Archivio di ottobre 2023

JESSE DENATALE – The Hands Of Time

di Paolo Crazy Carnevale

26 ottobre 2023

Jesse DeNatale

Jesse DeNatale – The hands of Time (Blue Arrow Records 2023)

Notevole ritorno per questo cantautore che ha ormai al suo arco (il termine è quanto mai appropriato vista l’etichetta per cui incide) un discreto numero di dischi, il precedente the Wilderness ci era piaciuto e non può non piacere questo nuovo prodotto che si autodefinisce un disco estivo, per il fatto che l’estate è la stagione in cui sono ambientate le canzoni.

DeNatale è dotato di una felice vena creativa, le sue canzoni si lasciano ascoltare con una facilità estrema, che non è un fattore da sottovalutare. Non lasciatevi fuorviare dal fatto che tra i suoi estimatori ci sia Tom Waits, la voce e lo stile di Jesse, nativo californiano, sono ben distanti da quelle del suo estimatore: l’attestato di stima da parte del rauco Tom sia comunque preso in considerazione come apprezzamento da parte di uno che di musica se ne intende.

Il disco inizia con la piacevole Right Before My Eyes, canzone dall’andamento lirico, con Jesse alla chitarra acustica e al piano, accompagnato solo dalla batteria di Nino Moschella, produttore e polistrumentista, e dal violino di Alisa Rose: ci sono già tutte le coordinate per capire che disco abbiamo per le mani, Sweet Arrival ci conferma il buono stato dell’ispirazione del nostro, la base musicale è sempre minimale, in punta di un pianoforte che diventa mano amano sempre più importante, Where Am I è un altro brano riuscito, qui l’apparato strumentale si arricchisce di una chitarra elettrica mai invadente opera di Tom Heyman, apprezzabile cantautore californiano passato anche per il nostro paese qualche anno fa in veste di accompagnatore di Dan Stuart. Probabilmente l’accompagnamento ritmico di The Hat Shop è l’unico momento del disco che si accosta allo stile del mentore Waits, ma il cantato va in tutt’altra direzione, complici anche i coretti del produttore.

Love Is ha un solido impianto ritmico, DeNatale ricorda qui in qualche modo il Lou Reed più tardo, più per il modo di cantare che per le sonorità in cui il piano è sempre determinante, anche se buona parte dell’ossatura poggia sul suono dell’organo ad appannaggio di Moschella.

Streets of Sorrow vira verso un lento andamento swingato, con la batteria spazzolata, e ha una lunga coda strumentale su cui organo e chitarre ricamano, più cupa la struttura di Stop The World con un assoletto di armonica del titolare; tra le canzoni più belle del disco arriva quindi quella che gli dà il titolo, una composizione più lunga dove ritorna l’elettrica di Heyman, impegnato qui anche alla pedal steel.

Intima la struttura di Station Master, cantata in punta di piedi con qualche colpo di percussione e con la pedal steel di Heyman a tessere il sottofondo. Archi e poca chitarra sono l’abito del brano conclusivo, Late September che come il precedente ha le percussioni inserite nel mix con eccessiva cupezza e distorsione.

Paolo Crazy Carnevale

THE LONG RYDERS . Torino, Blah Blah, 11/10/2023

di Paolo Baiotti

21 ottobre 2023

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Dopo alcune reunion temporanee tra il 2004 e il 2014 i californiani Long Ryders sono tornati stabilmente insieme in seguito alla pubblicazione del box Final Wild Songs (Cherry Red 2016) che ha raccolto i tre dischi pubblicati negli anni ottanta e altro materiale in studio e dal vivo, in gran parte inedito. Il quartetto classico formato da Sid Griffin e Stephen McCarthy (voce e chitarra), Tom Stevens (basso e voce) e Greg Sowders (batteria) dopo una serie di concerti ha registrato in studio Psychedelic Country Soul, pubblicato nel 2019 e accolto positivamente soprattutto in Europa dopo il quartetto ha sempre avuto una discreta popolarità, specialmente in Gran Bretagna e Spagna. Il successivo tour ha attraversato il nostro continente con tre date italiane a Chiari (ne abbiamo scritto sul n. 138 di LFTS), Ravenna e Sarzana. Poi c’è stata la pandemia e il 23 gennaio 2021 l’improvvisa morte di Stevens, eccellente bassista, voce solista, corista e autore. Il gruppo ha deciso di continuare incidendo nel 2022 September November, pubblicato quest’anno dalla Cherry Red, sostituendo Tom con Murry Hammond dei texani Old 97’s e tornando finalmente in tour. Dopo alcune date spagnole e una francese hanno raggiunto l’Italia facendo tappa al Blah Blah di Torino, dopo la serata di Savona e prima di quella romana.

