Archivio di ottobre 2013

Pere Ubu 1988/1993: The Return Of The Avant-Garage

di Marco Tagliabue

29 ottobre 2013

Il nome dei Pere Ubu riappare, a sorpresa, sul finire del 1987. Il processo di disgregazione che aveva travolto la creatura di David Thomas nell’inverno del 1982, dopo la pubblicazione del pur valido Song Of The Bailing Man, oltre a chiudere in maniera piuttosto violenta il primo fondamentale ciclo di vita della band, si era dissolto nei rivoli, per la verità poco rigogliosi, delle carriere soliste degli ormai ex membri degli Ubu. Tom Herman prima da solo e poi con i suoi Tripod Jimmie, e Scott Krauss, Tony Maimone e Jim Jones con gli Home And Garden avrebbero dato alle stampe opere interessanti ma destinate all’oblio dall’ineluttabile destino che regola le umane vicende. Più complicato il discorso intorno al corpulento cantante fondatore dei Pere Ubu, che tra il 1981 ed il 1987 scodella ben cinque album (riuniti più o meno dieci anni dopo nel box set Monster dalla Cooking Vinyl), che mettono a nudo la sua anima di bluesman surrealista a mezza strada fra Captain Beefheart e Snakefinger, in una dimensione più intima e bucolica molto lontana dalle atmosfere sature del gruppo madre. Nel 1986 Allen Ravenstine e Tony Maimone si uniscono a David Thomas ed ai suoi Wooden Birds per incidere l’album Blame The Messenger. Il gruppo include anche un altro ex, Jim Jones e l’ex batterista degli Henry Cow Chris Cutler. Scott Krauss, dopo aver assistito ad un concerto della band a Cleveland, accetta di unirsi al progetto dei Wooden Birds. Di fatto, i Pere Ubu sono tornati sotto mentite spoglie…allora perché non riprendere in mano il vecchio giocattolo e chiamarlo con il suo vero nome? Nel 1987 si ricostituiscono i Pere Ubu con Thomas, Cutler, Jones, Krauss, Ravenstine, Maymone oltre al fisarmonicista John Kirkpatrick e intraprendono un tour a sorpresa in dodici città americane. La risposta del pubblico va al di là di ogni più rosea aspettativa e, per coronare il ritorno della band, manca soltanto il passo più importante.

 

The Tenement Year (Fontana, 1988) è, senza mezzi termini, un autentico capolavoro, un’opera seconda, forse, soltanto all’epocale debutto di dieci anni prima. The Tenement Year è la nuova danza moderna, il valzer dell’Apocalisse che muove i passi su un mondo in piena rivoluzione tecnologica, un universo che, con l’occhio disincantato della maturità, disegna nuovi contorni agli stessi fantasmi di un tempo ed al quale, lontani dai minacciosi eccessi di un furore giovanile ormai domato, i Pere Ubu rispondono con sarcastico distacco, con scherzosi esorcismi, con rassegnato disimpegno.  E, proprio come allora, grande protagonista –oltre alla voce di un David Thomas sempre più padrone dei propri mezzi- è il synth di Allen Ravenstine, una vera e propria macchina da guerra onnipresente con la sua opera di “disturbo”, con mille invenzioni che tracciano altrettanti sfregi su una tela già astratta e visionaria, che ospita liriche surreali e grottesche ma anche amarezza e disillusione, ritmiche irruenti e implacabili, un anarchismo sonoro che scopre, anche nelle jam più sfrenate, l’inedito filo rosso di una ricerca melodica mai così attenta e riuscita. Il sipario si apre esattamente come un tempo: sibili di synth, una chitarra distorta ed i nervi tesi nella voce di David Thomas. Dieci anni prima si chiamava Non Alignment Pack, ora è Something’s Gotta Give, ma i Pere Ubu sono sempre gli stessi. In George Had A Hat  sassofono e synth si rincorrono impazziti mentre Thomas ripete nel caos lo stesso demente ritornello, il furore si placa negli effluvi jazzistici di un breve intermezzo prima che ogni cosa venga trascinata in un vortice folle e visionario. Talk To Me rispolvera le chitarre insieme ad una grande performance vocale di Thomas: quella solista insegue temi quasi Morriconiani su un tessuto reso troppo sconnesso dagli echi distorti, meno rispettosi, delle altre sei corde e dai puntelli del synth. Più rilassata, nonostante qualche apertura ad un caos controllato, è Busman’s Honeymoon, melodia folk, quasi irlandese, e la bella frase melodica della fisarmonica di Kirkpatrick. Say Goodbye riporta in primo piano le chitarre in una sorta di tribalismo garage attraversato dal solito synth, mentre in Universal Vibration Jim Jones dipana il proprio tornado chitarristico lungo percorsi sempre più tortuosi in parallelo alle piallate di mastro Ravenstine. Miss You prova a fare ordine con una bella fisarmonica ed un tono generale più gentile e meno concitato, nonostante i soliti dispetti di synth e chitarra. Gli stessi strumenti che si rincorrono, giocando a rimpiattino, lungo la successiva Dream The Moon, che registra le solite interferenze sul tentativo di normalizzazione della voce di David Thomas. Con Rhythm King i Pere Ubu provano a dare la loro definizione di reggae music, con ritmi in levare sempre cangianti puntellati da chitarra e synth. In The Hollow Earth la voce di Thomas traccia i contorni di una delle sue melodie più memorabili, anche se l’idillio è rotto ben presto da un lungo intermezzo strumentale un po’ meno “controllato”… E mentre cala il sipario scorrono le note di We Have Technology, ballata dolente e sofferta che impone al disco una chiusura amara e malinconica, ma di grandissimo spessore, con la presa di coscienza dell’inutilità del folle armamentario che ci circonda: è questo il manifesto tenero e mesto dei nuovi Pere Ubu, vittime rassegnate dello stesso tragico destino di un tempo.

In “The Tenement Year” il sound era molto carico e grezzo. Cercare di ritrovarlo in un nuovo album sarebbe stato come fare la parodia di noi stessi. Al contrario, volevamo creare qualcosa che fosse esattamente agli antipodi, un album essenziale, dagli arrangiamenti ermetici e con un’immagine lineare. La Casa Discografica voleva che tornassimo alle nostre radici…qualsiasi esse fossero, e questo ci ha notevolmente preoccupato dal momento che non ne abbiamo! A meno che non intendessero il pop. E questo ci ha reso felici. Nessuno ci aveva mai chiesto di fare un album pop.

