disco appare la parola melt che sta ben a significare mischiare o mescolare. Appalacchiana la moderna copertina e in doppio cartonato come gli lp di una volta la bella confezione e, tra l’altro album disponibile anche in vinile.
Bel disco, che è un piacere far roteare nel lettore, e che si chiude con un bellissimo pezzo, Not Easy Anymore, che una volta sarebbe stato un 45 giri da alta classifica. Billy Shaddox un nome da tenere sicuramente a mente.
MARILLION
F.E.A.R.
e.a.r. Music 2016
+ Teatro Romano Verona 10-09-2016
Strepitoso concerto dei Marillion a Verona alcuni giorni fa. In un Teatro Romano gremito ed esaurito da tempo i cinque musicisti d’oltremanica hanno regalato ai fortunati presenti uno spettacolo di altissimo livello musicale-intellettuale, doverosa in questo senso un’occhiata ai testi del loro ultimo lavoro, senza pari. In un’atmosfera eterea, tra lo spirituale ed il celestiale , oseremmo dire quasi sensuale la band ha presentato uno show tra i loro più belli che ci sia stato dato modo di vedere, tra luci prevalentemente blu alquanto incorporee e strali musicali di una bellezza infinita che hanno magnetizzato l’aria di questo vecchio storico suggestivo teatro e tra solide pietre antiche e sguardi estasiati dei presenti hanno veramente dato come si suol dire il bianco in una serata che sarà decisamente difficile da dimenticare e che resterà incollata visceralmente su coloro che c’erano. Diciotto brani con la prima parte dello show orientata su pezzi alquanto recenti del loro repertorio, quello Hogarthiano per intenderci, seguiti da una parte centrale estrapolata dal loro nuovo disco in uscita, per la precisione oggi 23 settembre nei negozi, ed un’altra parte con ancora pezzi del loro repertorio inerente sempre i New Marillion, e una chiosa finale con brani degli Old Marillion, quelli ovviamente di Fish, in un tripudio generale da far accapponare la pelle.
Nei primi cinque brani che hanno creato l’ossatura iniziale di questo show due erano tratti dal bellissimo Marbles del 2004, trattasi di due superlative versioni rispettivamente di The Invisibile Man, primo pezzo della serata, e di Fantastic Place; mentre altri due invece sono stati estrapolati dal loro penultimo Sounds that can’t be made e precisamente la title track e Power, infine prima di passare alla parte centrale inerente il loro nuovo lavoro hanno presentato una compatta The Great Escape tratta da Brave, altro loro grande album del 1994. Un inizio spettacolare caratterizzato da una concentrazione ed un’applicazione dei musicisti evidentissima ed apprezzatissima, da togliere il fiato. Poi il nuovo disco, sconosciuto ed attesissimo, Fuck Everyone and Run, Russia’s Locked Doors, A Scary Sky e Why is Nothing ever True?, tutte in in fila come nel cd oggi uscito e riunite nel titolo/capitolo 5 sotto il nome di The New Kings. Una serie di sogni, si potrebbe definire questa parte dello show ove le note seducenti del nuovo atteso loro lavoro hanno affascinato e coinvolto in maniera intensa e passionale. Struggenti e misurate oltre ogni dire, brani pacatamente tranquilli e suggestivi. Poi di nuovo si riabbraccia un recente passato con l’affascinante Neverland ancora brano da Marbles e due dal loro ottavo album quell’eccellente quasi etnico Afraid of Sunlight dal quale propongono appunto la title track e King mentre dal 1995, loro dodicesimo disco dal titolo Anoraknophobia, arriva una radiosa Quartz. Poi nei bis, si va al vecchio repertorio, quindi Kayleigh, Lavender e Heart of Lothian, tutti e tre dal lontano Misplaced Childhood del 1985 che hanno acceso i cuori in questa parte dello spettacolo con suoni più accesi e ritmati, con echi lontani nel pensiero rivolto magari a Fish e qualche momento di commozione. Si chiude passando al 1997 con due prolungati momenti tratti da This Strange Engine, il pezzo che da il titolo appunto all’album e la bellissima Estonia. Superba la voce di Hogarth, autore, con estrema agitazione dal servizio d’ordine, di una corsa con microfono in mano e quindi continuando a cantare che gli ha fatto praticamente attraversare in lungo e in largo tutto il teatro, scalinate comprese, con estrema apprensione dei body guards agitatissimi; straordinari momenti musicali come sempre sono usciti dalla chitarra di Rothery che ha avviluppato l’ambiente con assoli splendidi; scatenato e potente Mosley alla batteria; gentilmente e garbatamente un Trewavas da antologia al basso e dannatamente bravo e maestoso Kelly alle tastiere.
