Archivio di luglio 2021

MAHOGANY FROG – In The Electric Universe

di Paolo Crazy Carnevale

31 luglio 2021

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Mahogany Frog – In The Electric Universe (Mafrogany Hog/Moonjune Records 2021)

Devo ammettere che pur non essendo un amante a tutto tondo del genere prog-rock, ero rimasto bene impressionato dalla precedente produzione di questo gruppo canadese su Moonjune Records, un CD interessante intitolato Senna (vincitore di premi e accumulatore di nomination nei vari eventi dedicati canadesi) e databile ormai a ben nove anni fa.

Mi ero chiesto spesso, ricevendo i dispacci dell’etichetta newyorchese con le nuove uscite, che fine avessero fatto i quattro componenti del gruppo, saranno stati ancora in attività, si saranno sciolti, avranno cambiato etichetta?

La risposta è arrivata ad inizio estate quando mi è pervenuto questo disco e facendo un po’ di ricerche ho scoperto che non ne erano stati pubblicati altri dopo Senna, anche se i Mahogany Frog avevano continuato ad avere una regolare attività dal vivo prevalentemente nelle sperdute lande canadesi, ma con qualche puntata anche nella vecchia Europa. In effetti, dalle avarissime note di copertina si deduce che per dare un seguito al disco del 2012, i Mahogany Frog ci hanno lavorato su dal 2013 al 2019, anche se poi a ben sentire il disco fila via senza che la lunga gestazione si avverta.

Graham Epp, Jesse Warkentin, Scott Ellenberger e Andy Rudolph (sono sempre gli stessi) si occupano praticamente di tutti gli strumenti, tutti e quattro sono impegnati con tastiere ed effettistica, i primi due si occupano anche delle chitarre mentre gli altri due rispettivamente di basso e batteria: e la forte, per non dire massiccia presenza delle tastiere è sicuramente la caratteristica principale del disco, in sostanza un buon disco, forse meno efficace del predecessore, ma sicuramente d’effetto. Un disco interamente strumentale con ben due composizioni che da sole superano la mezz’ora ed altre quattro tra i cinque e gli otto minuti: il tutto si va a srotolare come una sorta di suite multiforme che paga debito a tutta una serie di produzione degli anni settanta, talora richiamando alla mente gli Yes (periodo Wakeman), qualcosina dei Genesis, financo i Pink Floyd lunari.

Si inizia in sordina con la musica di Theme From P.D. che cresce poco a poco fino a scatenarsi in un’orgia sonora dominata dalle tastiere, non priva di interessanti spunti, CUbe è più breve, quasi volesse farci riprendere fiato prima del tour de force assoluto di (((Sundog))) che si dipana per quasi diciotto minuti in cui ad un tema di base costruito sul giro del basso di Ellenberger vanno ad aggiungersi le tastiere e gli effetti, i loop tratti da prove di studio e un po’ di rumorismo prima di dare il “la” ad una seconda parte più cattiva e convincente.

Psychic Plice Force si apre con chitarre distorte e dopo un po’ di divagazioni al limite del rock industriale si concretizza in un qualcosa di più convincente che suona come una cavalcata elettronica di grande potenza.

Più interessante Floral Flotilla con una base ritmica molto meccanica che lascia sprigionare una bella introduzione elettrica della chitarra prima di lasciar prendere il sopravvento alle tastiere in odor di Genesis virati metal.

Il disco si chiude con Octavio (ma attenzione, la setlist riportata in copertina non ripropone i brani come li si ascolta sul CD, o sulla versione in vinile), un brano più conforme, meno di rottura ma non meno dirompente in cui tutte le connotazioni prog si fanno sentire prepotentemente, confermando il buono stato di salute dei Mahogany Frog.

