Archivio di maggio 2016

LUPITA’S PROJECT – We Are Done

di admin

29 maggio 2016

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LUPITA’S PROJECT – We Are Done (Riff Records 2016)

Bordate di tastiere penetranti in stile hammond e sferzate di chitarra elettriche su cui quella voce unica entra quasi in sordina: diavolo d’un Cletus Cobb, ancora una volta è riuscito a mettere insieme un disco giusto, lui e i suoi apostoli che ora si chiamano Lupita’s Project.

Cletus Cobb è lo pseudonimo con cui il camuno Alessandro Ducoli si fa chiamare quando invece che fare il cantautore decide di sviscerare la sua anima più ribelle, quella del rock’n’roller votato al folkandroll, come lo chiama lui, una miscela musicale in cui la sua passione per i rocker americani di stampo classico si unisce a quella per i songwriter e per il rock primordiale di Elvis, filtrato attraverso la lezione dei Clash. C’è tutto nella musica dei Lupita’s e la cosa che entusiasma maggiormente è che tutto suona incredibilmente vero, non ci sono atteggiamenti ad essere questo o quello, loro sono genuini, unici, sono quello che sembrano in ogni cosa che fanno, in ogni nota che sparano, ogni loro esibizione è una liturgia di folkandroll e lui, Cobb/Ducoli è il sacerdote officiante di questo rito sempre – ahinoi! – più dismesso.

Un rito che li lascia esausti e prosciugati a termine di ogni show, show in cui buttano letteralmente l ‘anima: e questo è un po’ il tema conduttore di questo loro nuovo disco, uscito sia in CD che in vinile rosa per la Riff Records, che si intitola “We Are Done”, siamo finiti, che è proprio come sono i Lupita’s al termine delle loro esibizioni. Un disco che è anche un atto d’amore, un atto d’amore per l’essere finiti (“Lovedone” il brano d’apertura), un atto d’amore per le fan (“Lovepussy”) e i loro amori (“Lovebimba”): tutti i brani del lato A del vinile infatti sono prefissati infatti con la parola Love. Il suono è potente, con la voce di Cobb, a seconda della bisogna immersa in cavernose raucedini, altre librata in lirici voli, soprattutto sempre sottolineata dalle tastiere di Valeruz Gaffurini e dalle chitarre elettriche suonate da Marlon Richards, l’uomo dei riff, autentico italico erede del più celebre Keith d’identico cognome.

A tenere il ritmo ci si mettono in tre, con risultato eccellente: il batterista Teo Marchese, il percussionista Blanco De La Fuente e il bassista Cosswho (indovinate un po’ chi è il suo referente?), tutti irrinunciabili nell’economia del sound Lupita’s.

Sette brani sette (quelli contenuti sul lato A del vinile) con almeno quattro eccellenze, tra cui “Lovedust”, composizione con la marcia giusta in tutti sensi, la citata “Lovebimba” densa di riferimenti familiari a chi conosce la poetica ducoliana, o cobbsiana che dir si voglia, e su tutte la finale “Loveline”, struggente ballata di quelle che entrano nella pelle, sottopelle e poi nelle viscere, con la chitarra di Richards che spettina letteralmente e fa accapponare la pelle e una coda d’organo di Gaffurini.

Il lato B non è da meno, oltre all’inedito capolavoro di “R’n’R Funeral”, posto in chiusura, troviamo altre sette tracce provenienti da lavori precedenti lavori del gruppo o del solo Cobb, quasi un greatest hits o un riassunto per chi si fosse perso le puntate precedenti: dalla devastante “Like A Rolling Stones”, alla splendida “Today”, una delle composizioni migliori del nostro, all’orecchiabile e deliziosa “House In The Woods” in cui Cobb fa vibrare la sua armonica come fosse quella di Neil Young, a “Lady Mud”, ispirata alle calzature infangate di Joe Cocker a Woodstock, a “Giacinto”, scanzonato omaggio alla fede calcistica di Cobb, fino all’immensa “I Got To Kill”, uno dei punti forti delle performance pubbliche della band, una composizione dalle fantastiche sfaccettature.