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Il gruppo ha confermato di essere ancora unito ed energico, affiancando allo storico materiale degli anni ottanta i brani dai due album post-reunion che si sono dimostrati all’altezza del passato. Considerati tra i protagonisti dell’alternative-country e dell’Americana, esponenti del californiano Paisley Underground con Dream Syndicate, Rain Parade, Three O’Clock e Bangles, fortemente influenzati da Byrds e Buffalo Springfield, i Long Ryders hanno aperto la serata con la ritmata accoppiata Tell It On The Judge On Sunday e You Don’t Know What’s Right, entrambe tratte dall’esordio Native Sons, seguite dalla più recente All Aboard (scritta da Griffin e Stevens) e dalla title track del nuovo album. Nella parte iniziale del concerto si è notata quale imperfezione, soprattutto da parte di Griffin che rappresenta l’anima più scherzosa del quartetto (un paio di volte si è divertito a salutare il pubblico con dei messaggi in italiano dal telefonino), mentre McCarthy si è dimostrato più concentrato e rigoroso, puntuale sia alla voce che alla chitarra ritmica e solista. I due si sono alternati alla voce, mentre Hammond ha collaborato ai cori (meno efficace di Stevens). Con la cavalcata di State Of Our Union, la ballata Two Kinds Of Love e la byrdsiana Ivory Tower il concerto è decollato proseguendo, per citare i brani migliori, con la cover di Mr Spaceman dei Byrds cantata da Hammond, la melodica Greenville da Psychedelic Country Soul, il western/country Gunslinger Man e la travolgente Lights Of Downtown. Dopo una breve pausa, senza lasciare il piccolo palco, hanno ripreso un po’ a sorpresa The Shape I’m In (Robbie Robertson), chiudendo la serata con la travolgente Looking For Lewis And Clark, la traccia di maggiore successo della loro storia che apriva il secondo album State Of Our Union.
Un concerto divertente e brioso che ha avvalorato la vitalità del quartetto californiano.

Paolo Baiotti (foto di Michele Marcolla)

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RAWSTARS – Rawstars

di Paolo Crazy Carnevale

14 ottobre 2023

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RAWSTARS – Rawstars (Route 61 2022)

Sappiamo che c’è chi diffida a priori dei dischi rock italiani. Ed è un peccato, perché ormai dovrebbe essere ampiamente dimostrato che in Italia si può fare dell’ottimo rock, come si fa anche dell’ottima musica derivata o di genere americana, ma anche heavy metal, rock sudista e via dicendo.

Questo disco dei romani Rawstars rientra di diritto nel novero dei migliori album italiani di rock, non classic rock, non rock estremo, rock a 360°. Il quartetto è formato da Francesco Lucarelli (voce e chitarra), Fabrizio Settimi (basso), Marco Molino (batteria) e Marco Valerio Cecilia, titolare di una chitarra solista poliforme e lirica.

Se il nome di Francesco Lucarelli non vi è nuovo del tutto, vi diremo che è uno dei più assidui frequentatori italici dell’universo CSNY (ne conosco almeno un altro paio, ma ce ne sono molti), un frequentatore/amico visto che la sua passione per questi musicisti è talmente profonda e sincera che è arrivato a stringere amicizia con loro e buona parte dei loro sparring partner, tanto che più o meno in contemporanea col disco è uscito anche un suo libro dedicato a Crosby, Stills & Nash, un libro ricco di rare fotografie e rare testimonianze.

Ma non facciamoci trarre in inganno: non è la musica di CSNY o CSN che troviamo all’interno del CD dei Rawstars, è musica originale, non derivativa, puramente rock. Certo, qualche influenza la si può anche trovare, come ad esempio nei cori di Don’t Lock Me Down, degna del miglior Neil Young coi Crazy Horse (cori inclusi), qua e là ci sono le staffilate di chitarra elettrica, altrove c’è qualche coro che rimanda a CSN, ma per il resto il contenuto del disco è tutto farina del sacco Rawstars.