 

Ecco nelle parole dello stesso Thomas la pietra dello scandalo, quel Cloudland (Fontana, 1989) che avrebbe fatto arricciare il naso a più di un purista dell’Ubu sound. Via i panorami di degrado, urbano o mentale che fosse, a favore di canzoni estroverse prima di tutto d’amore; via i tessuti strumentali accidentati e tortuosi a favore di un manierismo pop che vuole dire soprattutto pulizia: nei suoni, nella voce, nella melodia. E via, soprattutto, il synth di Allen Ravenstine, ridotto a ruolo di pura comparsa. Ed ora ci si aspetterebbe una stroncatura, ma il “problema” è che Cloudland rimane un prodotto d’alta classe: impensabile, forse, per i folli eccentrici del lavoro precedente (qui coadiuvati da Stephen Hague, in passato con i Pet Shop Boys…) ma tutt’altro che disprezzabile a mente sgombra da preconcetti. Breath, in apertura, nella sua formale perfezione pop saccheggia l’andatura di Every Breath You Take dei Police, mentre in Cry, addirittura, gli Ubu provano –con ottimi risultati- a fare il verso agli U2, in un brano comunque di indubbio valore. Race The Sun è un rock’n’roll tirato e melodico e Why Go It Alone un bel pastiche con un ritornello accattivante. Waiting For Mary, il singolo estratto dall’album, è la quintessenza del pop secondo i Pere Ubu, ovvero quanto di più orecchiabile i Nostri abbiano mai messo su nastro: fa una certa tenerezza, o forse sarebbe meglio dire rabbia, sentire lo sbuffo anonimo del synth ad ogni ritornello…sembra che Ravenstine, rassegnato, stia per gettare la spugna. Ice Cream Truck, molto orecchiabile, è puntellata da una chitarrina deliziosamente retro’ ed anche per la successiva Bus Called Happiness c’è quasi da stropicciarsi gli occhi: strofa, ritornello, cori…ma sono i Pere Ubu? Love Love Love, un vecchio brano di Peter Laughner, si trasforma in un danzereccio synth pop anni ’80 salvo cedere, nel finale, alla voce di un David Thomas finalmente un po’ più arrabbiato. Anche Lost Nation Road ha poca voglia di graffiare, mentre Nevada!, una sorta di rockabilly un po’ demente punteggiato da una piacevole aria da non sense, riporta il fantasma dei vecchi Ubu che non ci abbandona nella successiva Flat e nel valzer chitarristico di The Waltz. Pushin’ rigioca la carta del rock’n’roll aspro e tirato, seppur canonizzato, e Monday Night, deliziosa ballata acustica puntellata dal synth, chiude in bellezza un album per il quale, non si fosse trattato dei Pere Ubu, avremmo sprecato termini certo più entusiasti.

 

Ma la band sembra invece averci preso gusto, visto che anche l’album successivo Worlds In Collision (Fontana, 1991) gioca esattamente la stessa carta. Persi per strada Cutler e Hague, quest’ultimo rimpiazzato dall’ex Captain Beefheart Eric Drew Feldman dietro ogni tipo di tastiera, con Allen Ravenstine ridotto a semplice turnista nei credits di quattro brani, i Pere Ubu tentano di ripetersi aumentando ulteriormente la dose di zuccheri con un disco ancora più docile del precedente. Ma la classe, si sa, non è acqua e tracce come Oh Caterine, una splendida ballata acustica lirica, intensa ed emozionale, come il singolo I Hear They Smoke The Barbecue, un bel rock’n’roll tirato in perfetto stile “alternativo da FM”, come Cry Cry Cry, con armonie vocali d’altri tempi che ricordano il blues cosmico di Janis Joplin & Co., sono lì a dimostrarlo. Lo spirito perduto dei tempi andati rivive negli episodi nei quali lo scienziato pazzo Ravenstine sembra comporre il proprio epitaffio, e specialmente in Life Of Riley, Turpentine e nella conclusiva Winter In Firelands. Altrove gli Ubu sembrano razziare un po’ qua e là: qualche accordo rubato a Mission Impossible in Goodnite Irene, qualche chitarrone preso in prestito al grunge in Mirror Man, un po’ di Wall Of Woodoo (e quindi di Morricone) nella title track, qualche particella Springsteeniana in Don’t Look Back. Pochi, per fortuna, i momenti di imbarazzo, come nelle melodie fin troppo compassate di Play Back e Nobody Knows, quest’ultima con tanto di controcori e velati accenti Rap. Con Worlds In Collision i Pere Ubu, pur riuscendo a confezionare, ancora una volta, un prodotto di classe, rinunciano ad una delle prerogative che avevano contribuito ad alimentare il loro mito, quella di continuare a stupire, di non offrire certezze, di infrangere le regole. Sembrano apparire all’orizzonte nuvoloni minacciosi, carichi di pioggia, che gettano ombre sul futuro della band: nessuno riesce ad immaginare come andrà a finire, mentre il saggio Ravenstine abbandona definitivamente le scene per accettare un lavoro con una aviolinea.

 

The Fontana Years, gli anni Fontana –dal nome della major che ha accompagnato la svolta pop del gruppo- si chiudono nel 1993 con la pubblicazione di Story Of My Life, album ambiguo costituito –dice il maligno- in buona parte da scarti di registrazione delle prove precedenti. Il tono generale è quello del pop zuccheroso di Kathleen e Sleep Walk, anche se non mancano i tentativi di riportare il sound alle atmosfere più torbide delle origini, come testimoniano Wasted, Heartbreak Garage e Louisiana Train Wreck. Ma il clima è di smobilitazione, e si sente, ed un altro ciclo sta per chiudersi. Questa volta, però, l’attesa sarà decisamente più breve e, soprattutto, ben ricompensata.

da LFTS n.84

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/27

di Paolo Crazy Carnevale

24 ottobre 2013

 

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I KNOW YOU WELL MISS CLARA – Chapter One
(Moonjune Records 2013)

Nel suo girovagare per il mondo in cerca di gruppi da promuovere e pubblicare, la Moonjune Records sembra aver rivolto un occhio di riguardo al sud est asiatico, dando ampio spazio alle produzioni di formazioni indonesiane, complice anche il fatto che il governo di quel paese sembra dare più che una mano ad i suoi musicisti nel provare ad uscire dagli stretti confini dell’Indonesia.
A fine estate è stato dato alle stampe questo nuovo CD, titolare un gruppo il cui nome sembra piuttosto il titolo del disco e viceversa. Un tocco di pazzia forse.
Questo quartetto di trentenni provenienti da Jojakarta è guidato dalla chitarra di Reza Ryan (che firma la quasi totalità dei brani qui contenuti) e dalle tastiere di Adi Wijayae i suoi riferimenti musicali sono molteplici, per quanto tutti provenienti dall’ambito jazz rock, da John McLaughling al prog jazz britannico degli anni settanta, senza dimenticare certe cose di Miles Davis. Il tutto con ampie spruzzate di suono fusion che tanto ricordano le produzioni glaciali di casa ECM.
Come il titolo fa presagire, è già in cantiere un secondo disco del gruppo in cui i temi qui affrontati e sviluppati attraverso sette tracce, di cui ben tre superano i dieci minuti ed una li sfiora, si preannunciano approfonditi ulteriormente.