Paolo Crazy Carnevale

SORI TIGULLIO LEVANTE MAX MANFREDI 29 LUGLIO 2021

di Ronald Stancanelli

31 luglio 2021

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Suoni irrequieti nel Tigullio. Eh si perché in quel di Sori, in una dolce piazzetta abbarbicata tra chiesa e spiaggia, tra virtù e degrado, la volta alta e maestosa della chiesa si scontra con saltuari mostruosi rumori a mo’ di carro armato dati da enormi contenitori per la rumenta su rotelle che volenterosi lavoratori locali ogni tanto sospingono per svuotarli verso un probabile centro di raccolta ubicato a pochi metri dalla casa del Signore.
Casa del Signore concessa, anzi il suo antro concesso dal prete del paese a Max Manfredi e due suoi intrepidi pard che li affaccendati a regalar musica suoni e versi, nobilitano sia detto sagrato che la serata. 83 minuti per circa duecento colà convenuti che si spelleranno le mani assistendo ad una splendida esibizione che porterà nelle orecchie, nei cuori , negli occhi e nella mente dei presenti undici tasselli gia noti della discografia di Max Manfredi, il più grande tra i grandi, e altre quattro nuove intense novelle in musica che a breve saranno ossatura portante del suo prossimo album che par in dirittura d’arrivo. Sarebbe il suo sesto oltre ad un live e ad alcuni libri tra racconti, novelle e poesie che formano la solida conformazione cultural poetica musicale di questo straordinario artista definito un giorno da Fabrizio De Andrè, “il migliore che abbiamo”.
Max ha sparso nei suoi parchi album innumerevoli gioielli che nel corso del tempo son solidamente divenuti granitici pezzi della sua notevole storia artistica. Alcuni di questi li propone questa sera e precisamente la Fiera della Maddalena, brano che uscì nella sua primigenia stesura con il contributo di Fabrizio De Andrè che vi cantava in due punti , Tabarca, affascinante storia dei pegliesi/genovesi che per vicissitudini storiche finirono a vivere a Carloforte in Sardegna ove tutt’ora portano rigorosamente avanti le loro tradizioni ed in special modo il loro dialetto, cosa che il sottoscritto ha constatato con gran fascino quando capitò di passarci, Notti slave, esuberante racconto di splendido piacere e ritmo impagabile, Libeccio, liberatoria e lancinante nella sua intrinseca avvenenza e non ultima l’eccezionale Il Regno delle Fate, una delle perle di Luna Persa. Max Manfredi le ha proposte stasera con gioia e godimento dei presenti che non hanno smesso di dimostratore il loro apprezzamento e sollazzo con lunghissimi e sinceri applausi. Da L’Intagliatore di Santi, disco del 2001 che reputo nella sua totalità il suo lavoro più solare, allegro, orecchiabile, divertente ed intriso di genialità e genovesità il buon Max ci ha regalato ben tre pezzi, ovvero due super classici ormai tra il top della sua produzione ovvero Fado da Dilettante e Tra Virtù e degrado e quello splendido gioiellino de Le Storie del Porto di Atene. Che per restare in tema ellenico fa il paio con una altro dei suoi grandiosi capolavori che è Retsina, che ci arriva direttamente dall’album Luna Persa che fu Premio Tenco l’anno dopo la sua uscita e del quale stasera abbiamo ascoltato come detto anche Libeccio. Sempre da questo disco, mi permetto di considerare Intagliatore e Luna i suoi due capolavori non voglio dire inarrivabili, aspettiamo sempre i suoi prossimi capolavori, ma di livello superbo, abbiamo ascoltato la solida Il morale delle Truppe e la divertente e geniale Il Treno per Kukuwok e avremmo con gioia sentito anche L’ora del Dilettante che pur annunciata poi, par per la non perfetta conoscenza, se abbiam bene inteso, da parte del chitarrista è stata accantonata a favore del Morale delle Truppe. Chitarrista nelle sembianze di Luca Falomi che con la bravissima Alice Nappi, la nostra Scarlet Rivera, hanno splendidamente accompagnato Max Manfredi in questa tersa e fresca serata di riviera. Ben quattro le anticipazioni dal disco in uscita. L’intensa acutissima La Scimmia Grigia, già sentita in precedenti concerti e poi una profumata Elicriso, una arguta e splendida La Villa, se questo è il suo titolo, che sarà sicuramente punto di forza del nuovo disco ed infine il Grido della Fata che darà il titolo all’attesissimo settimo album, se consideriamo anche Live in Blue del 2004.
Quindici brani. Quindici momenti che hanno , come diciamo noi qua a Genova, dato il bianco rammentandoci che Max Manfredi è, non a torto il grande dei grandi. Grazie Max e Alice e Luca per la bellissima briosa ed allegra serata intrisa di passione e maestria infinita.