Non perdeteveli se suonano dalle vostre parti o se vi trovate dalle parti in cui suonano!
(http://www.riffrecords.it/)

Gaslight Hackenbush

WILLIE NILE – World War Willie

di Ronald Stancanelli

27 maggio 2016

NILE War [75360]

WILLIE NILE
WORLD WAR WILLIE
BLUE ROSE 2016

Willie Nile è recentemente passato dalle parti di Verona, precisamente al Giardino di Lugagnano, dove ormai è di casa e dove lo abbiamo in una splendida e sfolgorante serata ammirato ed applaudito fino allo sfinimento. Ha colà presentato lo splendido If I was a River, album piano oriented nel quale l’artista newyorkese ha rasentato la perfezione con un nugolo di splendidi pezzi che hanno entusiasmato il numerosissimo pubblico che ancora una volta ha applaudito e osannato questo straordinario artista che ha fatto dei suoi show una vetrina splendidamente sfolgorante e di indubbia passione. Adesso un po’ a sorpresa riceviamo questo WORLD WAR WILLIE che a onta del titolo forse esageratamente roboante lo fa tornare su lidi rock chitarristici che lo hanno prevalentemente caratterizzato pur ricordando che i pezzi suoi al pianoforte sono tra le cose più belle della sua notevole discografia, ricordiamo volentieri appunto la recentissima If I was a River che possiamo accomunare tranquillamente ai capolavori pianistici come Streets of New York, Back Home, On the Road to Calvary ed Across the River che formano un ossatura imperitura e solidamente granitica del suo percorso storico musicale.

Qua il piano resta messo da parte mentre l’amico Willie si riappropria della chitarra e saltellando come un grillo, immaginiamo, si rimette come novello giullare nelle vesti dell’affabulatore rock che ben conosciamo e ci regala ancora altri dodici frammenti da aggiungere alla sua discografia di grandissimo rocker che da anni ci affascina ed elettrizza. Magari non siamo dalla parte di capolavori passati che tanto sono stati importanti e decisivi nella storia di certo rock urbano ma il dischetto che adesso abbiamo nel lettore ci porta letteralmente tra le spire del rock più sfavillante e piacevole mentre ci fa un immenso piacere notare che la sua voce a onta degli anni che passano, passano purtroppo per tutti, non è minimamente cambiata e graffia ed incide come una volta.

Forewer Wild è affascinante intro che ci introduce ad un altro album pregno di emozioni che solitamente Willie Nile è bravissimo regalare mentre a seguire Let’s All comes together è pura miscela di ballata e rock attorcigliate assieme in un crescendo musicale di indubbio effetto e partecipazione. Si evince ancora una volta che la simmetria unità alla grande allegra solarità di questo artista ci stanno regalando nuovamente un disco di elevata conformazione e di piacevole fattura. Grandpa Rocks è riempitivo di ragguardevole stazza che attendiamo nelle prove dal vivo dove sicuramente si esalterà ulteriormente. Per Runaway Girl, soffusa e sospirata ballata già il titolo dice tutto e la successiva World War Willie, la title track, si fa apprezzare subito al primo ascolto. Molto significativa ed accattivante la marcia imponente di Bad Boy, invece velocissimo rockandroll e ritmo indiavolato per Hell Yeah.

Beautiful You e When Levon sings sono due ballate solari di leggerezza e delicatezza senza pari, ovviamente omaggio alla Band e a Levon Helm la seconda, mentre Trouble down in Diamond Town è un rock urbano dal passo cadenzato e martellante che colpisce al primo ascolto e sicuramente pezzo perfetto per le sue performance dal vivo ove acquisterà una verve ancor più evidente, splendida e perfetta la voce che in eccellente simbiosi ne accompagna il ritmo. Citybank Nile è solido e caustico blues dal profondo sapore di negritudine che lancia strali verso le solite ingiustizie che non solo non sono diminuite nel corso degli anni ma che negli ultimi tempi stanno aumentando a dismisura. Chiude Sweet Jane, omaggio all’amico Lou Reed, brano che abbiamo avuto il piacere di sentire dal vivo nel suo concerto veronese in quel di Lugagnano di cui sopra e del quale ringraziamo l’artefice, quel Giamprimo Zorzan che settimanalmente porta in questo piccolissimo paesino dell’ovest veronese miriadi di artisti che fanno la gioia di tutti coloro che hanno il piacere e la fortuna di riempire con calore e amore detto locale che regala emozioni a non finire sia nell’ambito cantautorale, come nel blues, nel rock e nel prog. Cercate in rete Il Giardino a Lugagnano e vi scoprirete una marea di musica dal vivo che potrà riempire superbamente molte delle vostre serate.

Prodotto dallo stesso Willie assieme a Stewart Lerman e suonato da Matt Hogan, chitarre; John Pisano al basso; Alex Alexander alla batteria e con tra i vari ospiti James Maddock abbiamo un eccellente album che ci farà compagnia per tutto l’anno e che si avvale di una particolare ma significativa copertina ove una scheletrica città quasi rasa al suolo dai bombardamenti è sovrastata in primo piano dalla figura di Willie Rocker senza tempo e senza paura che sembra voler con la forza della musica mascherare le vergogne che da tempo immemorabile le guerre portano con loro. Le foto come sempre di Cristina Arrigoni. Tornando a Willie, ancora una volta con semplicità e dedizione ci regala un album che trasuda buone intenzioni, grandi speranze e ritmi per riempire favorevolmente le nostre giornate. Un artista vero che assieme a Bruce Springsteen ed Elliott Murphy compone il nostro grande trittico cantautorale preferito di sempre.