La tripletta iniziale potrebbe valere il disco (ma faremmo un torto ad altri brani), tre canzoni una più riuscita dell’altra, belle e schiette, ben costruite sotto ogni profilo: si comincia con Sometime da cui capiamo pure che Lucarelli è dotato di una buona voce che non va a imitare nessuno, poi Watching The Show si presenta come uno dei brani di punta, mentre la citata Don’t Lock Me Down è adrenalina pura, bel riff, ed è il primo brano del disco a sfoderare ospiti da paura. Ci sono infatti la voce di Inger Nova e la slide di Jeff Pevar, marito e moglie, coppia artistica, lui con un curriculum che partendo da Marc Cohn, Joe Cocker e Ray Charles è arrivato a Crosby (sia solo che con CPR e CSN). Paper Girl non è da meno, c’è l’organo hammond dell’amico Gianluca Sabbi, titolare di quasi tutte le tastiere del disco, e ci sono chitarre arroventate nella parte centrale che rimandano ai duelli chitarristici Stills/Young di fine anni sessanta.

Faster Than The Light è un brano più intimo, all’insegna della raffinatezza, lo canta Marco Valerio Cecilia in duetto con Luisa Capuani mentre ospite alla pedal steel c’è l’eccelso Greg Leisz.

Vorrei aprire qui una parentesi sugli ospiti: a qualcuno verrà da pensare che magari tutti questi artisti da Olimpo suonino nei dischi di solisti e gruppi italiani (non mi riferisco solo ai Rawstars) solo per amicizia, ma non è così, gente di questo livello non si espone se non crede nel progetto e nella bontà del materiale!

Con Follow You torna l’elettricità e torna la voce di Lucarelli, anche qui il riff è molto sostenuto, per contro con If I Were An Angel siamo al cospetto di un blues anomalo un po’ in stile Stephen Stills, sempre egregie le parti di chitarra, ma quello che colpisce è la presenza dell’organo Hammond-B3 di Mike Finnigan, a più riprese tastierista sia del solo Stills (fin dai tempi della California Blues Band che arrivò fin da noi nel 1980) che di CSNY, oltre che titolare di interessanti dischi solisti: il suo lavoro in questo brano è oltre gli applausi, la chitarra di Cecilia duetta alla perfezione. Peccato che Finnigan sia scomparso appena dopo queste registrazioni, che potrebbero essere quindi la sua ultima testimonianza su disco. Il brano seguente, Let Me Take You Higher è una canzone d’amore dedicata da Lucarelli alla moglie, un brano che parte lento e cresce poco a poco fino all’esplosione del refrain, la chitarra slide e i cori sono stavolta di Gianluca Galletti. Il finale in odore di psichedelia beatlesiana va sapientemente a citare addirittura Dear Prudence, andando po a sfociare nell’attacco altrettanto psichedelico di Fly Someday tutto costruito sulla pedal steel di Leisz in una sorte di omaggio allo stile di Jerry Garcia e ai suoni di If I Could Only Remember My Name, forse l’unico momento del disco decisamente ispirato ai beniamini di Lucarelli. Il banjo e la mandola sono opera di Stefano Santangelo.

Il disco si chiude con Summer Night Blues (con fiati, piano arzillo e un riff degno di Keith Richards) e con l’intima e breve How Could I’ve Been So Blind di nuovo cantata da Marco Valerio Cecilia, unici strumenti le chitarre e una tromba alla Mark Isham.

Bravi davvero!

Paolo Crazy Carnevale

STEVE MEDNICK – 1952

di Paolo Baiotti

6 ottobre 2023

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STEVE MEDNICK – 1952
Cottage Sound/Hemifran 2023

A tre anni di distanza da Enough, Steve pubblica il quindicesimo album di una carriera solista iniziata nel 2006 con Dark Ages Reprise: Songs in the Key of Gw. Avvocato di successo nato e residente in Connecticut, da sempre appassionato e coinvolto nelle tematiche dei diritti civili, ha trasferito questi interessi anche in ambito musicale pubblicando album impegnati che sembrano provenire da un’altra epoca, quando la musica folk/rock o almeno parte di essa aveva un significato profondo politico e sociale. I suoi testi parlano di democrazia, immigrazione, violazione dei diritti delle minoranze, mentre per quanto riguarda la musica l’ispirazione proviene dai classici degli anni sessanta e settanta.
Prodotto da Isaac Civitello che ha registrato nel suo Barn At The Cottage Sound di Middlebury in Connecticut e suonato batteria, chitarra e tastiere, 1952 si avvale della collaborazione di Karl Allweier (basso e chitarra) e Brett Calabrese (chitarra e tastiere), con Steve alla chitarra, piano e tastiere. E’ un album di rock melodico in cui la chitarra è quasi sempre in primo piano, sia in tracce più ritmate come l’opener Version Of The Truth e la robusta This Place, che nei mid-tempo Lost And Found e Reading The Signs.
La voce un po’ monocorde può ricordare a tratti Bob Dylan o Mark Knopfler, che è anche un’ispirazione per la tonalità della chitarra, mentre gli argomenti trattati nei testi sono più personali rispetto ad altre occasioni: la nostalgica Fulton Hill introdotta dall’armonica di Eddie Seville, la dolente It Hurts Me con un assolo debitore di David Gilmour e After All These Years, una riflessione sulla sua vita dopo avere compiuto 70 anni, esemplificano questa scelta. Non a caso nelle note del disco Steve scrive: “Each and every morning I look mortality straight in the eye and declare: ‘There is still so much to do! Don’t mess with me! Please?’ ”. Proprio After All These Years è la traccia più ambiziosa del disco sviluppandosi in 13’: una ballata malinconica con l’acustica che accompagna la voce in un crescendo progressivo quando entra l’elettrica con inserimenti calibrati che portano a un cambio di ritmo e a un indurimento del suono fino a metà della canzone, quando rallenta nuovamente con un’acustica raffinata in appoggio e una ritmica efficace, per aprirsi ad un break strumentale guidato dalla solista di Allweier.
1952 è un disco meritevole di attenzione, consigliato soprattutto agli appassionati di rock classico.