 

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BEPPE GAMBETTA – Live At Teatro Della Corte / The Forst Ten Years

(Gadfly 2011)

 

Un grandissimo disco di musica acustica in tutte le sue sfaccettature. Non occorrerebbero altre parole per descrivere questo eccellente live partorito dal chitarrista genovese, costruito assemblando alcune delle migliori performance tenute insieme ai suoi prodigiosi ospiti durante le serate che periodicamente organizza nel prestigioso teatro della sua “hometown”. Si tratta di un non esaustivo compendio di quanto i genovesi hanno potuto ascoltare nelle varie edizioni della rassegna dedicata alla musica acustica, d’altronde qualche anno prima di questo disco aveva già visto la luce un bel DVD tratto da alcune delle suddette serate.

Il grande pregio di Gambetta, oltre naturalmente al suo talento quando è alle prese con qualunque chitarra acustica, è quello di aver condotto una ricerca musicale d’alto livello che, partendo dal bluegrass, lo ha portato ad esplorare territori differenti, come le tradizioni musicali dell’Europa occidentale, quelle balcaniche, la musica che si produceva nella “sua” Genova ai primi del novecento, le canzoni degli emigranti, il tutto per tornare sempre all’amata musica della tradizione nordamericana.

Il live in questione è tutto questo e molto altro ancora, suonato impeccabilmente, con uno stuolo di amici/ospiti da far venire i brividi, una manciata di esecuzioni da manuale, con Gambetta sempre protagonista in primo piano ma mai in modo da oscurare i titolatissimi comprimari, siano essi cantanti come Patti Larkin e Darrell Scott (entrambi presenti nell’opening track, una bella rivisitazione del classico dylaniano Romance in Durango, qui in doppia versione, parzialmente in italiano, secondo la rilettura che ne diede Fabrizio De André), o virtuosi come Mike Marshall che spicca in una Gator Strut in cui lui e Gambetta sembrano essere una splendida replica del duo Garcia/Grisman. Dalla tradizione dell’Europa orientale arriva invece Miso Varo, chitarrista con cui il genovese propone un medley intensissimo. Ma ci sono anche gli amici italiani, in primis Martino Coppo, mandolinista dei Red Wine, ma anche Marco Fadda, Marco Pereira e Riccardo Barbera.

Menzione d’onore a Gene Parsons che aggiunge banjo e voce ad un gran medley tra East Virginia Blues e Soldier’s Joy, e ancora a Brad Davis, a Bruce Molski e all’immenso Dan Crary che è tra i protagonisti della lunga e intensa composizione di chiusura – ancora un medley – con ben cinque chitarristi in prima linea.

 

justin townes earle

JUSTIN TOWNES EARLE – Nothing’s Gonna Change The Way You Feel About Me Now

(Bloodshot 2012)

 

Non so se sia un caso che il primo verso della canzone con cui il disco comincia reciti precisamente “Hear my father on the radio singing Take Me Home Again”, ma i paralleli tra l’ormai non più implume Justin Townes e il padre sono quanto mai evidenti nell’ascolto delle produzioni del primo. Justin Townes Earle risponde ad un cognome importante nella scena musicale americana e, come se non bastasse, il padre gli ha messo addosso come middle name un nome ancor più gravoso, una sorta di carico di responsabilità non da poco che il ragazzo sembra però riuscire a sopportare abbastanza bene. Questo disco dal titolo chilometrico dura circa mezz’ora, poco per gli standard a cui il formato digitale ci ha abituati, ma senz’altro più digeribile dei quasi ottanta minuti con cui spesso ci troviamo ad avere a che fare, ottanta minuti che spesso e volentieri non sempre tutti alla stessa altezza.

Trattasi di disco sommesso, certo non allegro, Justin Townes è uno che fa una vita difficile, così come era successo al padre Steve ad un certo punto della sua carriera, ma ispirato, ben suonato da un manipolo di compagni di strada che lo arricchiscono di sonorità coinvolgenti. Il modo di cantare, lo si era scoperto fin dagli esordi del nostro, è debitore a quello dell’illustre papà, e anche lo stile compositivo deve molto a tutta la scuola cantautorale statunitense, da Dylan in giù. Quello che fa davvero la differenza in questo disco sono gli arrangiamenti, che oltre che su un gruppo di stampo classico possono contare su una solida base di organo e su una sezione fiati che aggiunge la marcia in più alle canzoni, tessendo – parimenti all’organo di Skylar Wilson, che del disco è anche produttore – sfondi su cui la voce di Earle e le chitarre di Paul Niehaus si innestano fondendosi amabilmente.

Oltre all’iniziale Am i That Lonely Tonight? e alla title track, svettano nella setlist Look The Other Way, Baby’s Got A Bad Idea, Down The Lower East Side, Unfortunately, Anna che sembra uscita dalla penna del padre, non fosse per la sezione fiati, e l’intimista Memphis In The Rain.

Se siete scettici nei confronti dei figli d’arte che seguono le orme dei genitori, questo è un buon disco con cui ricredersi.

 

Kevn_Kinney_and_The_Golden_Palominos_-_A_Good_Country_Mile

KEVN KINNEY – A Good Country Mile

 

Segni del destino: Kevn Kinney è uno di quei personaggi il cui nome mi ero appuntato in testa da anni. Per un motivo o per l’altro però non avevo mai approfondito l’argomento, ma la recensione di un suo disco, credo il primo da solo, o qualcosa con i Drivin’n’Crying, a suo tempo mi aveva colpito in particolar modo. Poi avevo messo tutto nel dimenticatoio e le recensioni dei suoi dischi in cui mi sono imbattuto in seguito non erano state così impressive da smuovermi nella ricerca dei suoi dischi. Ma doveva finire che prima o poi tornassi a fare i conti con questo rocker (ma anche singer songwriter) del Wisconsin, complice il mio amico Patrick, che la scorsa primavera in un apprezzato pacco postale degno del postino di Ronny Stancanelli, mi ha mandato, insieme ad altri CD e ad una lussuosa bottiglia di Pinot Noir dell’Oregon, questo disco, una specie di autoproduzione, inciso nel 2011 insieme ai Golden Palominos, o almeno a parte di essi. Infatti la maggior parte dei brani del disco è proprio firmata da Kinney unitamente al batterista Anton Fier, che della formazione è un po’ l’anima.

Che dire? Un bel disco, per lo più energico, di solido rock cantautorale della miglior scuola: niente di nuovo se vogliamo, nel senso che tutto quello che contiene lo abbiamo già ascoltato altrove, ma se non siamo in cerca del nuovo sound a tutti i costi, allora questo A Good Country Mile è quello che fa per noi. A dominare il disco ci sono naturalmente le chitarre, che siano acustiche o elettriche distorte, o entrambe come accade nella lunga title track o in Bird che oltrepassano i nove minuti.