Il 12 Giugno a Mariano Comense

di admin

27 maggio 2016

VOL MARIANO 12 06 2016 [75344]

Late For The Sky sarà presente alla Fiera del Disco e del CD di Mariano Comense (CO) che si svolgerà nella giornata di domenica 12 giugno. la manifestazione è al suo 4° appuntamento e si terrà presso “Il Circolo” di Via D’Adda 13, dalle 10 alle 18,30.

L’ingresso è GRATUITO
vi aspettiamo!

WEST OF EDEN – Look To The West

di Paolo Crazy Carnevale

22 maggio 2016

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WEST OF EDEN – Look To The West (West Of Music/Hemifran 2016)

Avete nostalgia delle atmosfere folk-rock di marca anglosassone, quelle più recondite, con una voce femminile che sta in bilico tra quelle storiche di Sandy Denny, Jaqui McShee, Maddy Pryor? Con una siringata di folk-rock moderno quello alla Mike Scott? Questa band svedese capitanata dai fratelli Schaub, Jenny e Martin (le due voci del gruppo nonché le due menti da cui scaturiscono i brani registrati in questo bel disco) potrebbe essere il giusto lenimento alle vostre nostalgie. Se i brani cantati da Jenny (“Sandy Denny non è morta – afferma parlando di lei il sito Kulturbloggen – vive in Svezia e si chiama Jenny Schaub”) sono quelli più d’atmosfera quelli più rarefatti, legati ad atmosfere acustiche molto vicine alla tradizione, quelli cantati da Martin ci riconducono ad un sound che ricorda invece i Waterboys, ma a vincere davvero sono l’abilità con cui i brani sono altalenati e la mescola delle voci quando i due si dividono le parti in una stessa canzone.

Non sono d’altronde dei pivellini questi ragazzi, Look To The West è il loro decimo disco e si sono fatti apprezzare nel corso degli anni tenendo concerti in Scandinavia, Benelux e naturalmente in Irlanda, dove il genere musicale da loro proposto è la musica nazionale. Violino, chitarre acustiche, bodhràn, mandolino, fisarmonica ma anche dobro, chitarre elettriche, basso e batteria, nel segno di quel connubio tra folk albionico e rock iniziato con i Fairport Convention tantissimi anni fa.

Il risultato è notevole, e d’altra parte se il sestetto dei fratelli Schaub è durato tanti anni un motivo ci sarà: nella fattispecie, Look To The West può essere considerato il fratello europeo di quel meraviglioso disco di Tom Russell intitolato The Man From God Knows Where, in cui si raccontano le storie di migrazione degli antenati di Russell, provenienti da Irlanda e Norvegia. Anche qui si racconta una storia di migrazione, dalla Svezia però, e attraverso un compendio sonoro dalle atmosfere molto irish con interventi musicali in cui spuntano di tanto in tanto brani strumentali che già dal titolo non lasciano spazio a interpretazioni errate (Paddy Fahey’s/Sweel su tutti). Il disco conquista subito, dall’iniziale Going To Hull ed arriva al top con la potente Sweet Old Country, ma che dire di The List dedicata alla lista delle cose da portarsi via per il viaggio? E della delicata The Crying Stars con la voce di Jenny Schaub che sta in bilico tra chitarra e violino? Look To The West, la canzone che titola il progetto parla del dover affrontare lunghi venti giorni di navigazione su rollare delle onde tra sporco e immondizia fino all’avvistamento di Ellis Island (l’unico momento in cui si intende chiaramente che la destinazione di questi migranti sono le coste americane); The Ticketless Man racconta di un viaggiatore senza biglietto di nome Johan Andersson, che saluta baciandola la sua donna per inseguire il sogno di una terra promessa. Il disco si chiude con l’epocale The Final Cut (nulla a che vedere con i Pink Floyd naturalmente) parla finalmente della partenza dopo tanti preparativi, con la nave che salpa e il rumore del mare in sottofondo, un altro brano da ricordare. Il tutto corredato con foto del gruppo con location ed abiti che ricordano davvero i porti europei da cui i migranti partivano.

