Archivio di maggio 2017

ANNA FERMIN’S TRIGGER GOSPEL – You Belong Here

di Paolo Baiotti

28 maggio 2017

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ANNA FERMIN’S TRIGGER GOSPEL
YOU BELONG HERE
Trigger Gospel 2016

Trigger Gospel è un quintetto di Chicago formato e guidato da vent’anni dalla cantante, pianista e autrice Anna Fermin, unica compositrice del gruppo, nata nelle Filippine, ma cresciuta in Wisconsin con la famiglia. Hanno pubblicato sei albums con questo You Belong Here, autoprodotto, inciso in Illinois negli studi Solid Sound di Hoffman Estates. Nella loro carriera hanno girato più volte negli Usa e in Europa, supportando tra gli altri Johnny Cash, Steve Earle, Joe Ely, David Crosby e Delbert McClinton. Dopo alcuni cambi di formazione il quintetto è tornato alla line-up iniziale con Andon Davis alla chitarra, Michael Krayniak al basso, Paul Bivans alla batteria e Alton Smith alle tastiere.

Anna Fermin è una cantante dotata di una voce solida, forte, estesa e melodica e un’autrice che si ispira nei testi alle sue esperienze e ai suoi viaggi, scrivendo una musica che ricerca un equilibrio tra rock, folk, blues e country, con un forte senso della melodia. Canzoni non troppo complesse, di presa immediata, che sembrano mancare di quel tratto caratteristico in grado di far presagire un salto di qualità che, d’altronde, dopo vent’anni è difficile immaginare.

You Belong Here esce a otto anni di distanza dal precedente, dopo un periodo complesso per l’autrice che, dovendo crescere due figli adolescenti, aveva anche pensato a rinunciare alla band. Ma alla fine l’amore per la musica ha prevalso, come racconta il testo della title track del disco, una ballata intensa interpretata con sensibilità. Durante la pausa del gruppo la Fermin ha lavorato per una produzione teatrale, scrivendo musiche diverse dal solito e interpretando covers di standard di jazz e di Lou Reed. Ma il ritorno del chitarrista Andon Davis l’ha convinta a proseguire con i Trigger Gospel.

Oltre alla title track si distinguono il mid tempo Land Of The Long White Cloud, ispirato da un viaggio in Nuova Zelanda, l’intima ballata I’ve Got Friends e Forget The Rest che si riallaccia alla sua adolescenza e ai contrasti con il padre che non accettava le sue scelte lontane dalle tradizioni filippine, arrangiata con fisarmonica e mandolino. Great Days è un tributo alla madre e ai suoi sforzi per crescere in serenità le figlie, eseguito con il piano e la fisarmonica di Alton Smith. In chiusura la corale You Coulda Walked Around The World, cover di Butch Hancock. Da notare anche la copertina di Tony Fitzpatrick, artista di Chicago che in passato ha lavorato con Steve Earle.

JEFF BOORTZ – Half The Time

di Paolo Baiotti

24 maggio 2017

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JEFF BOORTZ
HALF THE TIME
JeffBoortzMusic.com 2014

Attivo da una ventina d’anni, originario di Houston, Jeff è un cantautore ai confini tra il folk, il country e l’americana. Ha inciso cinque albums, incrementando l’attività nell’ultimo lustro. Infatti Half The Time è stato inciso negli studi Rendering Plant di Nashville nei primi mesi del 2013 e pubblicato nel 2014, seguito alla fine del 2015 da Every Other Night. In Half The Time, che comprende tracce scritte in diversi periodi, Jeff è affiancato dal vecchio amico John Jackson alla chitarra e alla direzione musicale del gruppo, un musicista di grande esperienza che in passato ha collaborato con Lucinda Williams, Shelby Lynne e Bob Dylan. Gli altri collaboratori sono session men di Nashville come Fats Kaplin (Jack White, Nanci Griffith) al violino e pedal steel, Ken Coomer (Uncle Tupelo, Wilco) e Marco Giovino (Robert Plant, John Cale) alla batteria, Randy Leago (Kathy Mattea, Shelby Lynne, Lucinda Williams) e Michael Webb (Sturgill Simpson, Poco) alle tastiere.

