Posts Tagged ‘Neil Young’

MOLINA, TALBOT, LOFGREN, YOUNG – All Roads Lead Home

di Paolo Crazy Carnevale

9 maggio 2023

All Roads Lead Home

Molina, Talbot, Lofgren, Young – All Roads Lead Home (NYA Records 2023)

Questo strano disco era stato annunciato erroneamente come il nuovo disco dei Crazy Horse, forse cercando di fare leva sull’interesse che il gruppo ha sempre destato in virtù della sua collaborazione cinquantennale con Neil Young. Del resto il disco è pubblicato dalla NYA (Neil Young Archives), etichetta creata alla bisogna dal canadese per supportare gli amici e collaboratori di una vita.

In realtà, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non ha nulla a che vedere con le recenti session del gruppo per gli ultimi dischi di Young, il fatto poi di uscire accreditato a quattro cognomi messi uno di seguito all’altro, semplicemente, chiarifica un po’ il tutto.

All Roads Lead Home è innanzitutto un buon disco, onesto, ben fatto; non un must ma sicuramente un disco che si lascia riascoltare più e più volte, il che non è poco.

Talbot, Molina e Lofgren hanno sempre scritto canzoni in proprio, hanno avuto carriere artistiche sia sotto la denominazione Crazy Horse che (almeno Talbot e Lofgren) a proprio nomi.

Nessuno dei tre è un cantante indimenticabile, ma il risultato complessivo si fa apprezzare, indipendentemente dalla presenza di un brano scritto, cantato e suonato da Neil, una lunga versione acustica della recente Song Of The Seasons, di cui preferiamo senza se e senza ma la versione full band che apriva Barn.

Il disco è figlio della pandemia, uno dei moltissimi: confinati a casa, i tre musicisti hanno avuto modo di mettere mano sulle canzoni che avevano scritto e mai portato compimento, tre ciascuno, che col brano ricevuto in omaggio da Neil vanno a comporre un album di dieci brani.

Il fatto che ciascuno suoni i propri brani senza che siano presenti gli altri, lascia qualche perplessità, fugata però dall’ascolto che brilla incredibilmente per unitarietà. Lofgren fa tutto da solo, giovandosi solo dell’aiuto del fratello Tom (da sempre al suo fianco) per i cori, e dal prodigioso Kevin McCormick al basso (CSN, Jackson Browne). Billy Talbot coinvolge la sua band al completo, con tanto di ospite di riguardo in Rain, che apre il disco: si tratta di quel Matt Piucci che dopo essere stato la chitarra dei Rain Parade negli anni ottanta ha poi fatto parte dei Crazy Horse per un disco non disprezzabile. Il batterista Ralph Molina per i suoi tre brani si avvale invece di uno stuolo di musicisti.

La già menzionata Rain ha subito l’approccio giusto, Talbot è forse quello più vicino a Neil a livello di scrittura e lavora bene anche con la voce rispetto a certi suoi dischi di qualche anno fa. I suoni delle chitarre (oltre a Piucci ci sono Tommy Carns, Michael Hamilton, Mark Hanley e Ryan James Holzer) sono ben costruiti. Non è male nemmeno You Will Never Know, il primo contributo di Lofgren, paga un po’ dazio al fatto di essere suonata e sovraincisa in solitudine e un po’ alla lunga militanza del nostro nella E Street Band e ai suoni di Springsteen, lontani dall’approccio younghiano e da quello dei Crazy Horse. Non è ben chiaro – le note di copertina devono essere sbagliate – chi suoni in It’s Magical, cantata in punta di voce dal batterista, fatto salvo che le chitarre dovrebbero essere opera di Jan King e Joshua Sklair e il piano di Marco Cecilia. A questo punto s’inserisce la canzone di Young, di cui ho già detto; Cherish è di nuovo opera del bassista, un brano più introspettivo rispetto al suo contributo precedente, Lofgren è invece l’autore della sostenuta Fill My Cup, più younghiana del suo brano precedente ma un po’ ammazzata da una brutta tastiera.

Molina è quindi autore di Look Through The Eyes Of Your Heart, brano consistente e ben strutturato in cui è accompagnato al completo dai romani Raw (Francesco Lucarelli e Marco Cecilia alle chitarre, Marco Molino alla batteria e Fabrizio Settimi al basso) e da Anthony Crawford (veterano younghiano a sua volta) alla chitarra acustica. Meno accattivante Talbot con The Hunter, arricchita da un breve assolo di elettrica.

Go With Me sembra la migliore delle tre composizioni di Lofgren, anche se come le precedenti soffre a sua volta dell’incisione solitaria con Lofgren che si duplica a tutti gli strumenti (il problema sembra essere il mix più che altro). Just For You è una ballata pianistica (di nuovo Marco Cecilia), suggestivo suggello al disco firmato da Ralph Molina e con un solo di sax di Dave Becker.