Jam e canzoni, così si potrebbe riassumere il contenuto del disco, dieci brani per un’ora di durata, in cui Kinney e i Golden Palominos (al basso c’è l’ex bassista dei Black Crowes Andy Hess, uno dei chitarristi è Jim Campilongo, già coi Little Willies), si sfogano consegnandoci un bel lavoro. Tra i brani migliori, accanto alle lunghe tracce già citate, troviamo In The Land, la lenta Southwestern State, con le varie tastiere di Jon Cowherd a ricamare insieme alle chitarre, e soprattutto la bella Challenge.

Claudio Rocchi – In Alto

di Francesco Caltagirone

24 ottobre 2013

In Alto

CLAUDIO ROCCHI
In alto
Cramps Records

Bentornato fratello. La luna ti guardi benigna, e il sole, e tutte le stelle, anche quelle più lontane, come la supergigante Rigel, che continuano a illuminare le rotte dei naviganti e il nostro cammino verso l’armonia. Ascoltare questo nuovo album è per me come riportare tutto a casa e sentirmi in patria. Con la sua Fender acustica, in copertina, Rocchi è un amico ideale ritrovato, ma mai perso, per chi come me ed altri ha sognato voli magici e non ha mai rinunciato a guardare in alto e, soprattutto, è cresciuto e migliorato anche grazie alle sue liriche e al messaggio che contenevano, negli anni verdi.

Claudio non è un profeta, ma uno scrutatore di anime, dolce e semplice, un musicista maturo e intraprendente per il quale sono stretti steccati e confini, uno sperimentatore fantasioso, in sintonia con la bellezza del mondo che ancora resiste. Cavalca l’utopia con le sue poesie beat e la sua musica, folk/elettronica nel folk, una spirale che si libra come il fuoco verso le alte sfere, musica che potrebbe interessare anche i “non musicisti”, tutti i cani sciolti del mondo che vogliono difendere, pacificamente, pudore e dignità.

Fratello che parli al mio cuore con l’innocenza di colombe sapienti, che voli con la tua chitarra sopra le nuvole, la porta della mia anima rimane aperta. Un flusso astrale, una tempesta acustica avvolge in un pulviscolo baluginante. Siamo attraversati dalla luce. Gli strumenti sono trattati come emanazioni naturali, nel gusto dell’ improvvisazione, fra riflussi orientali, chitarre battute, gangli elettronici, petali e metallo. Suoni buoni e accurati, spontanei, naturali, fuori dal rigo, attinti da una fonte incontaminata e salutare. Le musiche non mi coinvolgono meno dei testi, come già un tempo.

Rock acustico in Per gli stendardi, Eccoti qui, con le chitarre che disegnano parabole lucenti nell’aria. Facci un miracolo è una preghiera, diversa, ma pur sempre una preghiera. “Dacci un mese di tregua senza colpi di mano… dacci un telegiornale senza cronaca nera, senza potenti corrotti, senza ladri perfetti, senza storie di sfratti, senza angoscia per tutti.” Poi, i riverberi elettrici di Alchimia, un brano che riaggancia alle antiche ballate che indicavano “la norma del cielo”. “C’è troppa morte”, canta Claudio in Gesù si gira, acqua sciupata, cibo gettato. Scava nel fondo delle cose, per cavarne l’umanità più pura e gettare le scorie. Lasciamoli andare sottolinea le ragioni di quelli che non votano più e il rifiuto di sopportare compromessi avvilenti. È un Volo Magico N.3, il carro infuocato di Ci sei? nello stile profondo di Rocchi, quello fatato che ci aveva innamorato tanti anni fa?

Ogni parola sciolta in questa musica fluttuante è una piccola riflessione e io sono d’accordo con lui quando confessa di credere più nelle meditazioni che nelle manifestazioni. La musica, quella autentica, è sempre meditazione e il riscatto del mondo può nascere solo da lì. Perché il cambiamento parte da dentro di noi, dalle vittorie che guadagniamo contro i demoni del possesso e dell’avidità; è lì che si consuma la lotta per non essere divorati dall’anaconda. Non è più elettronica, non è più folk, è qualcosa che prorompe da una zona più remota e non facilmente misurabile, lontana dal guscio delle convenzioni e dei travestimenti: La bellezza, dono da proteggere da ogni nemico, Come se, liriche da Vagabondi del Dharma, rientra dolcemente nell’ordine visionario dell’album. E, infine, La stella da cui vieni, piccola ode all’incanto e al sorriso, per liberarsi dal piombo che grava sulle ali. La musica immateriale di Claudio Rocchi è ancora una volta un veicolo per il cielo. La chitarra e gli altri strumenti sono vie scelte per avvicinare gli uomini. Il nostro destino è in alto, la musica è una forza che tende verso l’alto come il fuoco su cui i padroni della terra non potranno imporre gabelle e dove finalmente la prospettiva sarà più chiara.

Bentornato fratello, le tue luminose canzoni infondono coraggio e speranza a noi tutti che “andiamo verso il Bello”.

 

Francesco Caltagirone
Scritto nel dicembre 2011

Pere Ubu 1975/1982: Visioni dell’Apocalisse

di Marco Tagliabue

18 ottobre 2013

Il fatto di riuscire a vivere della nostra  musica non era quello che ci preoccupava. Noi eravamo sospinti dall’idea di avere una missione da compiere: rivoluzionare la musica. Eravamo persuasi del fatto di essere prossimi al compimento del nostro destino. Avevamo visto il rock uscire da una sorta di adolescenza per approdare ad una presunta maturità verso la fine degli anni ’60. Era divenuto più aggressivo, capace di affrontare in maniera più complessa la questione della condizione umana. Eravamo a quel punto preciso della storia ed ormai i riflettori erano puntati su di noi. Adesso toccava a noi raccogliere il testimone dai nostri fratelli maggiori e condurre il rock al suo destino glorioso: diventare una forma d’arte. La letteratura era morta, il jazz era morto, la scultura e la pittura erano morte dopo avere conosciuto il proprio apogeo. Una nuova forma d’arte era nata, inaudita e profondamente espressionista. Nonostante avessimo fiducia nelle nostre forze, eravamo altresì coscienti che nessuno se ne sarebbe accorto. Non ci facemmo alcuna illusione al nostro debutto: stavamo per cambiare  faccia alla musica, ma nessuno lo avrebbe saputo.

(David Thomas, da un’intervista al magazine francese Jade, 1997)

 

Cuyahoga. A dying river. This is where we walked. Swam. Hunted. Danced. Sang.