Una performance speciale come speciale è il loro nuovo disco uscito oggi 23 settembre. Fear, acronimo di Fuck Everyone and Run il titolo di questo loro album, nel cui titolo la paura si cerca di esorcizzare, paura dell’oggi e soprattutto del domani, paura di quello che ci circonda, paura di un mondo che sta scivolando sempre più verso il basso, mondo di politiche terrificanti, di multinazionali terribili e rampanti e di valori sempre maggiormente livellati verso il basso, oseremmo dire agghiaccianti. Disco in studio numero diciotto anche se abbiamo ormai un po’ perso il conto della numerazione tanti in questi anni sono stati i loro lavori sia appunto in studio ma soprattutto dal vivo ove tra box, cofanetti multipli e live vari si ha una marea infinita di materiale a disposizione. Disco bellissimo, sicuramente uno dei migliori della loro sterminata ed interessantissima discografia. La voce di Hogarth è veramente superlativa, diremmo ai massimi livelli ed il supporto dei quattro compagni di viaggio ai loro relativi strumenti rasenta la perfezione.
Disco calmo e sereno ai limiti del tranquillo rappresenta un pacato drappello di pagine straordinarie che mirano ad aggrovigliare la mente dell’ascoltatore con suoni fantasticamente suggestivi, quasi fantascientifici, e pressappoco persi nel tempo o nei meandri dell’universo. Un album straordinariamente emozionante, come dicevamo calmo ma nel contempo energico che solleva dalle ansie e dona una splendida forma di brillante beatitudine. Sicuramente da leggere e vivere i testi che a differenza della pacata musicalità sono di una forza e valenza assordante per quello che comunicano e raccontano. Un disco splendido, assieme a Endless Forms Most Beautiful dei Nightwish, sicuramente tra le cose migliori uscite negli ultimi tempi. Da sentire senza remore ne anatemi riguardo la parola prog che molti scelgono come alibi con se stessi per non ascoltare alcuni dischi che poi scoprirebbero probabilmente straordinariamente belli.
I più accaniti vinyl hunter si ritroveranno a San Vittore Olona (MI) il prossimo 25 settembre, per la quarta edizione della Fiera del Disco, del CD e del DVD usato e da collezione, che si svolgerà presso il Centro Sportivo Malerba, in via A Grandi, angolo via XXIV Maggio.
l’orario è dalle 10.00 alle 18,30.
Pensandoci bene è come se qualcuno mi avesse telefonato dicendomi: “Hai sentito? E’ morto Jim Morrison…”. Ed io, incredulo e sgomento: “Come? Jim Morrison?!? Ma scusa, e quella vasca da bagno a Parigi trentacinque anni fa? Quel blocco di granito al Pere Lachaise? Sei sicuro di quello che dici? Chi ti ha messo in testa una panzana del genere?” Strano destino quello di Syd Barrett: al pari di Jim Morrison era fantasma più o meno dal 1971, salvo qualche rarissima, mitizzata e del resto mai provata apparizione –prima fra tutte quella negli Abbey Road Studios di Londra della primavera del 1975, durante le sessions di registrazione di quel Wish You Were Here con il quale i suoi ex compagni stavano tentando un improbabile re-styling alle proprie vituperate coscienze- e adesso che qualcuno ci avverte che spiritello lo è diventato davvero, quasi stentiamo a crederci, come a dire che non si può morire una seconda volta.
