Archivio di giugno 2014

TOHPATI – Tribal Dance

di Paolo Crazy Carnevale

29 giugno 2014

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TOHPATI – Tribal Dance (Moonjune 2014)

 

Credo che questo sia il sesto disco che vede coinvolto il chitarrista Tohpati a capitarmi tra le mani, tra quelli realizzati a proprio nome, ma sempre con accompagnatori diversi, e quelli del gruppo Simak Dialog. E mi sembra senza dubbio il più convincente ed interessante. È uno dei pregi della varie produzioni pubblicate dalla piccola etichetta di New York per cui incide, un pregio non da poco, infatti pur pubblicando dischi che sono anni luce distanti dal mondo musicale a cui sono più legato, la Moonjune Records riesce a stupirmi ogni volta con proposte diverse, sempre improntate su una matrice progressive-jazz-rock con notevoli implicazioni etniche in parecchi casi. Thopati è un chitarrista indonesiano – non è l’unico nel catalogo della label – e difatti il disco in Indonesia è pubblicato dalla Demajors mentre la Moonjune ne è responsabile per il resto del mondo, la sua musica è totalmente strumentale e naturalmente la sua chitarra è il veicolo trainante, ma con intelligenza: rispetto al precedente disco in trio, stavolta il trio include un paio di grossi calibri come Jimmy Haslip al basso e Chad Wackerman alla batteria. Il primo oltre ad essere uno dei fondatori degli Yellowjackets ha lavorato con Bruce Hornsby, Chacka Kahn, Al Jarreau, il secondo è stato batterista di Zappa fino alla fine della carriera del geniale Frank e suona con Allan Holdsworth. Altra novità, rispetto ai precedenti dischi di Tohpati, è il fatto che stavolta il CD sia stato registrato in America, per la precisione a Los Angeles. Gli otto brani che lo compongono sono solidissimi, la sezione ritmica infonde un groove speciale e la chitarra si muove con scioltezza, sia che i brani virino al rock, sia che siano più di marca fusion. Non tragga in inganno il titolo del disco, qui di tribale ci sono solo certi inserti posti qua e là in apertura dei brani, la musica di Tohpati brilla per fluidità, come dimostrano l’iniziale Rahwana, Spirit Of Java – dedicata probabilmente ai patri lidi – o la brevissima e sognante Savana. E ancora l’adrenalinica Supernatural o la più docile Run.

Naturalmente i brani sono tutti firmati dal titolare.

ED LAURIE & STRAW DOGS – Trip To The Wire

di Paolo Crazy Carnevale

26 giugno 2014

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ED LAURIE & STRAW DOGS – Trip The Wire (Sony 2013) 

Il cantautore britannico Ed Laurie, dopo gli esordi con Small Boat Big Sea e l’eccellente Cathedral, torna alla ribalta con un nuovo disco in cui è accompagnato dagli stessi musicisti bolzanini che avevano contribuito alla buona riuscita dei precedenti lavori: l’affiatamento tra Laurie e i suoi compagni d’avventura è maturato talmente che ormai Andrea Polato, Matteo Cuzzolin, Marco Stagni e Stefano Nicli (aggiuntosi dopo la registrazione del disco) si sono guadagnati i credits come co-titolari comparendo in copertina al fianco di Laurie come Straw Dogs. E questo Trip The Wire, uscito in un primo tempo solo in versione download ed ora disponibile anche in CD, è realmente un disco di gruppo, un bel disco rock moderno, pieno di idee, caratterizzato dal cantato di Laurie e dagli strumenti dei suoi accompagnatori: la batteria di Polato è ormai una presenza irrinunciabile per Laurie, ma il sax vibrante di Cuzzolin e il basso di Stagni non sono da meno e, visti recentemente dal vivo con la chitarra solista di Nicli, questi Straw Dogs sono parsi davvero convincenti.