Paolo Crazy Carnevale

MARCO DENTI, NEIL YOUNG E ALTRI CAVALLI PAZZI

di admin

3 ottobre 2022

Marco Denti locandina

Appuntamento a Crema per tutti gli amanti delle letture musicali: il prossimo venerdì 7 ottobre alle ore 21.00, a Crema, presso la Libreria Cremasca (Scuderie di Palazzo Terni De Gregorj, Via Dante Alighieri, 20) Marco Denti presenterà il suo nuovo libro “Neil Young – tutti i testi commentati”, in compagnia di Fabio Cerbone e Donata Ricci.

INTERVENITE NUMEROSI!

NEIL YOUNG WITH CRAZY HORSE – Colorado

di Paolo Crazy Carnevale

21 marzo 2020

Neil Young Colorado[80]

NEIL YOUNG WITH CRAZY HORSE – Colorado (Reprise 2019)

Neil Young è tornato a cavalcare col cavallo pazzo. Era da qualche anno che aveva messo in naftalina Billy Talbot e Ralph Molina, compagni d’avventure sonore sia con la dicitura Neil Young & Crazy Horse che con quella meno usata di Neil Young with Crazy Horse (come in questo caso).

Quisquilie. La vera differenza è che stavolta al posto di Frank Sampedro c’è Nils Lofgren, una sorta di ritorno, Lofgren aveva suonato con Neil Young (e con i Crazy Horse) su After The Goldrush e Tonight’s The Night, dischi accreditati al solo Young, e aveva preso parte al disco d’esordio del gruppo, quando ancora ne faceva parte Danny Whitten: tutto questo per stabilire quanto a buon diritto Lofgren possa essere considerato parte della formazione.

La cosa più importante però, oltre al ritorno dei Crazy Horse è che questo sembra essere il miglior disco di Young fin dalla precedente avventura con il gruppo, l’indispensabile Psychedelic Pill, a cui erano seguiti cinque dischi abbastanza imbarazzanti, sia per la mancanza di materiale pregevole, sia per la fretta con cui erano stati registrati e messi in commercio. Il tempo aveva dimostrato quanto fosse davvero un problema di fretta, visto che Peace Trail (dall’inascoltabile album omonimo) era stato ripreso in versione eccellente sulla colonna sonora di Paradox. Il disco meno malvagio di questi anni era stato il più recente Visitor, ma non ci voleva molto ad essere meglio di Peace Trail, Monsanto Years, Storytone e del live con i Promise Of The Real. Quanto alla fretta bisogna ammettere che anche questo Colorado è stato fatto abbastanza frettolosamente, però con i Crazy Horse è diverso, c’è un’altra attitudine, un’intesa subitanea, e poi stavolta le canzoni ci sono. Magari non tutte allo stesso livello, ma ci sono.

Young non è più un ragazzino, va da sé che spesso i testi dei brani siano dedicati al passato vissuto, ma continua ad essere presente in maniera determinante quell’impegno eco-sociale che non è mai mancato nelle sue canzoni, meno che mai negli ultimi tempi.

Dire che il meglio del disco arriva all’inizio non è del tutto sbagliato, Think Of Me può essere considerato il brano migliore, c’è tutto: innanzitutto è una canzone a tutto tondo (ultimamente Young canta meno e recita di più, e non è un problema di voce perché il duetto con Jakob Dylan nella beachboysiana I Just Wasn’t Made For These Times, sulla colonna sonora di Echoes In The Canyon, ci dice che la voce c’è), poi ci sono tutti gli elementi che di solito si associano alle canzoni del canadese, vale a dire la voce, l’armonica, la chitarra, il piano, la sezione ritmica. Il brano successivo è la chilometrica She Showed Me, una furiosa cavalcata, nel miglior stile Young & Crazy Horse, quasi un quarto d’ora di elettricità totale dedicata a madre Terra. Seguono poi le rimembranze di Olden Days, altro brano di buona fattura. Bruttina invece Help Me Lose My Mind, cantata quasi fosse un’invettiva mentre invece si tratta di una richiesta d’aiuto; torna invece l’impegno ecologico, il grido d’allarme per i disastri combinati dall’uomo all’indirizzo dell’ambiente in Green Is Blue, brano dai toni rilassati, dimessi, con Neil al piano e al vibrafono e Lofgren alla chitarra.

Shut It Down, ossessiva e di nuovo molto elettrica, oltre che arrabbiata, è la critica della critica, la protesta della protesta, uno strale contro chi della difesa dell’ambiente fa uso per moda o per convenienza e non per convinzione.

Più introspettiva e fantastica l’atmosfera di Milky Way, cantata quasi sottovoce, recitata ma corredata da una chitarra sostanziosamente efficace. Piacevolissima Eternity, sembra di tornare ai tempi di After The Goldrush (voce a parte), con Young di nuovo al piano e al vibrafono mentre Nils sta all’elettrica, con un testo sulla piacevolezza della vita semplice, familiare.

Rainbow Of Colors è corale, con una melodia che richiama vagamente la dylaniana With God On Our Side, e d’altronde il testo è un’invettiva contro chi erige muri che separano, ma è anche una canzone patriottica che inneggia lo spirito buono della nuova patria di Young (che dopo aver abitato per oltre cinquant’anni negli Usa ha recentemente ottenuto la cittadinanza).

La chiusura è affidata all’intima e ancora una volta ambientalista I Do, forse troppo lunga e noiosetta nella struttura, ma dal testo ineccepibile.