FLOAT STONE – Skipping Over Damaged Area

di Ronald Stancanelli

14 maggio 2016

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FLOAT STONE
SKIPPING OVER DAMAGED AREA
AUTOPRODOTTO 2015

SKIPPING OVER DAMAGED AREA dei Float Stone, band belga è etichettato in Usa come genere americana. Ma sta diventando una mania o forse per semplificare è più facile etichettare tutto in questa maniera. Comunque sta di fatto che riceviamo per recensirlo questo album in digipack riciclato che consta di una dozzina di pezzi alquanto lenti, strascicati e anche un po’ noiosetti. Due brani sono cover e precisamente Hearse di Ani Di Franco e Big Yellow Taxi di Joni Mitchell in versioni oltremodo fiacche e trascinate mentre anche il resto come direbbe un filosofo da night da tempo scomparso è noia. Escluse le due cover il resto è a firma dei Float Stone che si dilettano, bontà loro, a registrare il tutto mixarlo e produrlo. Abbiamo già detto e ribadiamo che i pezzi sono indolenti e apatici oltre ogni dire nonostante i molteplici ascolti in un tentativo di nobilitarli almeno parzialmente. Diciamo che il brano Damn Nation ambisce alla nomea di brano più in evidenza del cd. Per i testi che non sono inseriti nella confezione si può andare sul sito www.floatstone.be.
Direi che si può passare oltre considerando che la cosa più nobile dell’opera sia il non aver abbattuto alcun albero orientandosi sul carta riciclata mentre l’idea di stampare tutte le note in bianco su di un cartone chiaro è oltremodo demenziale poiché ne inficia notevolmente la lettura abbassando le diotrie di chi si sforza per decifrarle. Semplice e priva di gloria anche la copertina. Come diceva il buon Amatore Sciesa, Tiremm innanz.

COURTNEY YASMINEH – Red Letter Day 2015, Red Letter Day Unplugged 2015

di Ronald Stancanelli

11 maggio 2016

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COURTNEY YASMINEH
RED LETTER DAY 2014 RED LETTER DAY UNPLUGGED 2015
Stupid Bitch records

Riceviamo per recensione due cd di tal Courtney Yasmine nata nell’Illinois a Chicago che propone un EP molto molto interessante, Red Letter Day – Unplugged con 5 frizzanti canzoni a sua firma ove suona la chitarra acustica ed è aiutata da Rob Genadek, Jon James e Casey Smith. Il disco in America è etichettato come rock alternativo per adulti indie pop acoustic! Ossessionata sin da giovanissima da Bob Dylan ha al suo attivo un altro EP e 5 album nei quali ha riversato tutta la sua forza folk acustica. In questo mini album decisamente affascinanti Misfits and Loser e Cleaning Crew, cadenzate e ritmate canzoni nelle quali l’artista colpisce sia per l’uso multiforme della sua voce che per il possente utilizzo che fa della chitarra acustica.

Nella sua carriera ha già fatto ben nove tour in Europa ove ha espresso la genuinità della sua musica con show semplici ma diretti ove la sua forte personalità ed il suo sex appeal hanno catturato la scena. Non avendola purtroppo vista ci siamo limitati ai vari filmati trovati in rete e siamo favorevolmente restati colpiti da questa artista e da parte nostra ci ripromettiamo alla prossima occasione, sta preparando il suo nuovo lavoro, di poterla andare a vedere e sentire essendo cantautrice decisamente interessante. L’album, Red Letter Day, uscito alcuni mesi prima, è invece composto da 9 canzoni, in versione elettrica a parte la track numero cinque, Change your Mind, nulla a che vedere con l’omonima di Neil Young, che la Yasmineh propone in solitaria versione con chitarra acustica, e che comprende ovviamente anche le 5 dell’EP acustico. In detto album la musicista riversa sull’ascoltatore una sonorità decisamente più hard con il gruppo che abbraccia un suono alquanto duro tra rock psichedelico e new wave.

Se avete amato o amate tutt’ora Pretenders, Patty Smith, i Blondie oppure Ani Di Franco pensiamo che i 54 minuti di questi album, l’elettrico e l’ acustico possano pienamente soddisfarvi. Anche se il disco è targato 2015 le atmosfere e le sonorità sono pienamente e decisamente orientate ai passati anni ottanta. La produzione è affidata al componente il gruppo Rob Genadek che si occupa anche di mixer e masterizzazione del tutto. Se infine dovessimo necessariamente propendere per una delle due proposte la nostra preferenza andrebbe a premiare il mini unplugged per certa sua maggiore freschezza ed originalità. In perfetto stile pubblicitario la copertina.