Undici i brani inclusi nel disco, che vanno dalle atmosfere più rilassate di Wild Floewers e Where The End Begins alle più nervose Something Left To Reach e Forever’s Untrue, che apre il CD. La carta vincente del disco è la sua unitarietà, la compattezza, cosa che aveva caratterizzato anche Cathedral, per quanto le direzioni sonore dei due dischi siano decisamente differenti.

Al tutto si aggiunga poi che il penultimo brano del disco, Urban Sand, è stato messo su youtube con un bel video professionale in cui, casualmente fa la sua comparsa un tale Glen Matlock. Vi dice niente questo nome?

TINSLEY ELLIS – Midnight Blue

di Paolo Baiotti

22 giugno 2014

Tinsley Ellis Midnight Blue Front Cover Square

 

TINSLEY ELLIS

MIDNIGHT BLUE

2014 Heartfixer Music   

 

Nato il 4 giugno del ’57 ad Atlanta e cresciuto nel sud della Florida, Tinsley è da anni uno dei musicisti di rock blues sudisti più apprezzati e considerati. Ispirato in gioventù da Cream, Yardbirds e Animals, è stato poi conquistato dai grandi del blues nero a partire da B.B.King. Nell’81 forma gli Heartfixers che incidono tre dischi per la Landslide, prima di firmare come solista per la Alligator.

Georgia Blue esce nell’88 seguito da Fanning The Flames e da altri tre albums, prima del passaggio alla Capricorn e alla Telarc. Dopo un ritorno alla Alligator pubblica lo strumentale Get It! per la sua label personale, seguito da questo Midnight Blue. Ellis è uno che non tradisce: i suoi dischi hanno una consistenza e una solidità notevole, mantenendo un equibrio tra rock e blues con forti venature sudiste. Non a caso ha diviso il palco con Warren Haynes, Allman Brothers, Gov’t Mule, Widespread Panic, Otis Rush, Buddy Guy e Stevie Ray Vaughan ed è molto stimato dai colleghi con i quali ha spesso collaborato.

E anche Midnight Blue prosegue nella stessa direzione, confermando i soliti pregi (solidità, grandi qualità di chitarrista, voce potente e grintosa) e difetti (una certa ripetitività, inevitabile in questo genere). Gli arpeggi acustici di If The River Keeps Rising fanno pensare ad un inizio morbido, ma lo sviluppo del brano ci riporta al classico blues duro di Ellis, con una slide aspra e penetrante. Mouth Turn Dry segue le medesime coordinate, con una chitarra che ricorda il suono di Stevie Ray Vaughan ed una voce bella piena e solo superficialmente sporca. Tinsley non è un grezzo e lo dimostra con la melodica Surrender nella quale spiccano le tastiere dell’esperto Kevin McKendree, già con Delbert McClinton e da anni collaboratore di Ellis, che ha registrato l’album nel suo studio a Franklin, Tennessee. Se è vero che le undici tracce sono autografe, in alcuni casi richiamano in modo evidente brani altrui: It’s Not Funny è un brano trascinante che profuma di New Orleans riprendendo la ritmica di Iko Iko con il basso di Ted Pecchio e la batteria di Lynn Williams in primo piano e una slide profumata di sud, That’s My Story ha una chitarra che potrebbe confondersi con quella di Billy Gibbons e un riff troppo somigliante a Sharp Dressed Man degli ZZ Top, così come il conclusivo slow Kiss Of Death è un rifacimento della gloriosa Blue Jean Blues (sempre ZZ Top), ma è comunque un brano splendido con un assolo esemplare. D’altra parte See No Harm è un blues lento interpretato con adeguata sofferenza, illuminato da un piano gospel e da una chitarra espressiva e Harder To Find ha un andamento drammatico punteggiato dall’organo e illuminato da una chitarra lancinante. Tinsley Ellis in alcuni casi è derivativo, ma è un ottimo interprete sia alla voce che alla chitarra e i suoi dischi, pur non innovando, meritano sempre di essere ascoltati.