Eppure sapevamo benissimo che, al contrario del Re Lucertola, da qualche parte, chissà dove, il suo cuore continuava a battere. Magari non la sua testa di bambino prigioniero in chissà quale corpo da uomo, ancora schiava degli eccessi giovanili o di una madre troppo autoritaria o di una qualsiasi delle migliaia di leggende che circolavano intorno al suo conto, irrimediabilmente perduta in qualche universo parallelo ma non comunicante, in cui le luci ed i colori erano ancora quelli della Swinging London e dei suoi sogni in technicolor, dell’Ufo Club e delle sue luci stroboscopiche, di una primavera mai sfociata in estate e dei suoi fiori appassiti troppo in fretta.
In fondo preferivamo pensarlo già morto, era più comodo pensarlo già morto: il pifferaio magico non si era fermato davanti alle porte del crepuscolo, aveva osato oltrepassarle e si era consegnato direttamente all’eternità senza togliere completamente il disturbo. Forse era stato semplicemente più furbo di chi aveva scelto di diventare leggenda riempiendosi di porcherie sino a soffocare nel proprio vomito o sparandosi direttamente un colpo in bocca senza passare dal via: il risultato, in effetti, gli aveva dato pienamente ragione. E se tutte le altre grandi icone giovanili degli anni sessanta, da Janis Joplin a Marylin Monroe, da Jim Morrison a Jimy Hendrix a Che Guevara, erano state costrette a lasciare questa Terra per consegnare alla Notte dei Tempi un’immagine per sempre bella, giovane e ruspante, il buon Syd era riuscito nello stesso intento strappando all’Altissimo una proroga non indifferente ai disegni che riguardavano il proprio percorso mortale. Solo il suo specchio, e magari il suo gatto e quella famosa mammetta un tantino oppressiva, sono stati testimoni del passare degli anni, dei capelli che si diradavano e s’incanutivano, del profilo che si allargava, della pelle che si raggrinziva…anzi c’è da scommettere che perfino lo specchio, ai suoi occhi, sia riuscito a mentirgli ed a consegnarli fino alla fine sempre la stessa immagine, quella di un giovane magro e dai lineamenti delicati, i capelli arruffati e lo sguardo perso chissà dove, che veste calzoni neri attillati e camicie sgargianti. L’immagine con la quale lo abbiamo ricordato in tutti questi anni durante i quali la sua leggenda non ha mai accennato a sbiadire, alimentata da torme di giovani artisti che lo continuano ad eleggere quale nume tutelare e da un aggettivo, “barrettiano”, che è ormai diventato di accezione comune per definire un determinato approccio alla canzone ed alla materia rock.
E non ci importava in fondo sapere che era ancora vivo, che quegli scatti appartenevano ad un’altra epoca, ad un’altra esistenza, e che magari adesso il buon Syd era un tranquillo signore di mezz’età che dava da mangiare ai suoi gatti o portava a spasso i propri cani, schiavo di una tranquilla vita medio borghese piuttosto che delle sue antiche allucinazioni, perduto nel traffico delle ore di punta o nei vialetti tutti uguali del parco piuttosto che nel labirinto senza uscita della propria mente malata. Perché Syd era già morto, era già leggenda, era già eternità e tutto il resto non contava. Che smacco però, a pensarci bene, immaginare che dove non sono riusciti LSD e acidi vari, dove non è riuscita una mente insana che da un momento all’altro poteva varcare la soglia di attenzione e sfociare nell’irreparabile, è arrivato uno sciocco, comunissimo e banalissimo diabete. Proprio vero che il Diavolo fa le pentole, ma non i coperchi.
Ma lasciatemi pensare, almeno, che quando, malato e invecchiato anzitempo, Syd ha compreso che nessuna delle sue punture quotidiane o dei quintali di porcherie –purtroppo legali- che era costretto a prendersi avrebbero potuto salvarlo, e che era venuto il momento, probabilmente tanto atteso, di sciogliere il patto con il Gran Cerimoniere, la sua stanza si sia popolata, per l’ultima volta, delle sue squinternate visioni, e che siano stati Uomini Vegetali, Elefanti Effervescenti e strane creature tentacolari a scortarlo nel suo viaggio più importante, mentre tutt’intorno la luce, da un fioco lume di candela, si trasformava in un bagliore accecante. Ora hai davvero iniziato a splendere, pazzo diamante.