Half The Time scorre piacevole e veloce, senza grandi sussulti. Jeff ha una voce discreta, non molto caratteristica e se la cava come compositore, ma la validità dei collaboratori è determinante nell’alzare le quotazioni del disco. L’orgogliosa ballata sudista Baton Rouge, il mid-tempo Hey Passion, la ballata d’impronta country Silver Lining percorsa dalla pedal steel e la robusta Since You’re Gone valorizzano la parte finale del disco, mentre nella prima parte non sfigurano la scorrevole title track e il cadenzato roots rock Stay Low.

A Nerviano (MI) la prima edizione della Fiera del Disco

di admin

24 maggio 2017

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si svolgerà il prossimo 11 giugno a Nerviano, nei pressi di Milano, la prima edizione della Fiera del Disco e del CD usato e da collezione.

la location è in via cesare battisti, 4, presso “La meccanica”.

Ingresso e parcheggio gratuiti.

intervenite gaudenti e numerosi!

DAVE ALVIN & PHIL ALVIN – Hard Travelin’

di Paolo Crazy Carnevale

22 maggio 2017

Dave & Phil Alvin record Store Day 2017 1

DAVE ALVIN & PHIL ALVIN – Hard Travelin’ (YepRoc Records 2017, EP)

Il nuovo capitolo delle escursioni musicali con cui fratelli Alvin omaggiano le loro radici musicali è un EP di quattro brani inediti pubblicato in occasione del recente decimo Record Store Day. Più che potrebbe preludere ad un nuovo disco del duo sembrerebbe una cosa estemporanea, questo lo si deduce dalle formazioni usate, assemblata con brani rimasti fuori dagli altri due dischi.

Il vinile in questione è un concentrato di energia, rispetto ad esempio allo splendido esordio degli Alvin come duo, uscito nel 2014, qui le radici sono rivisitate in chiave rock’n’roll, quasi un ritorno alla musica di quei gloriosi Blasters di cui gli Alvin sono stati un po’ i motori. Se in Common Ground il filo conduttore erano le canzoni di Big Bill Broonzy suonate in chiave stupendamente acustica, qui gli artisti presi in considerazione sono diversi e il sound è elettrico come non mai: peri primi tre brani infatti abbiamo la sezione ritmica galoppante (Lisa Pankratz e Brad Fordham) e come ulteriore chitarrista Chris Miller.

Si inizia col Woody Guthrie della title track che grazie anche alla slide di Miller diventa un brano trascinantissimo, con Dave che soffia nell’armonica e Phil che canta da solista. La pasta di cui il vinile è fatto è questa, musica diretta, zero fronzoli, tanto sudore. Nella canzone successiva la voce guida è quella di Phil (il più dotato dei due fratellini): si tratta della Mean Old Frisco di Big Boy Crudup. Dimenticate la celebre bella versione slow che Eric Manolenta registrò nel 1977, la rilettura degli Alvin è figlia di quella che Elvis fece per That’s Alright Mama, altra mitica composizione di Crudup.

Girando il disco ci troviamo ad ascoltare la più notturna – ma non meno tosta – California Desert Blues, con la firma di Lane Hardin, autore meno conosciuto: il brano è vincente e impreziosito da un doppio assolo di chitarra (Dave, che è anche la voce del brano, e Miller). Un arrangiamento indovinatissimo. A concludere il padellone troviamo Kansas City Blues di Jim Jackson, con la possente voce di Phil: si tratta di un altro brano molto ripreso ed è quello del disco con più affinità col suono del primo disco del duo. Non è un caso che il gruppo sia infatti differente, c’è Gene Taylor al piano e la sezione ritmica è formata da Bob Glaub e Don Heffington proprio come nel disco dedicato a Broonzy: Phil suona l’acustica e soffia possentemente nell’armonica mentre Dave si occupa della national.