(R.E.M., da Lifes Rich Pageant, 1985)

 

Cleveland, Ohio, 1975.  Le acque del Cuyahoga scorrono placide nel loro letto millenario. Nulla sembra scalfire quel tranquillo moto ancestrale: non il loro aspetto, sempre più torbido ed oleoso, non il loro carico di rifiuti, di disperazione e sogni infranti. Lungo le sponde, come antichi guerrieri sopraffatti dal tempo, si stagliano i fantasmi di un passato che sembra ormai perduto: vecchie acciaierie, industrie manifatturiere, stabilimenti chimici e petroliferi della Rust Belt. Sembrano ricordare i bei tempi andati e, con la calma dei forti, attendono di rifiorire con la prossima età dell’oro. Ma difficilmente ce ne sarà un’altra. Il boom economico degli anni sessanta ha lasciato, soltanto qualche anno dopo, una città sull’orlo del baratro. Una civiltà urbana ricca ed industrializzata ha dovuto improvvisamente fare i conti con i giri di boa della Storia. Paura, disperazione, nevrosi, alienazione, soffocamento: sono i nuovi mali metropolitani e colpiscono soprattutto i più deboli e sensibili, i giovani. Chi non accetta lo status quo prova a scappare, a cercare una via di fuga reale o quella, più ingannevole e spesso letale, di qualche paradiso artificiale.  Ma c’è un rifugio più sicuro, la musica. Gli echi della rivoluzione in atto a New York giungono anche da queste parti con il loro alone di leggenda ma, accanto  a chi è pronto a sfogare il proprio furore nichilista, senza cercare risposte, nel punk più violento e autodistruttivo, c’è una gioventù che cerca di andare più a fondo, di penetrare il nulla che sembra avvolgere la vita reale dando sfogo alla stessa rabbia in maniera più costruttiva.

Vicino all’estuario del Cuyahoga, dalle parti di Old River Road, c’è un vecchio magazzino che apparteneva un tempo a John D. Rockfeller e che, secondo la leggenda, è stato la culla della sua immensa fortuna. Il nuovo proprietario, Jim Dowd, lo ha trasformato in un locale dall’aspetto un po’ tetro ribattezzandolo The Pirate’s Cove, il Covo dei Pirati.  Se vi capita di passare da quelle parti il giovedì sera, non meravigliatevi  se, accanto ai rumori della natura, mischiati al soffio della brezza serale, allo sciabordio dell’acqua contro le pareti delle imbarcazioni, ai lampi improvvisi che illuminano la facciata della vicina compagnia aeronautica Shot Penning, udirete dei suoni misteriosi che sembrano incendiare quelle visioni notturne. Provate a mettere il naso nel  Pirate’s Cove. Sul piccolo palco improvvisato al centro del locale la Storia del Rock sta descrivendo un nuovo ed appassionante capitolo.

Quando Jim Dowd  assoldò i Pere Ubu per il primo concerto non poteva certo immaginare quale mina sarebbe andato ad innescare, ma del resto non avrebbe avuto nulla da perdere: erano gli unici candidati! Quella sera la giovane band riunì una cinquantina di persone e tanto bastò per guadagnarsi il lasciapassare per il giovedì successivo. Ormai da quasi un anno sono l’attrattiva del Cove ed hanno diviso il palco con un sacco di band locali e di passaggio. Sono davvero giorni speciali, nell’aria si coglie tutto il peso di questa nuova onda che sembra voler travolgere ogni cosa: è emozionante vivere la Storia in diretta e sentirsene protagonisti.

David Thomas, il corpulento cantante, e Peter Laughner, allucinato chitarrista, sono due vecchie glorie della scena cittadina. Entrambi hanno militato nei Rocket From The Tombs, mitica band  locale dedita ad un garage-rock grezzo e rumoroso, ebbro di miasmi psichedelici e furore proto- punk, che ha chiuso i battenti prima di consegnare al mondo una sia pur sparuta testimonianza del proprio passaggio. E’  per rimediare a questa drammatica nefandezza che i due hanno deciso di dar vita ai Pere Ubu.

 David sembra essere la personificazione perfetta del protagonista della pièce teatrale Ubu Roi del drammaturgo francese Alfred Jarry (1873-1907) cui la band ha dedicato la propria epigrafe:  concentrato di nevrosi e  insofferenza per l’ordine costituito, anima grottesca e surreale, prodigioso interprete della malattia e delle paure del suo tempo; dopo trascorsi gloriosi come critico rock per il giornale locale (arriverà perfino a camuffarsi sotto pseudonimi diversi per non far trapelare che, in pratica, scrive tutto lui) si scoprirà cantante a mezza strada fra Tim Buckley e Captain Beefheart e, soprattutto, farà scoprire al mondo una delle voci più originali di sempre dell’universo rock.  Intellettuale e poeta lisergico, amante del verbo psichedelico e fedele adepto al culto dell’espansione mentale e della liberazione della coscienza, Peter è, di fatto, figlio di un’epoca diversa trapiantato, chissà come, nella depressione nichilista di quei giorni. Troverà un rifugio nella musica ma, allo stesso tempo,  una trappola mortale nei paradisi artificiali in cui sarà, sempre più spesso,  costretto a traghettare le proprie illusioni. 

Tim Wright, invece, era stato tecnico del suono per i Rocket From The Tombs. Quando gli è stato chiesto di imparare a suonare il basso non ha perso nemmeno un istante: si è comprato un vecchio Dan Electro a sei corde e in quattro e quattr’otto si è messo a disposizione. E’ stato ancora più facile sistemare qualcuno sulla seggiola della batteria: Scott Krauss, già meteora in diversi gruppi locali ed al momento disoccupato, proprio non aspettava altro.  Tim e Scott vivono al Plaza, un vecchio residence alle porte della città.  Da un appartamento non distante dalle loro camere giungono spesso rumori assordanti ed insopportabili. Del loro artefice essi conoscono solo il nome, Allen Ravenstime, e sanno che è un tipo strano che passa tutto il giorno, e ahimè anche qualche notte, a manipolare strane diavolerie elettroniche. Non potendolo eliminare decidono che è meglio farselo amico.  Sempre al Plaza vive un certo Tom Herman, operaio metalmeccanico di giorno e chitarrista fallito di notte in giro per i locali della città: è proprio lui l’anello mancante per il varo della crociera inaugurale.

Per raggiungere l’obiettivo che si sono prefissi, quello di cambiare il volto della musica rock, i Pere Ubu hanno perfino elaborato una metodologia in sette punti ben definiti:

  • Non fare mai prove 
  • Non cercare nessuno
  • Non inseguire il successo
  • Scegliere la prima persona con cui si viene in contatto
  • Prendere sempre per buona la prima idea
  • Riunire persone uniche. Le persone uniche suoneranno musica unica, magari senza nemmeno esserne capaci
  • Ritardare il più possibile i Fattori di Distruzione Centrifuga, poi schiacciare il bottone.

Ora sono davvero pronti per conquistare il mondo, ma il mondo si accorgerà di loro?

 

Mi alzo in volo presto nella nebbia del primo mattino/in un drago di metallo imprigionato nel tempo/Accarezzo  le onde di un mare sotterraneo/nella strana fantasia di un mondo da sogno. Il sole descrive un cerchio di fuoco come una volta nel cielo/il 25 è un’ombra velocissima sul verde mare lucente/Oltre la macchia pallida di una terra aliena/abbiamo solo tempo di rifugiarci nelle mani di qualche strano dio. I ragni neri della contraerea esplodono nel cielo/raggiunti su ogni lato da strani artigli contorti/Non c’è tempo per scappare, non c’è modo di nascondersi/Non si può fermare questa corsa suicida. Le strade di una città giocattolo si moltiplicano sotto i miei occhi/germogliano come grappoli di funghi in un mondo surreale/Questo incubo sembra proprio non finire/e il tempo scorre lento come se non fosse mai cominciato. 30 secondi in una corsa a senso unico/30 secondi e nessuna possibilità di nascondersi/30 secondi per Tokyo.