Un buon disco in definitiva, con una copertina orrenda, come la stragrande maggioranza delle copertine dei dischi di Neil Young da troppi anni in qua.

NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL – Paradox

di Paolo Crazy Carnevale

27 agosto 2018

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NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL – Paradox (Reprise 2018)

Pur non trattandosi di un disco a sé stante, questo Paradox è il quarto registrato da Neil Young con l’aiuto della band di Lukas Nelson: una colonna sonora realizzata per accompagnare l’omonimo film scritto e diretto da Daryl Hanna, l’ex Sirena a Manhattan di cinematografica memoria ed ora compagna del rocker canadese.

Film e disco inattesi, soprattutto alla luce del fatto che nei mesi immediatamente precedenti Young ha messo sul mercato ben due dischi d’archivio (uno meglio dell’altro, Hitchhiker e Roxy-Tonight’s The Night Live) ed uno nuovo di studio con gli stessi Promise Of The Real (non così ottimo ma migliore dei due lavori con questo gruppo che lo avevano preceduto).

Questa colonna sonora rischia comunque di essere il miglior disco nuovo di Young dai tempi dell’eccelso Psychedelic Pill, nel senso che lo si riesce ad ascoltare quasi interamente senza essere sopraffatti dal desiderio di toglierlo dal lettore (cosa che in particolare non riusciva col doppio dal vivo Earth o col brano spagnoleggiante del più recente The Visitor). Rispetto ai precedenti dischi Lukas Nelson ha anche diverse possibilità di esprimersi come cantante oltre che come chitarrista e a cavallo tra brani totalmente acustici e cavalcate elettriche la serie di composizioni fila via abbastanza bene.

Il film, che non ha riscosso particolari entusiasmi, è una specie di western crepuscolare e visionario, come visionari erano i film diretti e scritti da Young in persona, la sua dolce metà evidentemente è sulla stessa lunghezza d’onda. È avvantaggiata però dalle tecnologie d’oggidì, e quindi la pellicola, per quanto sconclusionata, ha una definizione altissima, e la qualità delle riprese è davvero incredibile.

Il disco dal canto suo mette insieme alcune composizioni strumentali, qualche brano d’epoca eseguito in maniera scarna, e alcune canzoni fatte e finite – Diggin’ In The Dirt pare essere l’unica nuova – ripescate dal repertorio recente e meno recente di Young e risuonate per l’occasione.

E a questo punto è doverosa una parentesi riguardo al fatto che il canadese ultimamente pare essere stato eccessivamente indulgente nel mettere in commercio brani incisi alla bene e meglio, che avrebbero beneficiato di un po’ di attesa e di un’esecuzione più adeguata, o addirittura di un mix più adeguato, proprio come nel caso dell’iniziale (dopo un’introduzione parlata di Willie Nelson) Show Me, che appariva già su Peace Trail, ma che qui suona decisamente meglio, anche se la versione sembra la stessa. Le fa seguito un brano strumentale intitolato Hey, costruito citando il tema di Love And Only Love, In realtà nel disco, tra un brano e l’altro ci sono degli intermezzi acustici suonati da Young ma nel CD non sono indicati (i titoli sono Paradox Passage I, II, II e via dicendo, fino al sesto). Diggin’ In The Dirt il brano nuovo, è cantato due volte nel disco, con Young e Nelson che si alternano. Nulla di memorabile ci pare, ma inserito nel contesto ci può stare. La nuova versione di Peace Trail è il capolavoro del disco, non solo, è anche la cosa migliore incisa da Young in studio con questa formazione, per altro spettacolare in concerto. Dimenticate la versione in trio acustico presente sul disco omonimo, qui c’è davvero del gran buono, a conferma che forse sarebbe stato meglio aspettare a pubblicare quell’altra.

Pocahontas, un classico senza tempo, è qui eseguita con il famoso organo a canne. Un brano che in qualunque versione non può far altro che piacere. Poi arriva Cowgirl Jam, una lunga scorribanda messa insieme prendendo le varie jam di Young e del gruppo su un altro classicone, Cowgirl In The Sand, filmato durante il tour europeo del 2016: il brano fa da commento ad una scena in cui Young e Nelson padre rapinano una banca.

Poi c’è un brano di Willie, cantato da Lukas, Angel Flying Too Close To The Ground, in versione fuoco di bivacco, così come Baby What You Want Me To Do di Jimmy Reed (già affrontata da Young con i Crazy Horse su Broken Arrow), il blues How Long? e la Happy Together dei Turtles.

Nel mezzo si infilano la seconda versione di Diggin’ In The Dirt e un paio di altre invenzioni strumentali, tra cui l’interessante e ossessiva Running To The Silver Eagle. Poi per il finale Young ripesca e rilegge un altro suo brano recente, tratto da Storytone (il disco con l’orchestra). Rispetto alla pesantissima versione orchestrale, qui la canzone è quasi unicamente rivestita di voce e ukulele, in maniera splendida: manco a dirlo anche in questo caso non c’è paragone con quella già ascoltata.

Una cosa è certa, a giudicare dal film, Young e soci devono essersi divertiti parecchio ad andare in giro per boschi e montagne acconciati e vestiti come mountain men e pistoleri straccioni!

NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL – The Visitor

di Paolo Crazy Carnevale

11 marzo 2018

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NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL – The Visitor (Reprise 2017/2018)

Ci sono stati dei momenti in cui ho atteso ogni nuovo disco di Neil Young con golosità. Poi negli anni ottanta ha sparato un brutto disco dietro l’altro, alcuni davvero bruttissimi e inascoltabili, tanto che a un certo punto ho anche smesso di comprarli. Poi è rientrato nelle mie grazie, o meglio, è tornato nelle grazie dell’ispirazione. Ora sono un po’ di anni che i suoi dischi mi lasciano nuovamente perplesso.

L’imprevedibilità è sempre stata di casa nella sua discografia. Ma dopo Psychedelic Pill non c’è un solo disco che mi piaccia. Si salva qualche brano. Molti sono poco ispirati, fuori sintonia. Young è così, prendere o lasciare, ma che fatica!
Tralasciando i dischi d’archivio, sempre dignitosi, in particolare il recentissimo Hitchhiker, questo The Visitor sembra comunque essere quello riuscito meglio, ma contiene cose che sarebbe stato meglio lasciare nei cassetti. A vita.

Posto che il canadese ha sempre e comunque qualcosa da dire, se non altro nei testi, l’accompagnamento dei Promise Of The Real sembra più azzeccato che nell’altro disco di studio inciso con loro, e sì che dal vivo (ma non di certo nell’appena passabile doppio live Earth) i ragazzi spaccano!

Qui comunque si inizia con un brano politico sicuramente ben riuscito, al di là del testo che vorrebbe risvegliare le coscienze di quegli americani che hanno votato Trump sperando di tornare una grande nazione, la musica viaggia dalle parti delle sonorità dello Young del 1973, con venature blues e belle chitarre. Il brano successivo, Fly By Night Deal, è però un tonfo, davvero brutto. È un attimo che per fortuna dura poco, la canzone che segue, Almost Always è per contro una delizia, una delle perle del disco, peccato che ricordi alcuni passaggi di From Hank To Hendrix, ma Young ha spesso saccheggiato se stesso: qui comunque l’arrangiamento è vincente, le chitarra sono elettriche in luogo dell’acustica e le tastiere sono perfettamente inserite, il drumming è giusto quello che ci vuole. È questo il suono migliore dei Promise Of The Real, che d’altra parte durante i tour hanno dimostrato di riuscire meglio proprio nell’esecuzione dei brani degli anni settanta. Stand Tall è un’altra invettiva, stavolta anche in nome della salvaguardia del pianeta, ottimi gli intenti, meno il risultato dal punto di vista musicale di cui si lascia ricordare solo il finale distorto. Il secondo lato del primo disco (il vinile di The Visitor è doppio e si compone di tre facciate solamente, la quarta è nera e senza label e riporta i nomi di young e del gruppo e una penna d’aquila) si apre con la delicata e acustica Change Of Heart, quasi un brano parlato, sempre con un testo interessante e con un bel mandolino suonato da Micah Nelson, mentre il fratello si divide le parti di chitarra col padrone di casa, semplice e adeguato il lavoro di Anthony LoGerfo alla batteria. Carnival è una (troppo) lunga composizione dall’andamento spagnoleggiante – ho letto con perplessità una recensione in cui veniva paragonata a certe atmosfere di Santana –, sembra un lungo delirio ipnotico, con risate e atmosfere circensi, a partire dal testo, sinceramente non la necessità di averla fatta diventare così lunga non avendo mai una variazione, un cambio di atmosfera, di ritmo, salvo nel refrain in cui fa capolino anche il suono della calliope (una sorta di organo a vapore). I cori sono noiosi e le risate alla Mangiafuoco tra una strofa e l’altra dopo un po’ si fanno irritanti. A chiudere il secondo lato c’è un blues, un blues da ridere con Young che sembra improvvisare un testo su un giro di blues appunto e con i ragazzi che gli fanno il botta e risposta nel cantato di un testo casuale. Probabilmente si sono divertiti a farlo e bisogna cercare di divertirsi ad ascoltarlo: se non altro dura poco!

Terza ed ultima facciata: ad aprirla un brano dall’incedere epico, sembra un sunto tra tutte le cose discutibili che Young ci ha fatto ascoltare negli ultimi anni: Ci sono i fiati e c’è un’orchestra, ci sono un sacco di coristi e naturalmente i Promise Of The Real. Buon testo, di certo, di nuovo un invito a preservare il pianeta per i nostri figli, spiazzante l’arrangiamento, ma non da buttare: se non altro dura meno di quattro minuti. When Bad Got Good è brevissima, un invito a sbattere in galera qualcuno, molto probabilmente Trump, ma sembra l’unica cosa intelligente del brano. La perplessità sale.