Il disco è un 12 pollici di vinile rosso male utilizzato: ci sarebbe stato lo spazio per un altro paio di brani, oppure sarebbe stato bello averlo in un più suggestivo 10 pollici. Sulle etichette (differenti da un lato all’altro) non è indicata la velocità a cui far girare il disco, non è indicato il numero di copie “tirate” – che dovrebbero essere 1000 – e non vi è alcun riferimento al Record Store Day.

Ma se quel che conta è la musica, tranquilli, quella c’è ed è fantastica dalla prima all’ultima nota!

CURSE OF LONO – Curse Of Lono

di Paolo Baiotti

21 maggio 2017

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CURSE OF LONO
CURSE OF LONO
Submarine Cat 2016

Nati dalle costole della band britannica Hey Negrita, che eseguiva un mix di alternative country, blues, folk e southern rock, i Curse Of Lono (nome tratto da un libro di Hunter Thompson) sono stati formati da Felix Bechtolsheimer (voce e chitarra) con il batterista Neil Findlay e hanno esordito con questo Ep di quattro brani pubblicato anche in vinile, affiancato da Saturday Night, un minifilm diretto da Alex Walker formato da quattro video che accompagnano le canzoni, ribadendo la dimensione cinematografica della loro musica. Atmosfere gotiche, oscure, solo apparentemente quiete, con qualche eco di krautrock, la chitarra abrasiva e minacciosa di Joe Hazell e una voce tenuta un po’ in secondo piano caratterizzano Five Miles. La successiva London Rain è una traccia sofisticata, in parte recitata su una base jazzata con una tastiera che ricorda i Doors nell’assolo. He Takes My Place è una breve ballata malinconica che incrocia le armonie di Simon & Garfunkel con l’indie-folk, mentre la notturna Saturday Night conferma la centralità delle tastiere di Dani Ruiz Hernandez, mettendo in luce il contrasto tra la melodia dolce e dolente e il ruvido testo. Recentemente I Curse Of Lono hanno pubblicato l’album Severed, che comprende le tracce dell’Ep ad eccezione di Saturday Night, accolto con entusiasmo dalla critica britannica.
Una nuova band da seguire con attenzione.

CARLO VALENTE – Tra l’Altro…

di Ronald Stancanelli

21 maggio 2017

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CARLO VALENTE
TRA L’ALTRO
2017 – AUTOPRODOTTO E distribuito da ISOLA TOBIA LABEL

Di Rieti ove nasce nel 1990 Carlo Valente è autore di questo autoprodotto esordio di pensieri in forma di canzone, nei quali esplica diremmo mirabilmente situazioni, contesti e stati di cose che attraversano il nostro paese nell’ambito di svariati momenti. Varie le tematiche prese in considerazione, esibite e proposte con circostanza dei fatti, intelligenza e profonda ed acuta introspezione dando un risultato finale che risulta essere la somma di nove brani, di notevole interesse. Pervicace e abile nella sua saggezza esplicata con contorno di note musicali Valente slega nodi a profusione cercando di sviscerare fatti accaduti precedentemente e problematiche che quotidianamente assillano il nostro vivere tra le difficoltà e le miserie che ci assillano ogni benedetta volta che sentiamo un giornale radio o vediamo un telegiornale. Non per niente detto album è dedicato a Federico Aldrovandi, il diciottenne morto durante un controllo di polizia. In questi nove quadretti il giovane Valenti tocca come detto svariati temi e quindi mafia, giuoco del calcio, morti sospette, violenza, politica, immigrazione ed emigrazione ne sono le interessanti e approfondite componenti. Quindi importanti temi sociali portati avanti con il supporto di musiche variegate che attraversano il country rock, la marcetta, lo swing, il pianojazz e così via formando un album di sicuro interesse che assieme a quelli precedentemente da noi proposti ovvero La Riccia e Agnello sono un importante segnale per il nostro cantautorato d’autore che sta girando purtroppo le boe degli avanzati anni. Giustamente nuove interessanti leve incalzano e decisamente più giovane il Valente dei tre. Stimolanti e coinvolgenti i brani, tutti nessuno escluso, il che ci porta a consigliare in toto l’album senza far prevalere alcun pezzo riguardo un altro.
Escluso un brano tutti sono a sua firma e l’artista oltre a cantare suona chitarra acustica, tastiere e fisarmonica mentre Giosuè Manuri alla batteria e percussioni, Fusiani/Pennacchini/Di Biagio ai fiati, Piergiorgio Faraglia alle chitarre e Francesco Saverio Capo al basso lo aiutano a portare a compimento questo piacevole, solare e perspicace album; questi ultimi due ne sono anche produttori e arrangiatori, oltre che curatori di missaggio e mastering. Profonda nella sua semplicità la vignetta di copertina ove vestiti colorati cercano e riescono a volare liberi mentre una specie di tunica tra il militare e l’inquietante resta saldamente fissata con delle mollette ad una corda, quest’ultima resta nella back cover! Bel lavoro in tutti i sensi. Se Bubola ironicamente una volta diceva Tutti Assolti qua con tematiche similari possiamo dire agli autori di questo disco semplicemente Tutti Bravi.