COPERNICUS – Immediate Eternity

di Paolo Crazy Carnevale

21 giugno 2014

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COPERNICUS – L’Etérnité Immediate (Nevermore Inc. 2013)

COPERNICUS – Immediate Eternity (Nevermore Inc. 2014)

 

Due dischi nel giro pochi mesi, in realtà lo stesso disco in due lingue diverse, per il poeta rock newyorchese Copernicus, al secolo Joseph Smalkowski. Una ristampa di un suo lavoro già uscito – ma poco distribuito – una decina di anni fa in differenti versioni e lingue. Non è un caso che Copernicus lo reputi il suo disco migliore, il fatto che ne abbia realizzato versioni in inglese, francese, spagnolo e tedesco la dice lunga.

E non si può dargli torto, se pure le altre produzioni, sia le ristampe di vecchi lavori che i nuovi lavori usciti dopo che la Nevermore Inc. ha dato i propri dischi in distribuzione alla Moonjune, erano più che apprezzabili e tutte caratterizzate da quel sound da New York notturna in cui le chitarre di Larry Kirwan (dei Black 47) spaziavano e dominavano facendo da solido compendio alla voce allucinata di Copernicus, questa “eternità immediata” ha un suono tutto suo, completamente differente, più organico se vogliamo, sia che lo ascoltiamo in francese, sia che lo ascoltiamo in inglese (ma vi consiglio quest’ultima versione), cosa dovuta anche al fatto che gli accompagnatori siano solo quattro e non siano del giro abituale del titolare.

Anzi, non sono nemmeno di New York, sono ecuadoregni, e proprio in Ecuador è stato registrato il disco. Certo, le atmosfere sono comunque notturne, e la chitarra lancinante di Cèsar Aragundi non ha nulla da invidiare a quella di Kirwan. La novità è che le musiche sembrano meno casuali, come se alla base di tutto ci fosse una ricerca ben definita, cosa che non può che far bene al disco. Se i dischi precedenti e successivi questa produzione del 2003 avevano più il sapore della performance, qui siamo da tutt’altra parte: chitarra, basso, batteria, tastiere e in un brano il sax sembrano saper bene dove andare, come se stavolta ci fosse un copione scritto su cui il recitativo di Copernicus non può che trovarsi comunque a proprio agio.

BEACHWOOD SPARKS – Desert Skies

di Paolo Crazy Carnevale

18 giugno 2014

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BEACHWOOD SPARKS – Desert Skies (Alive Records/Christmas Records 2013)

Ogni volta che qualcuno ha cercato di parlare di questa formazione è saltato fuori il nome dei Byrds, quelli originali e quelli con Gram Parsons. Sì, forse è vero, la matrice è innegabilmente quella, ma francamente non me la sento di liquidarli come una band clone dei gloriosi Byrds, no, questi Beachwood Sparks (il nome deriva dagli indirizzi di alcuni componenti del gruppo) meritano qualcosa di più, per lo sforzo artistico, per quello compositivo e soprattutto per la ricerca sonora che va a riscoprire suoni antichi ed al tempo stesso intrisi di una modernità micidiale.

Certo c’è la dodici corde jingle jangle, ma il loro sound va decisamente oltre, se proprio di Byrds bisogna parlare a livello d’ispirazione, citerei quelli di Notorious Byrd Borthers, ma solo per la soluzione sonora psichedelica. Per il resto questo Desert Skies è un disco dannatamente piacevole, bello, vero.

Quando l’ho ascoltato la prima volta non avevo ancora capito che si trattava di materiale “antico”, nel senso di precedente ai due dischi pubblicati dal quartetto – qui sestetto – , così avevo gioito per il ritorno di questa formazione che mi aveva entusiasmato all’inizio del millennio, poi ho scoperto che si trattava di materiale datato, sono rimasto un po’ deluso ma presto ho ri-gioito per la freschezza dei suoni, anche se parte dei brani era comunque apparsa in altra veste sul debutto del gruppo.