Ronald Stancanelli

THE PRETTY THINGS – Bare As Bone, Bright As A Blood

di Paolo Crazy Carnevale

26 luglio 2021

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The Pretty Things – Bare As Bone, Bright As A Blood (Madfish 2020)

All’indomani del tour del 2018 i gloriosi Pretty Things, sempre capitanati come ai tempi dell’esordio dalla chitarra di Dick Taylor e dalla voce di Phil May, avevano annunciato che sarebbe stato l’ultimo, complici le non eccellenti condizioni fisiche del vocalist, sempre comunque suggestivo, e l’età ragguardevole del chitarrista, che oggi ha la bellezza di 78 anni. Nonostante le premesse, il gruppo continuava ad avere un grande smalto, e chi ha avuto modo di assistere ad uno dei loro concerti italiani del dicembre 2017 se n’è senz’altro reso conto: in quell’occasione al loro fianco c’era l’altro cantante/chitarrista Frank Holland (partner dei due fondatori da oltre vent’anni) e c’erano il muscoloso drummer Jake Greenwood e il bassista George Woosey, entrambi in formazione da una dozzina d’anni. In cabina di regia c’è invece Mark St.John, il batterista che era stato seduto dietro i tamburi per un paio di lustri prima di Greenwood.

L’annuncio del ritiro dall’attività live non sarebbe coinciso comunque con l’interruzione di quella discografica, tanto che i due rocker britannici avevano già registrato questo nuovo disco, molto acustico e molto “ritorno alle origini”, quando purtroppo nella primavera dello scorso anno, il buon May è passato a miglior vita in seguito alle complicazioni dovute ad una caduta in bicicletta durante il lockdown.

Nonostante la loro carriera sia sta quasi ininterrotta dal 1963 in poi – con solo una breve sospensione nella seconda metà degli anni settanta, i Pretty Things sono stati piuttosto avari quanto a dischi, preferendo concentrarsi su un’intensa ed incendiaria carriera concertistica.

Dick Taylor per la cronaca, chitarrista dal suono potente, era stato reclutato da Brian Jones (insieme a Jagger e Richards che con lui facevano parte dei Blue Boys) per suonare nel gruppo che Jones stava mettendo insieme (occorre dirvi il nome?), ma dopo un po’ ne era uscito perché lo avevano destinato a suonare il basso e la cosa non gli piaceva.

Il disco finale dei Pretty Things, uscito a settembre dello scorso anno col titolo di Bare As Bone, Bright As Blood è un disco dalle atmosfere acustiche realizzato con l’aiuto di pochi comprimari, praticamente tutti chitarristi (tra cui George Woosey, il bassista degli ultimi dodici anni) , con l’esclusione del violinista Jon Wigg e di Sam Brothers, che suona anche banjo e armonica. Taylor e May mettono in fila una dozzina di composizioni dalle diverse ispirazioni, da brani cantautorali presi in prestito ad illustri colleghi più giovani a solidi blues dal pedigree eccellentissimo che permettono a Taylor di svisare con la slide e a May di adattare la sua nuova voce arrochita dagli anni e dalla malattia. Il risultato è pregevole fin dall’iniziale ripresa di Can’t Be Satisfied e da Come On In My Kitchen (l’armonica di Brothers è qui semplicemente unica) che nulla hanno da invidiare alle molte che abbiamo già ascoltato e per di più sfoderano anche arrangiamenti non scontati.