CARTER SAMPSON – Wilder Side

di Paolo Crazy Carnevale

8 maggio 2016

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CARTER SAMPSON – Wilder Side (Continental Song City 2016/IRD)

Ma quante brave cantautrici ci sono sparse nei cinquanta stati dell’Unione?

Verosimilmente a questa domanda nessuno sarà mai in grado di dare una risposta: sarà perché negli ultimi tempi mi è capitato di ascoltarne diverse, e tutte estremamente gradevoli ed ispirate, ma la una domanda che mi frulla in testa da molto. Carter Sampson è l’ennesima emerita sconosciuta a cui non posso fare altro che augurare ogni bene possibile: l’ascolto di questo suo disco, il quarto della sua carriera, è davvero coinvolgente, le canzoni sono dirette ed arrivano subito, colpiscono nella loro semplicità ed allo stesso tempo nella loro potenza.

Questa signora dell’Oklahoma, cresciuta ascoltando la musica giusta (nelle canzoni di questo nuovo lavoro si possono cogliere citazioni dedicate a James Taylor e a Dylan), sa decisamente come scrivere canzoni e con la sua bella voce, potente ed al tempo stesso morbida pare si sia guadagnata l’epiteto di regina dell’Oklahoma, musicalmente parlando.

Il disco mette sul piatto (o nel lettore, più propriamente) dieci belle ballate, arrangiate con gusto e suonate bene, senza troppi fronzoli, grazie all’aiuto di uno sparuto team capitanato dal polistrumentista e produttore Travis Linville.

Chitarre soprattutto, di ogni tipo, un organo, un banjo e belle voci. Wilder Side non ha fatto a tempo ad uscire che subito si è guadagnato una lunga serie di positive recensioni sulla stampa e sul web, qualcuno ha accomunato la Sampson a Lucinda Williams, ma il modo di cantare va più verso il genere Puss’n’Boots (la superband al femminile in cui milita Norah Jones).

Fin dalla magica apertura affidata al brano che intitola il disco, la sensazione è quella di trovarsi davanti ad un prodotto immediato, di quelli che non hanno bisogno di troppi ascolti per cominciare a piacere: Wilder Side è una canzone che entra subito in circolazione e conquista. Il discorso vale però più o meno per tutte le altre composizioni, con preferenze assolute per Run Away, impreziosita da un gran giro di chitarra acustica, per la struggente Medicine River, cantata con convinzione e suonata con una misuratezza di suoni davvero fantastica, l’acustica che ricama, le svisate di dobro, un banjo appena accennato. Ma è bellissima anche Take Me Home With You, e che dire di Holy Mother o della conclusiva See The Devil Run dalle atmosfere rilassate.

Quanto al quesito riguardante quante brave cantautrici partoriscano gli States, la risposta soffia nel vento, quello dei mulini, visto e considerato che un’artista di questo calibro per pubblicare i suoi dischi si deve rivolgere ad una piccola casa discografica olandese!

KRISTINA STYKOS – Horse Thief

di Ronald Stancanelli

6 maggio 2016

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KRISTINA STYKOS
HORSE THIEF
Thunder Ridge Records 2015

Kristina Stikos, cantautrice e produttrice musicale, forse di origine greche, abita nello stato montano del Vermont ed il suo studio di registrazione decisamente all’avanguardia è manovrato grazie all’energia solare e a quella eolica. Dategli un’occhiata in rete.
Nel 2005 si produce l’album d’esordio In the Earth’s Fading Light che viene giudicato il migliore album dell’anno appunto nel Vermont. Adesso il recente HORSE THIEF, suo quinto lavoro, nel quale lei suona una marea di strumenti e precisamente chitarre, mandolino, tastiere, basso, banjo, mandola e pianoforte si colloca in quella fascia musicale che si può tranquillamente definire acustica- americana che fondamentalmente non vuol dire nulla ma che ormai da anni etichetta un genere musicale che una volta veniva semplicemente chiamato folk, ma adesso grazie a strane e traverse connotazioni fa si che la musica assuma strambe e variegate definizioni. Il disco è prodotto, scritto mixato e registrato da lei e nei suoi 13 brani ci regala varie diverse conformazioni musicali che lo rendono oltremodo interessante. E’ un album, come si evince da info sul suo sito, teso alla ricerca e all’esaminazione di sentimenti spesi ed approfonditi nell’isolamento di uno stato un po’ dimenticato e chiuso come il Vermont quasi perennemente innevato. Molto intimo, invernale, introverso ricorda molto nella voce e nello stile sia la canadese Ferron che le atmosfere dello splendido Short Man’s Room di Joe Henry. La durata del lavoro è di circa 55 minuti e nel corso di detto periodo la cantautrice sviscera tematiche personali con un profondo pathos e molto sincronismo mentre le strumentazioni essenziali degli otto musicisti che la supportano dettano trame decisamente incisive ed importanti, in quasi tutti i brani Jeff Berlin. Svetta sulle altre, ma tutte le canzoni sono molto belle, Let it Run ritmata e cadenzata in modo ottimale con Kristina al basso, chitarra e tastiere e con il solo Jeff Berlin alla batteria. Bel disco in bianco e nero per un artista purtroppo poco nota qua da noi. Jazzata quanto basta Talk to me con un eccellente Neal Massa al piano e un equilibrato ma efficiente lavoro alla batteria da parte di Matt Musty. L’ultimo brano un soave strumentale alla Bruce Cockburn, per restare in terreni gelidi ed invernali, è suonato al piano, banjo e chitarra dalla nordica fanciulla.
Ovvia copertina in bianco e nero, e non poteva essere altrimenti, per questo fulgido Ladro di cavalli, anzi cavallo, uno solo.