(30 Seconds Over Tokyo, 1975)

Un riff di chitarra asciutto e circolare di barrettiana memoria, una linea di basso che incalza su un frusciante tappeto sintetico, la voce di Thomas che narra dal profondo. Una tensione che sale attimo dopo attimo e che trova solo una piccola valvola di sfogo nelle aperture strumentali che spezzano il brano, piccole esplosioni di psichedelia free form con  gli strumenti in caduta libera. Ma il solito riff ipnotico reintroduce nel vortice ed una nuova strofa  getta altra benzina sul fuoco. Disperazione, angoscia e claustrofobia aumentano la loro pressione, diventano quasi palpabili; la tensione emotiva giunge a livelli insostenibili fino alla liberazione finale, con la voce allucinata di Thomas che ripete all’infinito il suo tragico refrain  mentre gli strumenti esplodono ed il synth di Ravenstime sfregia la tela a colpi di lametta. Nessuno è mai andato oltre, nessuno è riuscito a rappresentare il senso apocalittico della fine e della sua ineluttabilità, a dargli un impatto visivo oltre che strumentale, come i Pere Ubu attraverso la tragica epopea del pilota che conduce se stesso ed il proprio carico di morte verso il centro del mirino. 30 Seconds Over Tokyo/Heart Of Darkness, primo singolo autoprodotto per la minuscola Hearthan Records  vede la luce nel settembre del 1975 e per passare alla Storia, proprio quella con la esse maiuscola, davvero non sarebbe servito altro.  Più lineare, ma non meno interessante, il retro: una danza macabra con percussioni tribali, base ritmica incalzante, chitarra sferragliante in secondo piano,  progressione emozionale ed esplosione finale. 

Dopo la pubblicazione del disco Ravenstime esce dalla porta senza un motivo particolare per rientrare dalla finestra nel giro di qualche mese. Viene rimpiazzato, nel frangente, da tal Dave Taylor,  commesso in un negozio di dischi che ha il non indifferente pregio di essere l’unico a possedere, al pari del dimissionario, un sintetizzatore analogico EML, un modello ormai introvabile in quanto la società costruttrice ha da tempo orientato la sua produzione verso il mercato più remunerativo dei satelliti militari.

Alla fine del 1975 i Pere Ubu debuttano dal vivo al concerto di Capodanno  del Viking Saloon di Cleveland con uno show zeppo di cover di Velvet, Stooges e misconosciuti gruppi garage. E’ un piccolo successo.

Sembra che io sia la vittima di una selezione naturale/o forse sono solamente scivolato nella direzione sbagliata. Non ho bisogno di una cura/ho bisogno della risoluzione finale.

(da Final Solution, 1976)

Il secondo singolo Final Solution/Cloud 149 esce nel marzo del 1976 per la medesima label che nel frattempo ha mutato il proprio nome in Hearpen. Final Solution, debitrice alla lontana della Summertime Blues dei Blue Cheer, è un garage rock dalla struttura più classica, con le consuete venature sintetiche ed una chitarra vera protagonista: sono la voce isterica di Thomas ed un lancinante assolo di Laughner nel finale, che cercano di bucare il vuoto di una generazione che giudica ormai irreversibile la propria malattia. Anche in Cloud 149 la chitarra tagliente e allucinata di Laughner recita da protagonista, in una progressione ritmica incalzante dalle tinte quasi funky. Alla luce dei fatti successivi si tratterà anche di un tragico testamento: Peter Laughner, sempre più affossato nella propria opera di auto distruzione, arriverà ad essere una palla al piede costringendo i soci a dimetterlo nel giro di pochi mesi. Morirà di overdose l’anno successivo. Entro la fine dell’estate se ne andrà, per controversie organizzative sulla struttura da dare al gruppo, anche il bassista Tim Wright, prontamente sostituito da un  altro inquilino del Plaza, Tony Maimone. E’ anche il momento della prima trasferta nella Grande Mela, con alcune date nella culla del Max’s Kansas City, luogo di culto del rock newyorkese.

Prima del debutto sulla lunga distanza faranno in tempo ad essere pubblicati altri due singoli per Hearpen Records, Street Waves/My Dark Ages (11/1976) e The Modern Dance/Heaven (8/1977).  Se le facciate A troveranno posto sull’album d’esordio, curiosa è l’antitesi fra gli altri due pezzi. My Dark Ages prosegue nello stile della band: un brano cupo ed opprimente che inizia lentamente per esplodere nel refrain, una voce filtrata più ubriaca del solito, che tenta svogliatamente di abbozzare qualche melodia, una chitarra che diventa acidissima quando riesce a  ritagliarsi un po’ di spazio. Heaven, invece, è forse il brano più solare mai inciso dai Pere Ubu: un reggae irresistibile, scandito dalle chitarre e dai rigurgiti del synth,  con una linea di basso quasi dub ed un uso delle voci nel ritornello che ricorda a posteriori i Talking Heads.

E’ proprio Street Waves che finisce nelle mani di Cliff Burnstein, boss illuminato della Mercury con l’hobby della ricerca di sangue nuovo fra gli scaffali impolverati dei negozietti alternativi. Contatterà immediatamente David Thomas, bruciando sullo scatto la concorrenza della rinomata Chrysalis, ed appositamente per i Pere Ubu  arriverà a creare la sussidiaria Blank Records, al cui numero 001 di catalogo verrà finalmente pubblicato nel febbraio 1978 uno dei capisaldi dell’arte non solo rock del novecento.

The Modern Dance rimane ancora oggi, ad oltre venticinque anni dalla sua pubblicazione, l’affresco più lucido e spietato sulla decadenza della società industriale, la rappresentazione implacabile dei suoi effetti più nefasti: i sensi di alienazione, frustrazione, disagio, sconfitta che sembrano attanagliare in special modo le giovani generazioni, prigioniere di un destino che appare loro drammaticamente irreversibile. La danza moderna è quella dei superstiti di un drammatico day after sulle rovine della nostra civiltà: il bombardiere che lottava contro la sua coscienza in 30 Seconds Over Tokyo non è riuscito ad impadronirsi del proprio tragico destino ed ha vomitato il suo macabro fardello sopra la X tracciata sulla cartina. In un panorama di morte e desolazione, fra le macerie morali e materiali di una società il cui epilogo, comunque incontrovertibile, è stato soltanto accelerato dal precipitare degli eventi, si aggirano, come fantasmi, le anime dei sopravvissuti. Sembrano cullate dal vento, insieme alla polvere ed ai miasmi che si porta dietro la fine,  ed il loro incedere ha qualche cosa di ritmico, di armonico: pare seguire un pentagramma che qualcuno ha tracciato nel cielo proprio accanto alle colonne di fumo. Una danza che è insieme rimpianto, speranza, liberazione, rinascita.