Auburn è una band inglese formata dalla cantante e autrice Liz Lenten nel 1999, che ha inciso un album nel 2003 e poi si è sciolta, ritrovandosi otto anni dopo per Indian Summer, seguito da Nashville e Mixed Feelings, incisi nell’omonima città con Thomm Jutz (Sid Griffin, Todd Snider, Nanci Griffith…), produttore tedesco da tempo trasferitosi in Tennessee. L’impronta country di questi tre dischi è ribadita da Love & Promises, ancora inciso negli studi di Jutz con lo stesso team, dopo un anno intenso nel quale Auburn hanno supportato i Jefferson Starship e il duo folk formato da Martin Carthy & Dave Swarbrick in Europa. Non stiamo parlando di musica tradizionale, ma di un country morbido e sognante, accarezzato dalla voce sussurrata e sensuale di Liz, spolverato da influenze di americana, roots music e blues, con un pizzico di sensibilità britannica e di scrittura gotica nei testi. Auburn è la creatura della Lenten, accompagnata dal vivo da un trio acustico formato da Mark Gustavina alla chitarra, Jevon Beaumont al basso e Pat Garvey alle percussioni, mentre in studio Jutz ha utilizzato musicisti locali.
La voce fragile di Liz condiziona il disco, nel quale prevalgono i ritmi lenti e riflessivi, con qualche traccia di monotonia, ma non mancano tracce efficaci e penetranti quali Love & Promises, la ballata Cross The Deep Atlantic (duetto con il cantautore del New Hampshire Chet O’Keefe, texano d’adozione, molto apprezzato da Kinky Friedman e Nanci Griffith), la pianistica Ivory Moon, l’up-tempo Stupid Game e la swingata State Of Grace posta in chiusura.
MALCOLM HOLCOMBE
Another Black Hole
2016 PROPER/RAT/IRD
L’anno scorso parlammo di Holcombe in occasione dell’uscita del suo cd/dvd RCA Sessions.
Another Black Hole dovrebbe essere il suo quattordicesimo album e siamo ancora qui a parlare di questo artista/cantautautore non di grande presenza ma di notevole impatto emotivo, magari un po’ maledetto nel senso che il suo trand/look non cambia mai presentandosi sempre come l’ultimo dei disgraziati. Analizziamo il suo incedere da mauvais artiste che ce lo fa per l’ennesima volta collocare in quel limbo grigio, stretto e dinoccolato ove sembra trovare il suo giusto ambito. Testi al limite della più consunta disperazione, aria fallita dell’eterno e disperato perdente tra i perdenti, suoni grevi, a tratti tetri, gretti, che lo accompagnano nelle sue idiosincrasie narrate con voce lancinante ma, che lo rendono piacevolmente simpatico e che ha la capacità di farsi ascoltare e con le doti di rapire i suoi ascoltatori che lo seguono con estasiato silenzio, magari domandandosi come fanno a convivere questa sua trasandata postura con questo look clochardiano con la sua vena artistica capace di tenerti ancorato in silenzio ed attenzione nel suo ascolto. Indubbiamente questo vale in particolare per quanto concerne il suo lato live ma anche quando lo si ascolta su disco non è facile scindere le due cose. Fattostà che questo ennesimo suo lavoro, il capolavoro comunque resta il lontano A Hundred Lies, affascina ancora, in questo frangente con l’aiuto di Dave Roe al basso, Jared Tyler al mandolino, banjo e dobro e il batterista Ken Koome, già Wilco oltre che della presenza a sorpresa di Tony Joe White alla chitarra elettrica. Il disco è scuro e dark come più o meno gli altri però, forse avvalendosi di T J White, scorre più fluido, in maniera duttile con i suoni che come un fiume in discesa trovano le loro collocazioni. September, tra il recitato e il declamato porta echi e fantasmi del buon Townes mentre Leavin‘ Anna è ballata che si colloca tra le sue cose migliori. Certo non troveremo mai nei suoi album la solarità di un Jimmy Buffett ma restiamo ancorati e ormai accettiamo ed apprezziamo la sua immagine tormentata , a tratti sofferente, che ci regala intense brevi storie di uno storyteller tra i più disordinati tra tanti che abbiamo conosciuto ed apprezzato. A volte sembra arrivi da un passato dickensiano Ogni suo disco è comunque sempre una promessa mantenuta e indipendentemente da come e ciò che racconta è artista che sa farsi seguire con affetto ed attenzione. Prodotto da Ray Kennedy si giova di una copertina che forse neanche i Sex Pistols dei momenti più acerbi e più bui avrebbero osato dato alle stampe. Qua tra ratti rinsecchiti, bottiglie vuote, vetri rotti, tende strappate, toppe e miserie varie forse sarebbe d’uopo un bel amuleto tra le dita mentre si estrae il cd da appunto cotanta infelice e misera immagine di copertina, sorvolando poi sul titolo del disco…………… che comunque è nei suoi dieci brani decisamente avvincente.