Otto le tracce contenute nel vinile (side A etichetta rossa, side B etichetta verde), note di copertina scarne, quattro brani per lato, tutto nel segno di un folk-rock spaziale, di quello che si poteva fare solo in California. La band di Brent Rademaker, Chris Gunst e Dave Scher sfodera una serie di suoni chitarristici che richiamano alla mente di tutto, ma a modo loro preludono anche al ritorno del suono californiano realizzato in tempi più recenti da Jonathan Wilson: ci sono le Rickenbaker (nella title track in particolare), ma ci sono anche richiami più garagistici e accenni a certe cose dei Beach Boys (Time e Watery Moonlight), c’è il rock puro (This Is What It Feels Like), e non mancano lunghe divagazioni space-folk-country che ricordano qua e là i suoni sperimentati nei tardi anni sessanta da Red Rhodes e Clarence White (Sweet Julie Ann e in particolare la riuscitissima Canyon Ride).

L’edizione in CD contiene quattro brani in più, tre sono versioni alternate che hanno comunque più d’un perché, la quarta s’intitola Charm.

FreaKraut – 6. KLAUS SCHULZE

di Marco Tagliabue

15 giugno 2014

 

Strano destino quello di Klaus Schulze: sembra che il Gran Cerimoniere, più cinico e baro che mai, si sia divertito a mischiare le sue carte con quelle dei vecchi compagni per un breve tratto di cammino, i Tangerine Dream, arrivando perfino a sovrapporre, senza la benché minima sbavatura, due parabole artistiche con la stessa apertura ed il medesimo grado d’inclinazione.  Due percorsi che hanno una comune origine e, purtroppo, anche il medesimo punto d’arrivo (Schulze, lo ricordiamo, mosse i propri primi passi in maniera professionale nella formazione dei Tangerine Dream che diede alle stampe il debutto Electronic Meditations, prima di mettere lo zampino nei vagiti spaziali degli Ash Ra Tempel e prima ancora di decidere che, in fondo, chi fa da se…). Da audaci sperimentatori a docili figli del compromesso, da grandi innovatori a prigionieri compiaciuti delle gabbie dorate di un genere che doveva essere punto di partenza e invece si è trasformato, per entrambi, in un insieme di formule vuote, consunte, ripetitive, incapaci di fornire nuove prospettive ad un fertile terreno di ricerca. Una guerra dei bottoni che si aggiudica, ai punti, il protagonista di queste nostre quattro righe, che meglio ha saputo conciliare, specie nei momenti in cui la propria ispirazione già cominciava a puntare verso il basso, le esigenze del portafoglio con quelle di una creatività ancora non del tutto sopita.

Schulze è l’alfiere teutonico che meglio capitalizza, all’interno della propria formazione musicale, l’abbinamento fra cultura classica ed avanguardia contemporanea: i suoi campioni sono Bach, Mozart e Wagner, simbolo della potenza espressa dalla musica, ma anche Stockhausen, Ligeti, Cage e tutta la corrente minimal-elettronica. Le sue partiture elettroniche si sviluppano attraverso trame liquide e dilatate costruite sulla reiterazione di pochi, maestosi accordi ed avvolte in atmosfere eteree ed oniriche, in una dimensione di sogno che, nei momenti migliori, sfocia incontrollata in quella dell’incubo. Le sue caratteristiche sono le note prolungate all’infinito (ottenute, si dice, ponendo dei pesi sulle tastiere) e le linee ipnotiche degli avamposti del suo arsenale bellico: sequencer, moog, sintetizzatore… 