Musicalmente l’album prende le mosse dalla tradizione garage dei sixties, proprio da quelle officine nelle quali si era cominciato a plasmare il più puro spirito punk, per passare attraverso le radiazioni di quasi due decenni  di modernizzazione del rock, arrivando, come tutte le grandi opere, a sopravanzare il suo tempo per stendere un ponte direttamente con il futuro. Ecco allora l’elettronica innanzitutto, ovvero il compendio della tecnologia applicata alla musica, con le tessiture folli del synth di Allen Ravenstime, vero protagonista dell’opera; la psichedelia, soprattutto nella sua forma più libera, quella che discende direttamente da Red Crayola, Deviants, Twink e dalle loro disordinate alchimie; l’avanguardia, figlia del blues del Capitano Cuore di Bue come dei maestri più colti della musica concreta  del novecento; il rumorismo, sinfonia sinistra di una società in disfacimento, ma anche scampoli di free jazz, funky, punk, tribalismo.  E la voce di David Thomas, sguaiata, sgraziata, atonale: l’urlo isterico di una vittima predestinata decisa fina all’ultimo a dire la sua.

E’ proprio il sibilo del synth ad aprire l’album, in Non Alignment Pack, per introdurre un riff di chitarra vicino alla tradizione rock and roll e sporcarlo ripetutamente con le sue folli frequenze. Sono il nuovo ed il vecchio che si incontrano e dimostrano che possono andare tranquillamente a braccetto. The Modern Dance è una cantilena alienante a ritmo di catena di montaggio, sporcata dai rumori delle macchine, dal vociare della folla, da disturbi indistinti e scandita dai rigurgiti del synth.  Laughing si sviluppa fra tessiture free jazz ed introduce Street Waves, potenti linee di basso e riff garage di una chitarra secca ed abrasiva, che si libera in un bell’assolo prolungato mentre il synth tiene il tempo con le sue folate putride e perverse.  Chinese Radiation inizia lenta, intimista, con un bel fraseggio di chitarra ed una voce gentile e rassicurante, poi degenera in un caos primordiale che restituisce, nel finale, l’innocenza perduta.  Tocca a Life Stinks, ultimo dono della penna di Laughner, ricordare che fuori si respira ancora il punk, anche se un punk diverso da questo, allucinato, esasperato, misto ad aperture free jazz. Real World è un blues screziato dai mugugni del synth che va verso un finale in completa libertà per trovare pace nell’intimismo di Over My Head, danza lenta ed avvolgente, scandita da un lento arpeggio di chitarra e dai contrappunti del synth. Sentimental Journey è una disperata cacofonia per voce, fiati, synth, chitarra e stoviglie che vanno in frantumi, una preghiera inascoltata che sfocia nel caos annunciato dell’ennesimo esaurimento nervoso per trovare, in Humor Me, una chiusura leggera, dalla sensibilità quasi pop malgrado i soliti elementi di disturbo: almeno fino a che tengono gli schemi, prima che tutto volga nel caotico finale.

The Modern Dance vende (solo?) quindicimila copie, ma vale comunque ai nostri un tour in Europa e Stati Uniti che coincide con la pubblicazione di Datapanik In The Year Zero, prima parziale raccolta dei preziosissimi singoli del gruppo. L’influenza di questa opera prima sugli sviluppi della musica rock sarà comunque determinante: intere generazioni si forgeranno sulle sue nevrosi.

Nel novembre del 1978, ad appena nove mesi di distanza dal predecessore, viene pubblicato su etichetta Chrysalis Dub Housing,  seconda prova sulla lunga distanza dei Pere Ubu. Il suono perde quasi completamente quella giocosa componente schizofrenica che aveva caratterizzato il debutto per farsi, se possibile, ancora più cupo: una discesa del maelstrom della disperazione, risucchiati nel vortice della follia in un viaggio senza ritorno verso gli abissi psichici dell’auto distruzione. E’ l’iniziale Navvy l’anello di congiunzione con The Modern Dance, uno sfrenato brano chitarristico sfregiato dalle pernacchie del synth e dalla voce ubriaca di Thomas, ma poi, come suol dirsi, la musica cambia. On The Surface, retta da un irresistibile giro del synth mostra, insieme a qualche elemento di disturbo, una sensibilità aliena quasi pop; Dub Housing è un blues spettrale lento ed avvolgente con splendidi contrappunti di sax e chitarra, mentre la succesiva Caligari’s Mirror, lenta, chitarristica, pennellata dal synth, alterna stati di trance a momenti più strutturati di strofa e ritornello. Con Thriller l’angoscia tocca un punto di non ritorno: una cacofonia post industriale condita con voci e passi sempre più vicini, rumori, percussioni, inserimenti strumentali completamente liberi ed allucinati in uno stato di anarchia crescente che culmina nel finale deturpato dal synth.  I Will Wait  e Drinking Wine Spodyody, sfrenate e sguaiate, introducono alla celebrazione per eccellenza del maestro di cerimonia di Ubu Dance Party, una danza surreale condotta sul libero fluire di tutti gli strumenti, con contrappunti corali quasi melodici alla voce impazzita di Thomas e le consuete intermittenze fuori frequenza del synth. Il finale è affidato a Blow Daddy-O, strumentale di impatto lisergico con vociare indistinto in sottofondo, e all’intimismo disperato di Codex, lenta, rarefatta, con armonie chitarristiche quasi Morriconiane, ultimo timido anelito di vita nel deserto pietrificato dell’anima.

Si parte subito per un tour in Inghilterra e nell’Europa continentale con supporter del calibro di Human League, Soft Boys, Nico e Red Crayola: un incontro, quest’ultimo, che si rivelerà di estrema importanza per gli sviluppi futuri della band. Nelle date di Londra l’ignaro pubblico del Magical Mistery Ubu Tour viene caricato su un pullman e trasportato, a sua insaputa, nelle cave di  Chislehurts,  dove il gruppo si esibisce in un suggestivo scenario naturale di grotte e pareti di gesso.

Il 1979 si apre con una curiosa performance alla 1st International Garage Exhibition in occasione della quale, giusto per gettare un po’ di fumo negli occhi della critica, sempre alla ricerca di un’etichetta e di un’agevole catalogazione, i Pere Ubu coniano per celia l’insignificante definizione di Avant-Garage (e la critica, senza rendersene  conto, sentitamente ringrazia…).

Ma, bravate a parte, il periodo non è dei migliori. Le tensioni all’interno del gruppo sono lì lì per esplodere, nessuno sembra avere più voglia di lottare o di fare il più piccolo sforzo nella direzione dei compagni: il titolo provvisorio dell’album in lavorazione, Goodbye, non nasconde il suo probabile destino di epitaffio. Come sempre in questi casi, c’è anche la classica goccia che fa traboccare il vaso e, nella fattispecie, è un concerto a San Diego davanti alla bellezza di cinque spettatori. Per la chitarra di Tom Herman è davvero troppo ed il suo abbandono rischia di sfaldare definitivamente la band.