Ain’t No Grave, come il titolo fa evincere, è un blues sepolcrale preso in prestito dal predicatore pentecostale americano Claude Ely, mentre Falultline è una personale rivisitazione di un brano dei Black Rebel Motorcycle Club, tratto dal terzo disco della band uscito nel 2005. Con Redemption Day, che chiude il lato A, i Pretty Things rileggono invece Sheryl Corw, come se si trattasse di una canzone di Nick Cave, con la voce di May che si fa particolarmente profonda e dolente.

Il lato B parte con una doppietta altrettanto dolente, una composizione di Gillian Welch (The Devil Had A Hold On Me) e una di Woosey (Bright As Blood), entrambe caratterizzate dagli interventi di banjo e violino.

Poi si torna al blues eterno con una Love In Vain come si deve, una delle poche davvero valide dopo quella dei Rolling Stones e il traditional Black Girl (un brano di dominio pubblico che con altri titoli si era già fatto interpretare dal Sir Douglas Quintet e da Gene Clark, tra i molti): la versione è all’altezza del sound cupo, quasi da funerale, che pervade buona parte del disco, quasi i Pretty Things avessero avuto il sentore che non ce ne sarebbero stati altri.

To Build A Wall, del cantautore britannico Will Varley, è dedicata da May ai figli ed è forse il brano in cui la voce arranca maggiormente, si sente la sofferenza del cantante che la interpreta in maniera molto sentita, poi con la lenta ballata Another World il disco giunge al capolinea, un disco importante e non solo perché dai Pretty Things altri non ne avremo.

Paolo Crazy Carnevale

MARBIN – Fernweh

di Paolo Crazy Carnevale

19 luglio 2021

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Marbin – Fernweh (Radio Artifact 2021)

Decisamente i Marbin sono instancabili e i mesi di forzata inattività concertistica, per loro che trascorrono la maggior parte del tempo on the road, è stata uno stimolo a incrementare la produzione discografica.
Dopo il recente live a porte chiuse e il doppio album di studio Russian Dolls con due differenti concept, ecco il loro terzo disco del 2021.
Stavolta però l’asse si sposta decisamente verso la parte più tradizionale del loro sound, solitamente all’insegna di una miscela tra musica Yiddish e un jazz-rock molto personale che mette in evidenza le peculiarità dei due leader, il sassofonista Danny Markovitch e il chitarrista Dani Rabin, coadiuvati qui da Jon Nadel (al basso), è totalmente indirizzata altrove, niente elettrificazione e divagazioni jazz rock bensì un accorato omaggio al jazz e allo swing delle origini, filtrato però attraverso una visone musicale vicina al klezmer e alla musica di Django Reinhardt.
Il risultato è un disco pervaso da struggenti atmosfere nostalgiche – in tedesco il termine usato per intitolare il disco significa nostalgia per qualcosa di lontano – e acustiche.
La band di base a Chicago allinea in sequenza una dozzina di brani classici che trasudano di gypsy e dixieland, con chitarre e sax protagonisti assoluti.
Non v’è un solo brano fuori posto, dall’iniziale versione di Stardust all’immancabile Minor Swing (probabilmente la signature song di Django), eseguite con gusto inarrivabile e gioia di suonare totale. Ma ci sono anche un’entusiasmante I’ll See You In My Dreams, Nuages (di nuovo Reinhardt), Georgia On My Mind, All Of Me, Honeysuckle Rose e molto altro.
Attenzione però, non giudicatelo solo come un disco di standard, o cover che dir si voglia: il lavoro dei Marbin in Fernweh va otre e, soprattutto non suona come un disco di routine fatto per riempire un vuoto (i Marbin non ne avevano certo bisogno), quanto piuttosto un omaggio accorto ad un suono che viene da lontano e per cui, come il titolo appunto suggerisce, Rabin e Markovitch nutrono una certa nostalgia.