Irrlicht, opera prima e vertice assoluto della discografia di Schulze, irrompe con tutta la propria forza nel già ribollente mercato tedesco nell’aprile del 1972. Una “Sinfonia quadrifonica per orchestra e macchina elettronica”, come recita il sottotitolo, divisa in tre movimenti lungo cinquanta minuti di scandaglio nella coscienza.  Ebene, la prima e più affascinante delle sue parti, nasce sulle note indistinte di vari sibili elettronici in un crescendo di pathos e di tensione che prepara l’ingresso degli archi. Sono violini lontanissimi che si fanno sempre più vicini sulle ali di struggenti melodie, fino a mischiarsi con i riverberi delle macchine in una progressione a fasce di caos controllato. Il terreno è ormai pronto per l’ingresso del protagonista, l’organo a canne, che intona un crescendo mistico e claustrofobico al tempo stesso che sembra non riuscire a trovare pace in una qualsiasi via di fuga. Sono una quindicina di minuti che sfiorano l’eternità: gli accordi dell’organo si fanno sempre più opprimenti e pesanti, l’ansia si fa quasi dolore fisico e la progressione incalza fino a diventare insostenibile. Solo un’esplosione può lenire questo tormento ed è il bang delle macchine elettroniche che segna l’inizio di Gewitter, il secondo movimento, il momento della stasi segnata dai riverberi elettronici del dopo bomba prima che il passo conclusivo, Exil Sils Maria, conduca lentamente e dolcemente al Nulla eterno attraverso suoni rarefatti, cadenze ipnotiche che si fanno sempre più sottili fino a addivenire al Silenzio, alla Morte. E’ la Irrlicht, finalmente, la luce inquietante che attende alla fine del viaggio, il faro che guida nella sua direzione, verso una salvezza che –forse- non era quella sperata…  

Schulze avrebbe replicato, da un gradino appena più basso, solo un anno dopo con Cyborg, album doppio diviso in quattro suite di venti minuti ciascuna, Synphara, Chromengel, Conphara e Neuronengesang, che raccolgono i resti dell’astronave per una nuova odissea nello spazio interiore.  Poi un rapido declino che prende le mosse da Picture Music (1975), esplorando territori via via meno accidentati che assisteranno, nel corso degli anni, all’introduzione di soluzioni ritmiche sempre più vivaci e, perfino, di una voce solista. Fra i lavori più significativi segnaliamo Timewind (1975), la sinfonia dedicata a Richard Wagner, e X (1978), in cui ogni suite è dedicata ad un personaggio famoso del passato. Ma rimangono, purtroppo, solo due piccole asperità in un panorama sempre più piatto.

da LFTS n.70

Il vinile non muore mai…

di Paolo Crazy Carnevale

11 giugno 2014

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Lo scorso dicembre, con la scomparsa di Massimo Piliego, già importatore di dischi negli anni ottanta e novanta, Bolzano ha visto chiudere i battenti del suo negozio di dischi di culto. “Altri Suoni”, oltre ad essere il luogo dove trovare la nostra fanza in Alto Adige, era un luogo di ritrovo per appassionati e musicisti, Massimo aveva una cultura musicale sconfinata, nata prima per passione che per mestiere, e aveva deciso di mettere questa sua conoscenza a disposizione della gente, passando dalla vendita all’ingrosso a quella al dettaglio, il negozio di via San Quirino era un autentico punto di riferimento, traboccante di buona musica, con un reparto di vinili incredibile e affollato anche da semplici curiosi desiderosi di farsi consigliare da Massimo un disco.

Poco prima di Natale, appena un giorno dopo la scomparsa del nostro Ghisa, anche Massimo ha lasciato questo mondo, vittima di un male che se l’è portato via dannatamente troppo presto.

A mantenere vivo il suo ricordo e la sua passione per la musica, sono però entrati in scena i suoi tre fratelli, che avevano continuato l’attività all’ingrosso nella ditta fondata dal padre, il “Musik Import”: ora, pur continuando l’attività come grossisti, Mauro, Marco e Maurizio hanno trasformato il “Musik Import” in un negozio a tutti gli effetti, aperto a tutti e pieno di vinili e CD soprattutto per i palati più fini, situato nella sua storica sede di Piazza Cristo Re 8 a Bolzano . Sabato 31 maggio il nuovo “Musik Import” ha aperto i battenti con una grande affluenza di amici e clienti desiderosi di augurare ai tre fratelli “in bocca al lupo” per la coraggiosa scelta controtendenza di aprire un negozio di dischi, proprio come aveva fatto Massimo all’inizio del millennio.

E a Marco, Maurizio e Mauro va naturalmente anche l’augurio di buona riuscita della redazione di Late For The Sky.

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