ANTONIO AGNELLO – Vecchia Biro

di Ronald Stancanelli

16 maggio 2017

ANTONIO AGNELLO Vecchia Biro[325]

ANTONIO AGNELLO
Vecchia Biro
Isola Tobia Label 2017

Iniziano a fioccare in redazione, anche se quest’anno in misura minore rispetto al passato, cd che ambiscono di esser sentiti per l’imminente Premio Tenco. Premio Tenco che anch’esso sta pian piano improrogabilmente modificandosi in varie componenti.

Estrapoliamo da questo nucleo di arrivi sicuramente il più singolare. Vecchia Biro il suo titolo, e già ci riporta tutti a casa, verso certo passato che appunto una penna biro non può non evocare. Il tipo è tal Antonio Agnello che oltre a scriversi testi e musiche si produce anche il tutto. Un cantautore vecchia maniera One Self Man ! E questo incuriosisce non poco. Nel suo lavoro ove oltre a cantare suona vari tipi di chitarre, il kazoo, ricordate il Bennato dei tempi d’oro? e il mandolino, è coadiuvato da vari musicisti nella misura di otto maschi e due gentili fanciulle. La copertina è un disegno anche questo caro ai tempi andati, un fumetto che potrebbe stare tra cose che venivano stampate nei settanta ovvero certe copertine tra Baglioni, Cocciante e Stefano Rosso.

Ma voi direte, parafrasando la bravissima Marian Trapassi. Si va bene ma la musica?
Pur non avendo in accompagnamento al cd ricevuto note di presentazione alcune non si fa fatica a collocare l’artista nella zona di provenienza siciliana e a notarne immediatamente una buona e dileggiante dose di ironia molto incisiva. Contrasti evidenzia nella sua penetrante semplicità un paragone tra diversi parametri di valutazione sia delle cose che della vita. Ironia e amaro sarcasmo caratterizzano Fumare Uccide mentre le radici solide della propria identità sono il tema portante della beffarda MediterrOnei. Parimenti Mestieri in estinzione cavalca mirabilmente pieghe del tempo che chiudendosi su se stesse le allontanano sempre maggiormente dall’attuale presente. Probabilmente tinte di colori autobiografici i piacevolissimi quadretti di Chitarra Ironica e Infiniti Petali. Dipinto Rosso con note musicali di leggiadra memoria forse il momento più debole dell’album pur pregno di certa suggestiva musicalità mentre uno scherzo leggero invece Quartiere Miao tra fumetto e varietà anni sessanta. Conclude L’Immagine dei Tempi/Vecchia Biro tra tempo che scorre e giuste considerazioni rivestite di minimali ed essenziali note musicali.
Cd uscito per la Label Isola Tobia ci ha attratti ed affascinati in un lampo.

Ultima nota, ma non meno interessante delle altre da far rilevare, è che i testi sono pagina per pagina scritti a bella calligrafia su fogli di quaderno a righe, con vari piccoli colorati disegni, che ci riportano ancora una volta a certo passato della nostra infanzia quando smartphone, computer, telefonini, highphone e altre diavolerie simili non esistevano e bastava appunto un libo, una biro e un foglio di carta per andare avanti e imparare a capire il mondo. Bell’album che ci riporta a certo semplice cantautorato che ci ha accompagnati nel crescere.