Paolo Crazy Carnevale

DEWA BUDJANA – Naurora

di Paolo Crazy Carnevale

13 luglio 2021

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Dewa Budjana – Naurora (Moonjune Records 2021)

C’era parecchia attesa per questa nuova fatica del chitarrista indonesiano: Budjana – e qui lo dimostra – molto difficilmente sbaglia un colpo, ma il disco precedente, Mahandini, resta per chi scrive il punto più alto della sua discografia in casa Moonjune. Naturalmente anche questa volta il musicista non delude e, tanto per cambiare, anche stavolta ribalta le carte in tavola: niente più John Frusciante, Mike Stern, né tantomeno la straordinaria bassista Mohini Dey, per realizzare in piena pandemia e quindi a distanza questo nuovo disco, Budjana si è affidato ad un formazione completamente diversa, col risultato di realizzare un disco molto più jazz, molto più fusion e fluido con un dispiego di musicisti non usuale nei suoi prodotti discografici.

Gli undici minuti della title track aprono il disco in un lungo viaggio sonoro che si dipana con maestria offrendo suggestivi paesaggi e orizzonti che si susseguono in rapidità. Il basso è suonato da Carlitos Del Puerto, musicista cubano che ha lavorato con Lukather, la Streisand e molti altri, la batteria è invece di Simmon Phillips (molto attivo anche in campo heavy metal con Whitesnake, Judas Priest, Satriani), per concludere al piano c’è Joey Alexander, enfant prodige (18 anni!) connazionale di Budjana.

Il fatto di lavorare a distanza, ha permesso al titolare del CD di poter cambiare radicalmente il gruppo tra un brano e l’altro, così nei quasi sette minuti della successiva Swarna Jinga la batteria passa nelle mani di Dave Weckl (considerato uno dei più importanti artisti americani nel suo strumento e nel suo genere, anche se a ben vedere non ha mai avuto problemi a passare dal jazz al rock classico, alla fusion), il basso è quello di Jimmy Johnson, già componente della Steve Gadd Band e come ospite alla chitarra – solista alla pari con Dewa – Mateus Asato.

Kmalasana vede di nuovo in pista la sezione ritmica del brano iniziale e in assenza del piano vede la chitarra protagonista a 360°.

Con Sabana Shanti Budjana mescola le formazioni, col risultato di realizzare il brano più jazz del disco, c’è di nuovo il giovane pianista e c’è soprattutto il sax soprano di Paul McCandless, proprio il fondatore degli Oregon e successivo membro dei Flecktones di Bela Fleck, che diventa la guida dei quasi otto minuti della composizione, a dimostrazione di come Budjana sia sempre più che ben disposto a cedere la scena ai suoi comprimari ed ospiti. A chiudere il disco la lunga Blue Mansion, con Phillips che apre rullando sui suoi tamburi e il resto che arriva un po’ alla volta, Del Puerto, Budjana e il piano e il synth del compagno di scuderia Gary Husband, unica personalità di casa Moonjune coinvolta nel disco.

A conti fatti un buon disco, anche se paga un po’ lo scotto dell’essere stato suonato a distanza e non avere quindi quel sound collettivo del suo predecessore, che essendo derivato invece da una session con i musicisti in presenza, conta su spontaneità e calore tutti suoi.

Paolo Crazy Carnevale

MICHAEL JOHNATHON – The Painter

di Paolo Baiotti

13 luglio 2021

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MICHAEL JOHNATHON
THE PAINTER
Poet Man Records 2020