Nel frattempo, comunque, e per fortuna con un titolo diverso da quello previsto, esce, primo tassello del trittico per Rough Trade, New Picnic Time,  terzo album ufficiale nella discografia dei Pere Ubu.  Dopo il periodo garage e quello industriale, il lavoro segna l’avanzata nei territori della psichedelia free form, complice anche il sempre più consolidato rapporto di amicizia con il chitarrista dei Red Crayola Mayo Thompson, che ancora prima di rilevare ufficialmente il neo dimissionario, potrà vantare un ruolo di presenza attiva nell’orbita del gruppo. Le parole d’ordine sono destrutturazione, disarticolazione, astrazione, destabilizzazione, sperimentazione: in un solo termine, anarchia. New Picnic Time è il Trout Mask Replica della new wave  e David Thomas  è il nuovo capitano Cuore di Bue. La sua voce raggiunge agevolmente le vette più impervie ed i suoi grandi modelli, Beefheart e Buckley, sono proprio ad un tiro di schioppo; i suoi testi, complice anche la recente conversione al culto di Geova, appaiono sempre più surreali e  visionari. Largo all’avanguardia quindi: accanto ai brani più classici (Have Shoes Will Walk, Small Was fast, One Less Worry, Make Hay, Jehova’s Kingdom Come), quelli che si dipanano da una potentissima sezione ritmica e da una  comunque solida matrice funky/blues deturpata dalla voce sempre più ubriaca di Thomas e dagli irriguardosi sfregi elettronici  del poliedrico Ravenstime, ecco le prolungate masturbazioni per synth e chitarra di 49 Guitars And One Girl, i cinguettii sintetici e le dissonanze di A Small Dark Cloud, la nenia impazzita di All Dogs Are Barking, il  blues catartico di Goodbye, le violenze inflitte al synth in The  Voice Of The Sand: chiamatela, se volete, musica da camera dell’era post industriale…

Con l’ingresso ufficiale di Mayo Thompson nella formazione, l’anno successivo tocca a The Art Of Walking, l’album che spaccherà in due la critica, da una parte chi lo considera un capolavoro e dall’altra coloro che ritengono sia solo un esperimento mal riuscito, e che, comunque, rimarrà il best seller nella discografia dei Pere Ubu classici. Il lavoro prosegue sulla  scia psichedelica del predecessore, ma ne lima decisamente le asperità: brani dalla struttura più solida e con schemi ben definiti; più controllo, più pulizia anche negli episodi, e non sono pochi, in cui è più evidente la componente sperimentale; più ragione e meno schizofrenia. Non mancano i brani più tradizionali, quelli che si sviluppano da una matrice funky sovente plagiata da un synth sempre più primadonna (l’iniziale Go, Misery Goats, Rounder), ma più riconoscibile è la chiara radice psichedelica di episodi quali Birdies e la straordinaria Horses. Accanto a  strumentali  più canonici quali l’orientaleggiante Arabia ed a veri e propri incubi a due voci (Loop), si fanno strada i capitoli più sperimentali, segnati comunque da una costruzione molto più concettuale riguardo alle astrazioni passate. Stiamo parlando di Rhapsody In Pink, liquida, dilatata, con un recitativo di Thomas sopra incompiuti fraseggi di chitarra, timide pulsazioni del synth e solitarie note di un piano sgraziato; di Miles, cacofonia  per voce, percussioni, organo, synth e tappeto ritmico elettronico ad intermittenza; di Lost In Art, lugubre strumentale per vocalizzi in libertà, colpi secchi alla grancassa ed efferatezze tastieristiche; di Crush This Horn, che chiude l’album con i disturbi di un synth in libertà, onde radio disturbate alla ricerca di una frequenza che, in lontananza, sembra rivelare a tratti una timida melodia.

Stranamente le esibizioni live del periodo, fra le quali alcune date con i Gang Of Four, procedono su binari del tutto opposti rispetto alle sperimentazioni dell’album, mostrando agli increduli fans un lato inedito quasi pop e goliardico. Un binomio, quello fra Arte e Pop, che non andrà a genio a tutti: anche nel gruppo, già teso per il riaffiorare di quei problemi che avevano portato non molto tempo prima ad un passo dallo scioglimento, cominciano a saltare un po’ di nervi. Il primo a farne le spese è il batterista originale Scott Krauss, che se ne andrà sbattendo la porta, sostituito dall’ex Feelies Anton Fier.

Preceduto da un singolo inedito, Not Happy/Lonesome Cowboy Dave, e dal bootleg ufficiale dal vivo 390° Of Simulated Stereo, esce nel 1982 l’ultimo atto Song Of The Bailing Man. Non un capolavoro, ma nemmeno un brutto disco per un gruppo ormai allo sbando, l’album si presenta come il lavoro più accessibile nella discografia dei Pere Ubu, quello più strutturato e marcato dalle influenze jazz del nuovo arrivato, che non fatica ad imporre il proprio punto di vista nel bailamme generale. Ne faranno le spese le individualità artistiche degli altri quattro Ubu, meno spiccate che in passato, quasi completamente risucchiate nell’amalgama generale e, soprattutto, i marchingegni elettronici dello scienziato pazzo Ravenstime, fino ad allora protagonisti assoluti delle sonorità della band. Le strutture dei brani, le linee ritmiche e strumentali sono quasi sempre vicine al jazz (The Long Walk Home, Pietrified, West Side Story), c’è posto per ritornelli accattivanti (Use Of A Dog), per qualche filastrocca allucinata (Big Ed’s Used Farms, The Vulgar Boatman Bird, My Hat). Qualche fragile ponte con il passato è ravvisabile nelle sperimentazioni di Stormy Weather, nelle divagazioni percussive e nelle aperture strumentali di A Day Such As This, nei fraseggi disarticolati di Thoughts That Go By Steam,  nella conclusiva Horns Are A Dilemma, percorsa da splendidi fraseggi di tromba.

Ma il passato non torna più e, alla luce di un’ultima disastrosa tournee negli Stati Uniti, anche il presente si tinge inesorabilmente dei colori sbiaditi dei ricordi. Nel bel mezzo del 1982, anche se nessuno si cerca,  nessuno si parla e nessuno prende decisioni,  tutti nel gruppo hanno capito che i Pere Ubu non esistono più.

Per noi solo il tempo di una doverosa citazione: è per l’essenziale Terminal Tower, splendida raccolta dei singoli pubblicata nel 1985 da Rough  Trade e recentemente ristampata, insieme agli altri album del periodo storico, dalla nostrana Get Back. E’ la rampa di lancio ideale per la vostra missione interstellare verso il pianeta Ubu.

da LFTS n.64