Per fortuna a chiudere il disco arriva Forever, dieci minuti di inno alla terra, ad una terra al limite del collasso, un pianeta da dopobomba che ricorda la copertina di On The Beach, a metà strada tra le storie dell’autostoppista i Hitchhiker e dell’emarginato di Trashers: Neil canta con voce bassa e quando arrivano gli acuti lui e i Promise Of The Real ci stonacchiano su un po’, ma la costruzione non è male, di tanto in tanto l’elettrica lancia guizzi sul tessuto di base tracciato dall’acustica e dal mandolino (qui non accreditato ma perfettamente udibile).

Chissà, fosse stato un lungo EP di cinque brani, questo The Visitor avrebbe potuto essere un disco migliore.

NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL – The Monsanto Years

di Paolo Crazy Carnevale

25 ottobre 2015

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NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL
The Monsanto Years
(Reprise 2015)

Caro Neil… Non ci siamo proprio.

Ho provato ad ascoltare a più riprese questo The Monsanto Years, cercando di capire se si trattava solo di un mio mood particolarmente sbagliato al momento dell’ascolto, ma in definitiva credo davvero che si tratti di un disco se non brutto, comunque interlocutorio. Ascolto Neil Young facendo attenzione a tutte le sue sfaccettature da almeno trentasette anni, da giovinastro ho esultato ai tempi di Rust Never Sleeps, mi sono fatto cullare dalle melensaggini di Comes A Time, poi sono rimasto perplesso dalla produzione anni ottanta come quasi tutti, col beneficio d’inventario – a posteriori, quando anche da noi si sono risapute le problematiche familiari legate ai figli del musicista – di attribuirne la scarsa consistenza alle suddette problematiche. Ho esultato nuovamente quando gli anni novanta ce lo hanno restituito in gran forma e ho storto il naso più volte, per l’eccessivo zucchero di Harvest Moon, per l’assenza di idee mascherata da innovazione di Le Noise, per l’approssimazione di Fork In The Road, l’inutilità di Letter Home.

Amo e continuo ad amare Psychedelic Pill, Prairie Wind e l’idea di base di Greendale, che forse avrebbe meritato un approccio sonoro d’altro stile.

Ma Neil è così, imprevedibile, menefreghista di ciò che i suoi fan vorrebbero ascoltare. Strafottente nella sua irriducibile perseveranza nel fare solo quello che gli va. Ecco così che gli younghiani incalliti – e mi ci colloco anch’io nella categoria – sono costretti a subire angherie d’ogni tipo. A volte gratuite. The Monsanto Years è uno di quei dischi sbandierati con largo anticipo, figli di un momento particolare: Neil è incazzato con le multinazionali, e allora ci fa un disco, d’istinto, quasi buona la prima. Come ha fatto con il già citato Fork In The Road (che pessimo disco!) o con Living With War (di cui poi la prima evidentemente così buona non era, visto che c’è stata una seconda…). Quando Neil decide di innalzare i suoi peana contro qualcuno non guarda in faccia nessuno, tanto meno quelli che spendono i soldi per comprare i suoi dischi. Proprio recentemente nel sito “trasherswheat” da un referendum tra i seguaci (i suddetti younghiani incalliti) è emerso che per oltre il 37% di questi l’ultimo disco del canadese ad aver suscitato davvero interesse è stato Psychedelic Pill: qualcosa vorrà pur dire…

Messi in naftalina i Crazy Horse eccolo dunque in pista con i Promise Of The Real, la band di Lukas Nelson (il rampollo di Willie tra l’altro quando suona la solista sembra proprio un clone di Young), che comunque dei Crazy Horse sembrano essere epigoni quanto a sound. Una manciata di canzoni invettive, magari anche buone quanto ad intenzioni, forse ottime; quel che manca è il tessuto sonoro… il disco sembra abbastanza ripetitivo, poco ispirato. E a tratti le idee di Neil sembrano anche un po’ confuse: il terzo brano ad esempio, caratterizzato da alcune belle intuizioni chitarristiche, è costruito su un ossessivo ritornello – che è anche il titolo del brano – che ci ripete che la gente vuole sentire canzoni d’amore, come a volersi giustificare per il precedente romantico Storytone tutto dedicato alla love story con Daryl Hanna e appesantito dagli arrangiamenti orchestrali (tanto che nell’edizione deluxe è stato allegato il medesimo disco in versione acustica). La gente vuole ascoltare canzoni d’amore, ma qui invece le canzoni sono politiche. Il brano d’apertura di questo The Monsanto Years, A New Day For Love è decisamente bruttino, molto al di sotto degli standard del canadese e non contribuisce certo a predisporre di buon animo chi si pone all’ascolto del CD; molto meglio Hawk Moon, dal tessuto semi acustico che ricorda altri tempi e altri Neil.

Young riesce a collocare un brano del genere in quasi ogni disco – mi riferisco ai suoni – e non capisco perché non provi a fare un disco intero in questa direzione, per quanto la voce in questo disco sia davvero molto penalizzata. Gli oltre otto minuti di Big Box sono invece una lunga cavalcata elettrica di quelle spettrali cui da tempo siamo adusi ascoltando la musica di questo eclettico artista, il testo è quasi urlato sull’onda anomala delle chitarre, più che una canzone sembra un proclama recitato su una base musicale incalzante. A Rock Star Bucks A Coffe Shop è un altro peana, stavolta indirizzato verso la catena di coffee shop più nota d’America, è il brano portante del disco, quello orecchiabile, in maniera fastidiosa però: se le chitarre sono a posto e il sound younghiano emerge con vigore, il coro non è dei migliori e poi c’è l’insopportabile fischietto da gita in campagna coi boy scout che mi aveva fatto storcere il naso anche in Psychedelic Pull (disco comunque di tutt’altro spessore).