Artista eclettico, il newyorkese Michael Johnathon si è trasferito a Laredo e poi nella zona degli Appalachi dove ha studiato la tradizione musicale locale. L’esordio solista risale al 1988 e The Painter è il suo sedicesimo album. Oltre ad essere uno stimato folksinger e chitarrista, è drammaturgo, scrittore, compositore di un’opera, fondatore dell’organizzazione di artisti SongFarmers, animatore di un conosciuto programma radiofonico…insomma un artista che non ama essere ingabbiato in un formato. Nel 2020 ha ricevuto il prestigioso Milner Award dal governatore del Kentucky per meriti artistici.
Questo nuovo album è ispirato all’arte pittorica di Vincent Van Gogh, sia nei dipinti dell’artwork scelti tra una quarantina di quadri eseguiti da Michael durante il lockdown, sia nell’approccio musicale, un tributo ad un artista unico, non per copiarlo ma per cercare di omaggiarlo, componendo un ciclo di canzoni basato sull’idea della tela bianca della vita riempita con i colori della vita, come dichiarato dall’artista.
Se il precedente Legacy aveva come punto di partenza un’intervista al cantante Don McLean nella quale veniva descritto con sconcerto l’attuale stato dell’industria musicale, la canzone The Painter è ispirata dalla sua Vincent che viene ripresa in chiusura del disco in una versione molto raffinata, come a completamento di un cerchio. Come sempre Michael alterna brani originali a cover: oltre a Vincent vengono eseguite Cat’s In The Cradle di Harry Chapin con influenze irish, Make You Feel My Love di Bob Dylan arrangiata dolcemente con piano e archi e Blue Moon di Rodgers e Hart, una classica ballata del ’34 ripresa da artisti di tutte le epoche, trasformata in una folk song. Tra gli originali spiccano Vincent In The Rain, The Statement con il flauto di Sharon Ohler e la bluesata Blues Tonight in cui si nota il raffinato fingerpicking dell’artista.
La canzone The Painter dovrebbe essere anche la sigla di un film in preparazione sulla vita di Van Gogh.

Paolo Baiotti

FABRIZIO POGGI & ENRICO PESCE – Hope

di Paolo Crazy Carnevale

9 luglio 2021

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Fabrizio Poggi & Enrico Pesce – Hope (Appaloosa/IRD 2021)

Infaticabile e sempre propositivo, ad un anno appena da For You, realizzato durante il primo lockdown, quello più severo e drammatico, Fabrizio Poggi, sempre sponsorizzato dalla Appaloosa torna con un nuovo disco, di cui condivide la paternità col pianista e compositore di musica da film Enrico Pesce.
Anche stavolta sembra trattarsi di un disco fortemente legato al periodo storico attuale e il titolo non lascia dubbi sulla sua ispirazione.
Una decina di brani, dominati quasi totalmente dal suono del pianoforte di Pesce e dalla voce di Poggi, che qui si fa soprattutto interprete vocale, anche se la sua preziosa armonica non manca di fare capolino qua e là.
Brani che pescano nella tradizione, oppure recano firme importanti o ancora, nella metà dei casi sono composti ex novo dai due autori.
Il risultato è un disco molto godibile, intriso di soul, e non potrebbe essere diversamente viste le sfumature della voce di Poggi e il suo modo di sentire la musica, decisamente non comune.
Il piano di Pesce si sposa alla perfezione ed è protagonista alla pari.
E poi, a mettere la ciliegia sulla torta, ciliegia di grande rilievo e bontà, ci sono le voci di Sharon White (da anni corista nel gruppo di Eric Clapton) ed Emilia Zamuner, che infondono ai brani in cui duettano con Fabrizio Poggi un’ulteriore connotazione black.
Alla base delle canzoni, sia quelle nuove che quelle ripescate, c’è il concetto del “ogni vita è importante”, gemello del “black lives matter” che è rimbalzato da un angolo all’altro del mondo dopo i tristi episodi di violenza gratuita accaduti con frequenza negli Stati Uniti negli ultimi dodici/quattordici mesi.
Ovviamente piacciono molto i brani originali, dall’iniziale Every Life Matters che è appunto il brano guida del concetto poc’anzi espresso, la composizione che reca le firme sia di Poggi che di Pesce ed è arricchita dalla voce della White e da un handclapping che sembra riportarci in una chiesa di Harlem, alla conclusiva Song Of Hope, passando per Leave To Sing The Blues, molto New Orleans, e I’m Leavin’ Home: in tutte Poggi è soprattutto cantante e il piano è lo strumento principale, anche se poi un bel passaggio di armonica ci scappa sempre.
Le cover sono tra le più varie, dall’antica Hard Times di Stephen Foster, brano che abbiamo ascoltato in molte versioni (da quella ruvida di Dylan a quella di Emmylou Harris) e che non sfigura nemmeno in questa, a I Shall Not Walk Alone di Ben Harper. Poi ci sono i brani tradizionali: l’ottima Motherless Child (in duetto con la Zamuner e con un bell’intervento alla sei corde di Hubert Dorigatti, bluesman eccellente di cui ci siamo già occupati e di cui è assai atteso il debutto su Appaloosa), House Of The RIsing Sun, Goin’ Down The Road Feelin’ Bad, tutte composizioni che ci suonano incredibilmente familiari eppure al tempo stesso brillano per la spartana originalità dei nuovi abiti cuciti loro addosso da Pesce.
Oltre agli artisti menzionati, nel disco ci sono pochi altri interventi, giusto una spruzzata di basso (Jacopo Cipolla) e percussioni (Marialuisa Berto e Giacomo Pisani), da qualche parte fa capolino anche un hammond non accreditato ma verosimilmente attribuibile a Pesce.