YAEL MEYER – Warrior Heart

di Ronald Stancanelli

6 maggio 2016

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YAEL MEYER
WARRIOR HEART
Kli Records 2014

La cantautrice Yael Meyer nata a Santiago del Cile nel 1981 ma abitante a Los Angeles ci propone un folk elettronico con venature pop di piacevole fattura e variegate sembianze, si scrive i suoi brani da sola e il suo lavoro registrato a Los Angeles risente di varie influenze esterne che lo caratterizzano piacevolmente. In America è etichettata come indie pop losangeleno ma crediamo che detta definizione sia riduttiva per quest’artista che con questo suo terzo lavoro, preceduto nel 2004 dall’autoprodotto Common Groundil e da Everything will be Alright del 2011 che racchiudeva anche un suo EP di due anni prima, sforna un florido lavoro di dieci gradevolissime canzoni, ma una, When the Road ends, è ripetuta poi in versione acustica. Bill Lefler, Danny Levin, Dave Eggar, Daniel Rhine e Patrick Matera i musicisti che collaborano a questo suo WARRIOR HEART, mentre lei oltre ovviamente a cantare suona l’acustica, le tastiere, le percussioni e l’ukulele. Disco soffice; gentile e pacata la voce dell’artista mentre le sonorità a tratti ritmate a momenti quiete alternano differenti tendenze musicali che abbracciano momenti diversi come il folk di Warrior Heart e Carry On, la southern ballad di When the Road Ends, l’irish di Endless Kind of Love, il trionfo di percussioni della spagnoleggiante Yo soy, l’atmosfera tecno in Human Divine, l’ambient cupo e ripetitivo di Vessel, il profumo reggae di Good Things are coming my Way e la ninna nanna quasi intorpidita di Rain Fallin. Album breve come una volta, non raggiunge i quaranta minuti, ma negli stessi regala al fruitore del momento una dolce sensazione di calde e soffuse emozioni in musica. Molto azteca la colorata copertina.

JIMMY RUGGIERE – Nicer Guy

di Paolo Crazy Carnevale

5 maggio 2016

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JIMMY RUGGIERE – Nicer Guy (Blue Streak Records/Hemifran 2015)

Tra le produzioni indipendenti distribuite dalla Hemifran, questo disco di Jimmy Ruggiere è senz’altro meno innovativo rispetto a quelli di altri illustri sconosciuti che arrivano sulla mia scrivania, non che sia un brutto disco, anzi, è piacevolissimo, ma raccomandabile solo se vi piace il country/honky più spinto.

Il signor Ruggiere, non più un ragazzino, come ci fa supporre la chioma ingrigita, è stato per anni un sideman di Travis Tritt, cosa che dovrebbe darvi una qualche idea di quale sia la sua musica. Il disco è stato registrato ad Austin sotto la produzione di Chris Gage, titolato producer texano che ha lavorato con Aaron Watson, Jerry Jeff Walker, Don McCalister, Flatlanders, giusto per buttare lì qualche nome, con un manipolo di session man locali tra cui spicca il nome di Lloyd Maines pluridecorato maestro della pedal steel guitar.

In dieci tracce, Ruggiere va a ricalcare tutti i luoghi comuni del country più tipico, con una spiccata propensione per le honytonk ballads infarcite di storie malinconiche, cuori infranti, affetti familiari: dal protagonista di I Cried All the Way To Ft. Worth che piange per la sua piccola amata da quando la lascia in Arizona fino a quando oltrepassa Fort Worth (in Texas appunto) alla famiglia che si raduna attorno al capezzale del papà morente di Goin’ Home To Say Goodbye To Dad, papà che da bravo redneck tiene appesa alla parete la foto di Bill Monroe! E che dire del “ragazzo a modo” della title track e delle sue delusioni amorose?