Paolo Baiotti

EXIT STAGE LEFT – Appleberry Trees

di Paolo Baiotti

6 ottobre 2023

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EXIT STAGE LEFT
APPLEBERRY TREES
XPRNC 2023

Se un gruppo decide di chiamarsi Exit…Stage Left, è inevitabile pensare al doppio dal vivo dei canadesi Rush dell’81. In effetti il nome del quartetto svedese di Boras è ricollegato a questo disco e di conseguenza la loro musica trae ispirazione dai Rush nonché da altri gruppi degli anni settanta come Yes, Kansas e Pink Floyd. Siamo ovviamente in ambito rock/prog, anche se nella musica della band l’influenza maggiore sembra quella dei Rush o degli Yes degli anni ottanta, quindi meno prog e più radiofonici con venature new wave. Appleberry Trees è un disco concept di 10 brani che intendono raccontare l’evoluzione di un uomo dalla fanciullezza all’età matura, con gli alti e bassi legati alla vita. Si parla di crescita, di sviluppo mentale e fisico, di speranze non del tutto realizzate nel corso del viaggio, nelle immagini e nelle musiche create soprattutto dal leader Arvid Wilhemsson (voce e chitarra), che nel 2019 ha conosciuto il bassista Robin Hellsing in un parcheggio, invitandolo a jammare. Successivamente si sono uniti il tastierista Daniel Larsson e il batterista Jimmy Svahn. La pandemia ha permesso alla band di provare a lungo e di sviluppare le canzoni che fanno parte dell’album, pubblicato in cd e in doppio vinile con i disegni evocativi di Mattias Kvick. Un disco atipico per questo periodo storico, anche se in Svezia c’è una tradizione prog. L’apertura di Piece Of Gold, uscito come singolo apripista, richiama i Rush dei primi anni ottanta, melodici e radiofonici, con le tastiere in primo piano nei break strumentali, la voce accattivante di Arvid e l’intervento del flauto dell’ospite Jan Bengtson. Good People ha un andamento drammatico e un cantato più solido, mentre End Of The Night ha un’introduzione di tastiere sinfoniche e batteria che precedono la parte cantata punteggiata dal synth in cui si inserisce una chitarra incisiva con un finale di impronta prog, seguita dalla melodica title track, una quieta ballata pianistica che ricorda Steven Wilson. Vagabond’s Trees è la traccia più lunga e anche quella più vicina al prog classico, con echi di Jethro Tull e PFM e una coda folk/rock. Si prosegue con il rock epico di Son che cambia ritmo nella parte finale un po’ confusa, con l’eterea Shine Through e con The Poet, che si riavvicina al prog di matrice britannica con un tappeto di tastiere che precede l’entrata della voce. Le due tracce finali, Old Man Smile e Champs-Elysées, sono le più leggere e forse meno convincenti di un disco che, comunque, regge piuttosto bene nei suoi cinquanta minuti abbondanti di durata.