Paolo Crazy Carnevale

SON OF THE VELVET RAT – Solitary Company

di Paolo Baiotti

9 luglio 2021

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SON OF THE VELVET RAT
SOLITARY COMPANY
Fluff & Gravy 2021

Son of the Velvet Rat è l’alias scelto per l’avventura solista di Georg Altziebler, coadiuvato dalla moglie Heike Binder. La loro storia è iniziata nel 2003 con l’Ep Spare Some Sugar [For the Rat] seguito dall’album By My Side. Dopo l’apprezzato Animals del 2009 prodotto dall’ex Wilco Ken Coomer, hanno pubblicato Red Chamber Music con ospite in due canzoni Lucinda Williams.   Successivamente hanno lasciato la loro città natale di Graz in Austria per un trasferimento oltre l’Atlantico, stabilendosi infine lungo il bordo del deserto del Mojave in California a Joshua Tree nel 2013, dove hanno inciso l’ottavo album in studio Dorado con la produzione di Joe Henry, seguito dal live The Late Show. In questo ambiente molto particolare e solitario Georg ha scritto delle canzoni che si possono considerare influenzate dalla tradizione cabarettistica di maestri del Vecchio Mondo come Georges Brassens, Jacques Brel e Fabrizio De André, fusa con la passione e le visioni di cantautori del Nuovo Mondo come Townes Van Zandt, Leonard Cohen o Bob Dylan, un misto di folk noir, folk rock, garage rock e Americana.
Il risultato di Solitary Company, inciso negli studi Red Barn di Morongo Valley in California di Gar Robertson che affianca Georg nella produzione, è molto particolare, come un ponte tra Europa e America, guidato dalla voce ghiaiosa e sensuale di Georg, accompagnato dall’organo mitteleuropeo e dalla fisarmonica di Heike nonché da una strumentazione che mischia suoni di roots music con arrangiamenti eleganti e minimali e curati backing vocals. Atmosfere da film noir nella lenta e affascinante When The Lights Go Down in cui la voce ondeggia tra Cohen e Waits si alternano alla ballata folk The Waterlily & The Dragonfly, al folk rock malinconico di Alicia con il violino di Bob Furgo e l’armonica di Heike, al roots rock più ritmato di Stardust, alla mestosità della title track debitrice di Cohen avvolta da un arrangiamento orchestrale, chiudendo con la dolente ballata waitziana Remember Me in cui la slide, l’elettrica e l’organo offrono un arrangiamento di grande fascino.
Un disco da ascoltare nel silenzio della notte, preferibilmente in cuffia.

Paolo Baiotti