Non manca nulla di quanto ci si potrebbe attendere da un disco di country honk, ci sono le ballate struggenti cantate con voce quasi western, come Sunday’s Broken, le atmosfere messicane di There’s One Too Many Pretty Girls In Tucson (in cui si è messi in guardia dai rischi che si possono correre incontrando una bella “señorita” dagli occhi bruni in una piccola città di frontiera) e persino echi bluegrass edulcorati nella conclusiva 90 Miles To Nashville, novanta miglia che il protagonista percorre nel cuore della notte, guidando ed invocando l’autostrada di portarlo a casa – quasi come il John Denver di Country Roads – perché a casa c’è la sua bella che lo aspetta da sola.

THE WOOD BROTHERS – Paradise

di Paolo Crazy Carnevale

5 maggio 2016

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THE WOOD BROTHERS – Paradise (Honey Jare 2015/Blue Rose 2016/IRD)

È ormai da una decina d’anni che Chris Wood (da non confondersi con l’omonimo e defunto fondatore dei Traffic), parallelamente alla carriera luminosa con Medeski e Martin porta avanti un progetto musicale e discografico insieme ai suo fratello Oliver e al polistrumentista Jano Rix, indirizzato verso territori sonori completamente differenti. I fratelli Wood si sono trasferiti da un po’ di tempo a Nashville per lavorare insieme ad un trio che possiamo definire – sempre premesso che le definizioni lasciano il tempo che trovano – col nome di “americana”. Un termine che non amo molto ma che nel caso dei Wood Brothers calza abbastanza a pennello: almeno ascoltando questo Paradise, pubblicato a fine 2015 in USA per poi approdare in Europa nei primi mesi di quest’anno grazie alla germanica Blue Rose, etichetta da sempre molto attenta a quanto si produce oltreoceano nell’ambito del mercato indipendente.

La risposta a Paradise è stata subito molto calorosa ed il disco si è piazzato bene nelle classifiche specializzate, proprio grazie al fatto di poter fruire dell’attenzione del pubblico che segue il folk, il country, la musica indie e via dicendo, che hanno classifiche di vendita personalizzate e diversificate.

Il disco è buono, l’unico dubbio riguarda le voci, dei fratelli, infatti, nessuno è particolarmente dotato vocalmente, anche se nell’insieme la cosa funziona abbastanza bene, soprattutto nei brani più vibranti. Singin’ To Strangers è un buon inizio d’album, con il tiro giusto – ma quanto a tiro il brano vincente sembra Snake Eyes che troviamo più avanti – e il brano seguente, American Heartache, pur avendo un inizio che non digerisco, finisce con l’aprirsi ad una bella soluzione sonora. In Never And Always ci sono ospiti importanti, tenuti però molto in sordina, forse per non appannare il trio originale: tanto in sordina che occorre stare molto concentrati per cogliere le harmony vocals di Susan Tedeschi e la slide di Derek Trucks. Heartbreak Lullaby è un’innocua canzoncina senza pretese, noiosetta all’inizio e poi un po’ più briosa quando il ritmo si fa più caraibico, meglio Two Places in cui ruggisce un bell’hammond suonato da Rix. Non è particolarmente entusiasmante nemmeno Without Desire col refrain ripetitivo che non ha però la forza delle litanie di una Lucinda Williams, che dal canto suo ha anche la tendenza ai versi ripetuti fino alla nausea, ma lei ha dalla sua una voce personalissima con cui può fare tutto quello che vuole. Nell’equilibrio sonoro del disco hanno poi una loro importanza i numerosi fiati inseriti – in modo più o meno massiccio – nelle sei tracce centrali, in maniera particolarmente riuscita in Raindrop dove l’amalgama tra trombone e tuba ben si sposa con il possente basso di Chris Wood. Buona anche Touch Of Your Hand con una bella slide, meno in sordina di quella di Trucks in Never And Always. In chiusura l’intensa River Of Sin tutta sorretta dal piano e dal contrabbasso e con i cori delle sorelle McCrary (Ann e Regina, la seconda di dylaniana memoria) che entrano con sacralità gospel nella seconda parte del brano insieme al fantastico hammond di Rix.