Paolo Baiotti

HILLSBOROUGH – Comin’ Back For You

di Paolo Baiotti

1 ottobre 2023

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HILLSBOROUGH
COMIN’ BACK FOR YOU
Autoprodotto 2022

Gli Hillsborough sono nati nel 2016 nella regione australiana del Queensland per volontà di Phil Usher e Beata Maglai che hanno scelto il nome come tributo alla zona del Queensland in cui la famiglia di Phil ha vissuto dalla fine del 1800. Inizialmente concepito come un progetto parallelo alla band di garage rock psichedelico Sacred Shrines di cui Phil è chitarrista e Beata tastierista, il gruppo si è progressivamente sviluppato da duo a una vera e propria band durante l’incisione dell’album di debutto con l’aggiunta di Robbie Zawada al contrabbasso e Jonathan Pickvance alla batteria, con Phil, che ha già scritto canzoni per serie tv come Gossip Girl e Dawson’s Creek, quale principale autore e voce solista. Il loro genere è un alternative country con venature blues e western, caratterizzato dalla voce sporca di Usher. L’album d’esordio è stato registrato a Brisbane da Dan James, che aveva già collaborato con i Sacred Shrines ed è stato preceduto da quatro singoli accolti con attenzione e inseriti nel disco. Il primo è Trouble Finds Its Way che apre l’album, uno scorrevole roots-rock con l’armonica nell’intro ed echi di Steve Earle, il secondo la title track, un ruvido e incisivo country-rock, il terzo Magnetic Lives un mid-tempo accattivante con una chitarra vibrante, il quarto Stitches un brano folk-roots energico e contagioso. Tra le altre tracce spiccano la ballata chitarristica Exit Wounds, la bluesata Nobody Knows Your Name con armonica e chitarra acustica in primo piano, l’aspra e oscura Port Jackson Blues e la ruvida e sofferta Far Away From Here in cui si distingue la seconda voce di Beata, mentre in chiusura è posta la ballata acustica Queenie.
Comin’ Back For You è un disco senza riempitivi, ennesimo esempio della vitalità del rock australiano.

Paolo Baiotti

ELLEN RIVER – Life

di Paolo Baiotti

1 ottobre 2023

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ELLEN RIVER
LIFE
Autoprodotto 2023

Una vera sorpresa positiva di questo anno musicale è il doppio album di Ellen River (nome d’arte di Elena Ortalli), uscito alla fine di marzo. Già il coraggio di pubblicare due cd con 27 canzoni inedite e autografe in un momento non certo florido per la discografia è un atto meritevole di apprezzamento. Ma siccome l’aspetto più importante è il contenuto il plauso deve essere doppio, proprio come il disco che è di un livello sorprendentemente alto, racchiudendo tutte le influenze di Ellen legate principalmente alla musica americana (rock, blues, country, soul) e che vuole anche rappresentare un messaggio di ottimismo nell’affrontare la vita con il sorriso (come nella foto di copertina e in generale nelle fote di Ellen), pur avendo già dovuto superare momenti difficili, malattie e problemi di vario genere.
Definita una “cantautrice emiliana con l’America nel cuore”, Ellen è modenese ed ha esordito nel 2013 con Otis a nome di Elena & The Seekers, seguito nel 2018 da Lost Souls, che si può considerare il vero esordio solista, in cui è stata aiutata da alcuni ex Rocking Chairs. Superato il periodo della pandemia la River ha registrato a Rimini il nuovo disco, prodotto da Gianluca Morelli con l’accompagnamento di esperti musicisti come Boris Casadei alla chitarra, Diego Sapignoli alla batteria, Rodolfo Valdifiori al basso, Stefano Zambardino al piano, Enrico Giannini all’organo, Enrico Guerzoni e Luca Falasca agli archi e Alex Valle alla pedal steel.
Non potendo citare per ragioni di spazio tutti i brani del disco, che non ha dei momenti di stanca, occorre fare una scelta. Nel primo cd meritano sicuramente l’apertura gospel-blues di Blues For G, la ritmata Better Than Me che assume venature grunge, il country-rock di Double Trouble percorso dalla pedal steel, la scorrevole title track, la drammatica ballata d’impronta soul I See in cui si apprezza particolarmente la vocalità di Ellen preceduta dallo strumentale Resonance, la pianistica Electroshock e l’emozionante ballata Waiting con la dolente fisarmonica di Zambardino. Il secondo cd è aperto dalla disinvolta This Time Around, seguita dall’oscuro country-roots Just A Bad Dream. Nel suo sviluppo emergono l’eccellente ballata Would You?, l’elettroacustica Lucy, la ballata d’impronta folk Still Learning, Pirates Routes avvolta dagli archi e la briosa Inside A Picture. Il disco è chiuso sobriamente da Gonna Sleep With My Dreams in cui Ellen afferma che questi sogni la lasciano sperare che ci sia qualcosa per lei alla fine della strada. Da parte nostra glielo auguriamo di cuore, sperando che ci siano anche tante altre canzoni di pari livello.

Paolo Baiotti