Workin’ Man è abbastanza noiosa nel suo dilungarsi e sa comunque di già ascoltato e anche Rules Of Change non brilla particolarmente, pur avendo una struttura musicale più interessante e varia. La title track sa anche di già ascoltato, e proprio su questo stesso disco, sette eccessivi minuti di invettiva, su un andazzo alla Neil Young già ascoltato in versioni decisamente migliori altrove. Più interessante la canzone che chiude il disco, If I Don’t Know, ma forse solo perché arriva dopo quattro brani poco entusiasmanti.

P.S. 1 – La copertina è leggermente meglio del solito, con Young e la novella fidanzata ritratti in una sorta di rifacimento del celebre dipinto “American Gothic”.

P.S. 2 – A giorni l’indefesso Neil pubblicherà il nuovo capitolo dei suoi live d’archivio, tanto per non smettere di taglieggiare il suo pubblico, stavolta quanto meno si tratterà di un concerto diverso dal solito visto che lo cattura durante il tour anomalo con i Blue Notes.

Debutta “WATERFACE”, il recital musicale dedicato a Neil Young

di admin

7 aprile 2015

 

Agrate Brianza e Rimini ospitano le prime date di “WATERFACE” il recital musicale dedicato a Neil Young

 

 Nel 2015 Neil Young, una delle figure più longeve e artisticamente influenti della scena musicale internazionale, compie 70 anni. Un’iniziativa tra le più originali per celebrare l’evento è il recital musicale “Waterface, Neil Young e gli anni della trilogia oscura”.

 

Le prime date saranno:

- Agrate Brianza (Teatro Duse, 17 aprile, ore 21)

- Rimini (Teatro degli Atti, 19 aprile, ore 19) 

 

Waterface è uno spettacolo narrativo musicale che ripercorre, partendo da tre album fondamentali nella storia di Neil Young (Time Fades Away, Tonight’s The Night e On The Beach), un periodo complicato e controverso che si protrarrà per circa due anni e che, per diversi motivi, lascerà un segno profondo nella carriera del rocker canadese, mutando completamente l’immagine stereotipata del cantautore presso il pubblico.

 

Così la band stessa descrive lo spettacolo: “Waterface non è una tribute band. Waterface non è uno show di cover. Waterface è il viaggio affascinante nell’universo oscuro di uno dei più controversi e influenti artisti della musica rock. Waterface è la narrazione dal di dentro degli anni della trilogia oscura: un racconto teatrale con contributi video rarissimi e canzoni suonate dal vivo da una band con un interplay inedito e stimolante “. 

 

Waterface Band:

Pier Angelo Cantù: voce narrante, chitarra

Marco Grompi (Rusties): voce, chitarre

Osvaldo Ardenghi (Rusties): chitarre, voce 

Andrea ‘Briegel’ Filipazzi (Ritmo Tribale, NoGuru): basso

TribAlex Marcheschi (Ritmo Tribale, NoGuru): batteria

 

 

Info: 333 9880094

pierangelo.cantu@lateforthesky.org

https://www.facebook.com/recitalwaterface

Let’s roll another number, Neil.

di Marco Tagliabue

8 settembre 2013

Per chi c’era sarà un ricordo incancellabile.
Grazie, vecchio Bisonte.

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/22

di Paolo Crazy Carnevale

8 marzo 2013

Neil-Young-Psychedelic Pill

 

NEIL YOUNG & CRAZY HORSE – Psychedelic Pill (Reprise 2012)

 

Neil Young è fatto così, grandi silenzi, grandi ritorni, delusioni, entusiasmo. A ben vedere, dopo aver letto il suo libro Sogno di un hippy, quanto è accaduto discograficamente nel 2012 per il rocker canadese (alla luce del disco che abbiamo in mano il termine cantautore è fuori luogo) era nell’aria. Il libro è infatti un insieme di riflessioni e ricordi scritti quasi di getto sull’onda di quanto Neil aveva più a cuore nel momento in cui scriveva. Ed è evidente – dalle cronache e dai dischi usciti – che il libro è stato scritto quando le sue priorità erano l’invenzione, se così si può dire, di un sistema qualitativamente efficace per la riproduzione dei file audio e il ritorno del Cavallo (inteso come Crazy Horse), se il libro fosse stato scritto un anno prima forse la priorità sarebbe stata la reunion dei Buffalo Springfield, chi può dirlo. Quel che conta è che con questo doppio CD abbiamo tra le mani finalmente, dopo anni,  un gran disco del canadese. Un gran doppio disco di sole otto canzoni (più una alternate take della title track). Trattandosi di un disco con i Crazy Horse, va quasi da sé che si tratta di un disco in cui l’elettricità è sovrana, ma quel che piace maggiormente è il fatto che il suono si riallaccia, soprattutto in alcuni brani, ai Crazy Horse di Zuma e della primissima collaborazione tra il gruppo e il solista più che ai Crazy Horse delle incursioni degli anni novanta, non sempre del tutto riuscite (Broken Arrow e il live seguente erano decisamente bruttarelli).