MUDCRUTCH – 2

di Paolo Crazy Carnevale

10 maggio 2017

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MUDCRUTCH – 2 (Reprise 2016)

All’osservatore/ascoltatore poco attento, i Mudcrutch potrebbero sembrare la stessa cosa – o quasi – di Tom Petty & The Heartbreakers, stesso cantante e autore di buona parte dei brani, stesso chitarrista e stesso tastierista… La differenza invece è davvero molto tangibile, basta il primo ascolto di questo disco per capire che Tom Petty è uno dei Mudcrutch mentre gli Heartbreakers sono il gruppo di Tom Petty. Che poi lui li tratti democraticamente e magari collabori con gli altri in sede di composizione è altra cosa: i Mudcrutch sono un gruppo più orientato verso sonorità country-rock (almeno nel loro primo disco, qui le cose si fanno più robuste), gli Heartbreakers sono rock’n’roll puro in tutte le sue manifestazioni.

Questo secondo disco della formazione, che oltre a Petty (al basso), Mike Campbell e Benmont Tench, contempla il batterista Randall Marsh e il secondo chitarrista Tom Leadon, è giunto davvero a sorpresa, il primo era stato sbandierato a lungo anche per l’eccezionalità della cosa, perché i Mudcrutch erano la band di Petty, Campbell e Tench prima di diventare Tom Petty & The Heartbreakers, questa seconda prova, per certi versi altrettanto dignitosa se non di più, non era stata annunciata ed è stata quindi una sorpresa molto piacevole.

Il sound è una via di mezzo tra atmosfere tipicamente rock ed altre cose più rilassate, ma la cosa che balza all’occhio è come Petty non sia più l’unico autore dei brani e non sia nemmeno l’unico cantante, come invece è negli Heartbreakers. Ci sono inserimenti di strumenti vicini alla tradizione, come la pedal steel e il banjo (questo opera di Herb Pedersen, che dà una bella mano anche nei cori, perché se negli Heartbreakers i cori erano appannaggio prima di Howie Epstein e poi di Scott Thurston, qui tutti e cinque i componenti cantano, chi meglio che peggio).

Undici tracce in tutto, cinque sul lato A e sei sul lato B, con alcune autentiche punte di diamante, soprattutto nella prima parte: a partire dall’ottima Trailer, con una grande apertura di armonica dell’autore, che guarda indietro ai tempi di in cui il gruppo era ancora un combo di ragazzi che sognavano in grande nella natia Florida, a Jacksonville, guarda vaso la stessa città d’origine dei Lynyrd Skynyrd, menzionati proprio nel testo di questo bel brano.

Le due tracce successive non sono da meno: Dreams Of Flying è rock allo stato puro con Leadon a dividere le parti vocali con Tom, mentre Beautiful Blue è una lunga ballatona in cui la solista di Campbell dialoga benone con la pedal steel dell’ospite Josh Jove. Beautiful World è il primo brano non firmato da Petty, l’autore è il batterista che in questa sede è pure cantante: il brano ha forti richiami a George Harrison, non a caso un grande amico di Petty, dall’uso della voce alla struttura, tutta la canzone sembra un tributo all’ex Beatle, persino la chitarra di Campbell.

Il lato si conclude con un altro brano tranquillo, I Forgive It All, di nuovo con Petty al canto e una delicata chitarra acustica e Tench che sottende coinvolgenti tappeti di tastiere mai esagerati, mai invadenti.

La seconda parte del disco apre alla grande con un brano firmato da Leadon e cantato dall’autore in tandem con Petty e Pedersen, The Other Side Of The Mountain è una canzone molto solida, una delle migliori del disco, guidata da un ritmo sostenuto dal banjo di Pedersen (che è stato poi coinvolto anche nel tour intrapreso dai Mudcrutch a sostegno del disco), Campbell ci infila un assolo baritonale molto azzeccato per l’andamento country rock della composizione. Con Hope si passa invece ad una psichedelia quasi garagista, con Tench alle prese con suoni di tastiera davvero vintage e con la voce di Petty in perfetto tema per la bisogna.