I più accaniti vinyl hunter si ritroveranno a San Vittore Olona (MI) il prossimo 25 settembre, per la quarta edizione della Fiera del Disco, del CD e del DVD usato e da collezione, che si svolgerà presso il Centro Sportivo Malerba, in via A Grandi, angolo via XXIV Maggio.
l’orario è dalle 10.00 alle 18,30.
Julie Christensen è una cantante e autrice con una lunga storia alle spalle. Leader dei Divine Horsemen, roots-punk band di Los Angeles, ha cantato per sei anni con Leonard Cohen dall’88 al ‘93, ha inciso cinque dischi indipendenti, collaborando in studio e dal vivo con Robben Ford, Lou Reed, Iggy Pop e tanti altri. Nel 2013 si è trasferita dalla California a Nashville, inserendosi nella comunità folk/roots e ha riformato gli Stone Cupid con i chitarristi Chris Tench e Sergio Webb, il bassista Bones Hillman e il batterista Steve Latanation. The Cardinal è stato finanziato da una campagna su Pledge Music e prodotto dall’esperto Jeff Turmes (Mavis Staples, Richard Thompson, Tom Waits), già collaboratore della Christensen in Weeds Like Us del 2012. Dotata di una voce potente in grado di alternare tonalità rabbiose e melodiche, Julie guida la band con sicurezza, miscelando influenze rock, roots e alt-country e lasciando il giusto spazio alle chitarre soliste. Il rock della chitarristica Riverside, di Saint On A Chain di Kevin Gordon (pregevole autore e poeta della Louisiana), Live And Not Die Trying e No Mercy si alterna con il country blues di Gasoline e il country più tradizionale delle ballate 100 Floors e Girl In The Sky, il roots-rock di Would You Love di Chuck Prophet, più ritmato della versione originale, il pop-rock di Shed My Skin e di Broken Wing. C’è anche una traccia nascosta, una cover di Anthem di Leonard Cohen, tratta da The Future del ’92, disco al quale Julie ha partecipato come corista. Una versione bluesata, meno avvolgente dell’originale, eseguita con rispetto e semplicità.
ZHONGYU – “Zhongyu” Is Chinese For “Finally” (Moonjune 2016)
Nella fattispecie, il “finally” del titolo è riferito al fatto che il polistrumentista americano Jon Davis ha “finalmente” una sua band, e il nome di questa band è chiaramente Zhongyu: andando più nel dettaglio la band è formata da alcuni membri di una band già operativa da qualche anno e con diversi dischi in catalogo proprio per la stessa label che ha dato alle stampe questo disco, si tratta dei Moraine guidati da Dennis Rea.
E se c’è di mezzo il nome di Rea, si tratta già una buona garanzia perché nelle sue diverse emanazioni (i dischi da solo, con i Moraine, come Iron Kim Style) questo artista ha sempre prodotto delle cose interessanti; qui poi siede anche in veste di produttore a fianco di Davis ed il risultato è un nuovo interessante affresco composto da contaminazioni tra musica orientale e influenze di chiara matrice rock/prog/fusion che affascinano l’ascoltatore, non senza scivolare di tanto in tanto in rumorismi di matrice industrial rock (Half Remembered Drowning A Dream, Torture Chamber Of Commerce, Cat Hair All Over It).