C’è il recupero di un suono di matrice country-folk elettrica e ci sono diversi testi che rimandano alla rimembranza del passato (Born In Ontario, Twisted Road in cui si parla della prima volta in cui Neil ascoltò Like A Rolling Stone alla radio, e qui viene inevitabile il parallelo con uno dei brani migliori dello Young recente, quella Bandit in cui il brano di Dylan è citato testualmente) e ci sono le grandi cavalcate elettriche, nel caso di Driftin’ Back posta in apertura si rasenta la mezz’ora di durata, ma anche Walk Like A Giant e Ramada Inn – la mia preferita – non scherzano.

La cosa più incredibile è che nonostante la lunghezza dei brani il disco non annoia, scorre, la musica di Young e del Cavallo è davvero come un fiume che scorre senza interruzioni, coinvolgendo l’ascoltatore e trascinandolo via come la corrente impetuosa. C’è anche il tempo per un brano rilassato e intimista come For The Love Of Man, che riconduce a certi momenti del passato migliore del nostro. Sottotono – rispetto al resto del disco – la title track, che è riuscita meglio nella versione bonus posta in chiusura del disco, e She’s Always Dancing, potrebbero sembrare dettagli di poco conto in un disco che supera gli ottanta minuti, ma senza questi due brani il disco sarebbe stato davvero perfetto.

 Paolo Crazy Carnevale

 

 

lupita' project

LUPITA’S PROJECT – I.Never.Shot.An.Indie (Cromo Music 2013)

 

Vi sembrerò di parte, lo so, ma sono convinto di quanto sto scrivendo: questo nuovo disco di Alessandro Ducoli è mitico! Sì, perché Lupita’s Project è il nome del gruppo con cui il Ducoli sta girando da un paio d’anni, un gruppo incendiario – speriamo che restino insieme a lungo – con un’anima rock’n’roll incendiaria, espressa divinamente sul palco e riportata con fedeltà nelle tracce proposte in questo nuovo disco. I Never Shot An Indie è un disco compatto, tosto, c’è tutto, ci sono i suoni giusti, come nei dischi di una volta, ma non datati, una sezione ritmica impeccabile (Mirko Blanco De La Fuente alla batteria e Cosswho al basso), una chitarra infuocata nelle mani di Marlon Richards, giustamente un epigono dei Rolling Stones, le tastiere di Valeruz Velasco (co-produttore del disco) che legano il tutto, sia che si vestano da piano elettrico, sia che indossino i panni di un hammond, e per finire le canzoni e la voce di Cletus Cobb – il nome de plume del Ducoli quando invece di fare il cantautore diventa un consumato e grande rocker.

Non credo ce ne siano in tanti come Cletus Cobb, anzi, lui è unico, in lui convivono le anime di Elvis, di Hank Williams e Bob Dylan, filtrate attraverso i suoni dei Rolling Stones e dei Green On Red di Gas Food Lodging.

Questo nuovo disco è dritto e intenso, breve, ma forte, nove brani in tutto, confezionati in modo superbo, sia per quanto riguarda il booklet che lo acocmpagna, sia per la produzione. Quale sia il segreto di questo artista è chiaro, lui canta ciò che è, canta dei suoi amori (che siano donne o stili musicali), canta della sua cagnolina Lupita (Idolo del mio cane, Lupita’s Project), della sua squadra del cuore (Giacinto, omaggio allo storico capitano dell’Inter F.C., in cui le tastiere di Valeruz sembrano fare il verso a Ray Manzarek), e canta tutto col cuore in mano, senza risparmiarsi.

Non c’è un brano da dimenticare in questo disco, allora ne citerò almeno tre da portarsi dietro ovunque, per non essere mai soli: Sex Me, semplicemente grandiosa, l’introspettiva Today, e la finale e finalmente della giusta lunghezza (gli altri brani sono un po’ più brevi) I Got To Kill, autentico capolavoro.

Ma non finisce qui: siccome Cobb/Ducoli è un irrimediabile generoso – l’ho visto spesso regalare i suoi dischi a fine concerto -, questo CD contiene altre cose. Per cominciare tre brani bonus: una versione “zamorano” di Giacinto, la cortissima The Cure e la drammatica Moana, masterpiece d’interpretazione. Per finire in coda al disco troverete invece per intero il disco precedente di Cletus Cobb, I Leave My Place To The Bitches, ironica considerazione su come i posti in cui un tempo andava a suonare siano trasformati in club dove si pratica la lap dance. Ed è un altro signor disco.

 Paolo Crazy Carnevale

 

 

mahogany frog

MAHOGANY FROG – Senna By Mahogany Frog (Moonjune 2012)

 

Non sono mai stato un amante del prog-rock, anzi. In gioventù ho ascoltato poche cose dei Genesis e degli Yes, il resto, italiani inclusi, mi ha sempre fatto venire il mal di pancia. Chiaro che accostarmi a questa band strumentale canadese che i comunicati della casa discografica indicano chiaramente come progressive/psychedelic/post rock è stato un po’ azzardato, d’altronde ero curioso di ascoltare il disco visto che da questa label solitamente mi giungono dei prodotti che, pur non in linea con ciò che ascolto abitualmente, in qualche modo si rivelano intriganti e degni di nota.