Welcome To Hell è firmata dal tastierista, l’andamento è boogie, niente di memorabile, senz’altro un brano ben suonato, più un esercizio di stile che altro, nonché un’opportunità per ascoltare la voce di Tench. Voce che torna in Save Your Water a sparire le parti vocali con Petty e Leadon al servizio di un brano veloce. Toccapoi a Campbell firmare e cantare un brano, Victim Of Circumstance, quasi rockabilly, molto veloce, da ricordare più che altro per il breve solo di chitarra alla fine. Come nel caso di Tench, anche Campbell non è un cantante dotato (non a caso Petty a voluto Scott Thurston negli Heartbreakers dopo la morte di Epstein). Il finale è affidato alla lunga Hungry No More, una composizione che conta su un lavoro mastodontico della chitarra di Campbell, mentre Petty sfodera un bellissimo suono del basso.

GIACOMO LARICCIA – Ricostruire

di Ronald Stancanelli

2 maggio 2017

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GIACOMO LARICCIA
RICOSTRUIRE
Lariccia Autopodotto 2017

Di Giacomo Lariccia abbiamo in passato parlato in concomitanza con alcuni Premi Tenco dei suoi precedenti lavori, gli ottimi Colpi di sole del 2012 e Sempre avanti del 2014, album importanti e densi di eccellenti canzoni dal solido impegno e tratte da vicende vere o storiche come L’attendente Cancione in bicicletta imperniato su un fatto susseguente l’8 settembre, o Sant’ecc’homo, vicenda particolare accaduta in un piccolo paese, o Roma occupata che narra gli ultimi momenti di una delle vittime delle Fosse Ardeatine. O ancora Dallo zolfo al carbone, La miniera, Sessanta sacchi di carbone e Sotto terra, tutte e quattro sulla storia degli emigranti siculi, e non, in quel delle miniere belghe, una più coinvolgente e suggestiva dell’altra.

Ventitre bellissimi brani in questi suoi due primi album per Giacomo Lariccia che da anni vive a Bruxelles e ogni tanto torna per qualche breve periodo qua da noi. Ecco tenete a mente di informarvi su di lui poiché quando ricapita sarebbe decisamente il caso di andare ad assistere ad un suo concerto. Adesso con questo suo terzo lavoro, Ricostruire,ci regala un cd di ampie prospettive, aperto, più sereno, sicuramente intriso di giusto e doveroso ottimismo che dato ciò che oggi ci circonda è forse realmente quello di cui tutti abbiamo bisogno. Altre undici ottime canzoni riflessive ma nel contempo solari e quasi raggianti. Un lavoro che ci consegna un lato dell’artista che già conoscevamo, e che se non vuol certo essere buonista è in questo contesto decisamente realista e, diremmo ottimista. Pregno di una generale calma interiore questo nuovo lavoro non disdegna il suo lato impegnato come solito è fare e Celeste si erge tra le sue composizioni più belle e intense di sempre.

Lariccia suona le chitarre acustiche ed elettriche mentre Marco Locurcio è impegnato al basso, chitarra elettrica, synth, organo, violoncello, violino e tromba. Alla batteria e percussioni Fabio Locurcio mentre Alessandro Gwis al piano, Nicolas Kummert al sax e Jennifer Scavuzzo come back vocals chiudono il cerchio delle collaborazioni. Prodotto e arrangiato da Lariccia stesso assieme a Marco Locurcio l’album ha tutti i testi e le musiche composti da lui medesimo e chiudendo la recensione con un ultimo piacevolissimo ascolto dell’album non possiamo non citare la soave bellezza anche della title track Ricostruire e specialmente della splendida Quanta strada o ancora della leggiadria della pianistica Amori e variabili. Un album vivamente consigliato a tutti, anche agli amici esterofili, Giacomo vive appunto all’estero, e per ulteriori approfondimenti andate su www.giacomolariccia.com.

La particolare copertina è tratta da un dipinto di Micael Schepens.