Ma Rea e gli altri Moraine qui coinvolti sono di fatto la backing band, i brani sono tutti farina del sacco di Davis che destreggiandosi tra mellotron, stick e guzheng, una cetra cinese usata per la musica tradizionale, ha composto i brani del disco come sunto di tre anni di vita a Pechino, che gli hanno permesso di entrare profondamente in contatto con la cultura e la musica del posto.
Il disco poi è stato registrato a Seattle, città dove i Moraine e Rea sono di base, e suona come una lunga suite dai suoni diversificati che ondeggiano tra le sonorità prog delle chitarre di Rea e strumenti come appunto il guzheng, il violino di Alicia DeJoie e i flauti di James DeJoie.
Particolarmente riuscito è il mix oriente/occidente di Iron Rice Bowl Has Rusted, titolo molto curioso, e che dire delle varie sfumature della lunga Hydraulic Fracs, dal ritmo incalzante, con un flauto che a tratti sembra ricondurre ai vecchi Jethro Tull (ma qui tutto è prettamente strumentale) e con una chitarra elettrica particolarmente ispirata. Il brano sfocia nella più eclettica e ostica Tunnel At The End Of The Light, baciata anch’essa dal dualismo flauto/chitarra, ma stavolta su territori completamente differenti. Apple Of My Minds Eye 1 si trova curiosamente a metà disco, mentre il brano omonimo col numero 2 stava in apertura, ma se il 2 era più sul versante sperimentale, con la versione 1 Davis e soci sono decisamente immersi nell’oriente e tutto il brano è giocato sul dialogo tra il violino della DeJoie e sulla cetra a 21 corde suonata da Davis. Tra le composizioni particolarmente riuscite vanno citate anche Sleepwalking The Dog (non c’è che dire, Davis ha un gusto per i titoli strambi), molto corale nell’esecuzione in cui tuti gli strumenti emergono con la stessa importanza, Wonderland Wonderlust, di nuovo fortemente influenzata dai suoni orientali ma con un’evoluzione ad occidente con la chitarra e la sezione ritmica che si mescolano al violino e al guzheng in un crescendo incalzante.
TAWNY ELLIS
Ghosts Of The Low Country
(Tawny Ellis 2015)
Cantautrice di Savannah, Georgia, Tawny ha inciso questo mini album nei mitici Fame Studios di Muscle Shoals in Alabama nel 2014. Dopo avere esordito con Shelter del 2006, ha pubblicato altri tre albums e questo Ep. Artista multiforme (è anche apprezzata scultrice e creatrice di gioielli), ha vissuto un’adolescenza nomade con la famiglia prima di stabilirsi in California. Ispirata da artiste country come Patsy Cline, Patty Griffin e Emmylou Harris e accostata per le tonalità vocali a Neko Case, Tawny compone e incide con il compagno polistrumentista Gio Loria. In queste registrazioni collaborano anche Sean Dunn (chitarra) e Patrick Ferguson (batteria), membri dei Five Eight, band di Athens. La title track ha un testo ispirato alla storia di Teh-La-Nay, nativa americana della tribù Yuchi deportata in Oklahoma e tornata dopo un lungo viaggio sulle rive del “Singing River” (il fiume Tennessee) a Florence, cittadina a poche miglia da Muscle Shoals. Il brano evidenzia le doti vocali di Tawny oltre al raffinato impasto di dobro, hammond e lap steel. Evolve Or Die è più convinta della versione incisa sull’omonimo album del 2008, mentre Desperate Tonight è un walzer malinconico scritto da Mike Mantione degli Eight Five che non sfigurerebbe nel repertorio dei Cowboy Junkies. Per finire la cover di Walkin’ After Midnight è un omaggio affettuoso a Patsy Cline, nel quale spiccano la voce e la lap steel suonata dalla Ellis. Peccato che i brani siano solo quattro…