CRASH N RECOVERY – Deep In The Woods

di Ronald Stancanelli

3 maggio 2016

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CRASH N RECOVERY
DEEP IN THE WOODS 2015
Rootsy distribuited by IRD

Deep in the Woods è un piacevole album degli svedesi Crash n Recovery caratterizzato da una dozzina di pezzi oltre a una ghost track. Band che è in pista dal 2012 e che dai boschi più ameni nel nord sono giunti con una nomination sino ai British Country Music Awards. La leader del gruppo è la bionda giunonica Linda Engstrom che oltre ad essere la voce della band ne è anche autrice dei pezzi e assieme agli altri componenti anche arrangiatrice di tutto il lavoro poi prodotto da Johan Arveli. Un album che definiremmo di folk/country/rock con venature di bluegrass anche se appena accentuate ove la Engstrom dotata di una eccellente voce, che a tratti come stile ricorda specialmente nelle ballate Emmilou Harris, si esalta nel proporre brani decisamente attraenti e graziosi come in Damaged o soprattutto in If You only were mine. Diremmo quindi che questi cinque baldi giovanotti assieme alla bionda vichinga propongono un cd di sano country-rock che non toglie ne aggiunge a quello che il mercato similare ha proposto o propone ma che si fa apprezzare e ascoltare con grande piacere. Ne consigliamo un uso ad alto volume e in auto a discreta velocità viaggiando in spazi liberi. La track numero dodici, brano lento e cadenzato, tra l’altro splendido, curiosamente ricorda nel sottofondo musicale I’m on Fire di Springsteen ed ha il titolo, Undefeated, come un pezzo del primo lp di Little Steven. Nei titoli di coda chiude una pianistica e non identificata, non essendo citata sul libretto, canzone molto eterea e suggestiva.
Interessante disco che consigliamo senza remore alcune.
Nel profondo della foresta la foto di copertina anche se lo scatto interno dei sei che procedono nella neve con al braccio i propri strumenti è decisamente molto più allettante e divertente.

GOBLIN REBIRTH – Alive

di Ronald Stancanelli

1 maggio 2016

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GOBLIN REBIRTH
ALIVE
Black Widow 2015

I Goblin Rebirth si formano più o meno nel 2010 grazie a Fabio Pignatelli e Agostino Marangolo, membri originari dei noti Goblin, gruppo musicale formatosi nel 1972, creando una nuova band che si prefigge il compito di riproporre ed eseguire dal vivo quelle famose colonne sonore che tanto successo ebbero all’epoca unite a brani di nuova stesura. Colonne sonore che a parte la strepitosa fama mondiale di Profondo rosso, spesso vennero tacciate d’essere musiche per mediocri pellicole di serie B, se non di serie C, riascoltate in questo doppio cd dal vivo inciso in quel di Roma nell’aprile del 2011si denota invece come questi temi, a differenza di alcuni film che sicuramente non erano da storia del cinema, siano invece temi musicali di tutto rispetto e che la superba interpretazione dei GR riporta a nuova vita e risplendente luce; molto più avvincente comunque ed emozionante il secondo cd di questo doppio album. Il gruppo oltre ai due citati componenti primari è un quintetto con l’aggiunta di Aidan Zammit e Danilo Cherni alle tastiere e di Giacomo Anselmi alle chitarre. Dopo alcune vicissitudini di carattere burocratico legale escono con l’ottimo Goblin Rebirth disco in studio, 2015, che preclude ad un nucleo di concerti che fanno immediatamente sold out esaltando la bravura della band e creando attorno a loro un interesse fortissimo ed anche probabilmente inaspettato. Il disco, uscito per la genovese Black Widow ha un successo notevole sia di critica che di vendite e apre le porte al doppio Alive che sta adesso girando per l’ennesima volta nel nostro lettore. Di questo lavoro esiste versione in doppio vinile con gadgets vari, doppio cd e doppio cd con annesso dvd. La nostra copia è quella de doppio cd con un totale di 18 pezzi decisamente coinvolgenti. Il secondo dischetto molto più allineato al versante prog si bea delle due lunghe versioni di Goblin e Profondo Rosso mentre pezzi di minor minutaggio ma eccellente livello come Le Cascate di Viridiana, Witch , Zombi e specialmente Chiesa rendono unico e affascinante questo spettacolare concerto.
Prodotto da loro stessi è un lavoro di notevole impatto che bellamente e saggiamente coniuga la soundtrack con il mondo progressivo dando un risultato di grande aspetto sia qualitativo che commerciale, infatti i vari brani oltre a essere di livello musicale colto o importante hanno dalla loro tutto il necessario sex-appeal per essere assimilati e scorrere fluidamente come potenziali hit o singoli ed essere quindi apprezzati anche da un pubblico solitamente orientato su altre versanti musicali. La produzione è affidata a loro stessi mentre la copertina raffigura in sovrapposizione cinque foto dei componenti il gruppo con l’ovvio rosso sangue come colore del titolo e del nome del gruppo.