E anche stavolta non sono rimasto deluso, anzi, vi dirò di più, il disco di questi Mahogany Frog mi piace proprio, chi lo avrebbe mai detto.

Il quartetto di Winnipeg, con i suoi temi incalzanti e le diavolerie elettroniche “suonate” dal batterista e dal bassista in aggiunta alle tastiere impazzite usate dai due chitarristi, ha messo insieme un bel prodotto che pensò ascolterò ancora. Non essendo un fruitore abituale di prog-rock non saprei dirvi a chi si rifacciano, ma probabilmente ci mettono molto del loro questi canadesi, e il risultato sono otto brani che in qualche modo vanno a costituire una suite con vari temi.

Si sente che non sono di primo pelo, infatti questo è il loro sesto CD: il brano d’apertura ha tutto il sapore dell’ouverture, Houndstooth part 1 evolvendosi poi in un secondo brano dal medesimo titolo che esplode in un’orgia di suoni che secondo il gruppo dovrebbe ricalcare le caratteristiche delle proprie live performance.

Il disco prosegue alla grande con Expo ’67 e ancor meglio con la solida Flossing With Buddah. Per contro Message From Uncle Stan: Grey Shirt, la composizione più lunga del lotto è tutta giocata su suoni sperimentali su cui si vanno ad inserire intrecci di chitarre prima e di tastiere poi. A seguire Message Form Uncle Stan: Green House più breve ma non meno azzeccata, in chiusura Saffron Myst e la lunga Acua Love Ice Cream Delivery Service arricchita dalle “voci” dei beluga del Manitoba e da unharpsichord.

 Paolo Crazy Carnevale

 

 

nolunta's

NOLUNTA’S – Rising Circle (Seña International 2012)

 

Colpo di fulmine autentico il disco di debutto di questa band della Val Gardena. In nemmeno un anno di attività i sei ragazzi che hanno dato vita a questo combo di originale folk-rock hanno davvero bruciato le tappe.

Questo loro disco d’esordio è un concentrato di ispirazione ed energia davvero notevoli e non c’è da stupirsi che la loro musica abbia convinto tanta gente al punto da farli affermare ed apprezzare in numerosi concorsi in Italia e all’estero, con autentica pioggia di premi e conseguente attività live a livello internazionale molto intensa.

Il disco, per quanto autoprodotto si presenta gran bene, a partire da una veste grafica invidiabile, niente scatolette di plastica che qualcuno ha avuto il pessimo gusto di chiamare jewel-case, il disco dei Nolunta’s arriva in una bella confezione cartonata contraddistinta da una cura per l’immagine difficile da riscontrare solitamente, e non solo nei dischi di gruppi esordienti.

Il contenuto musicale va di pari passo, undici belle canzoni che sposano l’energia di gruppi come i Pearl Jam ad una strumentazione di base decisamente folk (fisarmonica, chitarre acustiche, ukulele, mandolino, percussioni – ma nella bella e conclusiva Human c’è anche un solo di chitarra elettrica). Il cantato di Andreas Kondrak è sufficientemente originale e dotato di sfumature interessanti su cui il resto del gruppo costruisce il tessuto sonoro, talvolta incentrato sulla ritmica (è il caso di By The Times I Hope e Jeremy), talaltra sulle coordinate dettate dagli strumenti a corda. Perla del disco è senza dubbio The Art, ma non da meno sono Human, Mother, Valley Of The Sun.

Speriamo che i ragazzi continuino così, perché c’è di gruppi come questo c’è davvero bisogno!

 Paolo Crazy Carnevale

Ragazzi, fate come Neil Young!

di Roberto Anghinoni

26 giugno 2012

neil-young-record-store

Sta usando l’MP3? Ha un Ipod? Sta scaricando abusivamente? E’ sul web a rincoglionirsi?

No, cari amici, il nostro amato Vecchio Bisonte si sta sporcando i polpastrelli come ogni essere umano degno di questo nome!

Sta godendo del piacere di aprire una copertina e di leggere i testi, ha ancora voglia di sorprese e le cerca in un negozio di dischi, dove ancora circola un po’ di umanità consapevole.

Se proprio abbiamo bisogno di un modello esistenziale, facciamo come il vecchio Neil Young. Lui sa come si fa.

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/14

di admin

13 dicembre 2011

Black Country

BLACK COUNTRY

Black Country Communion

2010 J & R Adventures Records  CD + DVD

 

Si tratta dell’album d’esordio di questo supergruppo! Nel novembre del 2009 al chitarrista   Joe Bonamassa, che si stava esibendo al Guitar Center di Los Angeles, fu proposto di suonare con alcuni ospiti. Bonamassa, poco più che trentenne, è oggi uno dei migliori e acclamati virtuosi della chitarra blues di questo secolo: nato come chitarrista classico si innamora del blues ed esordisce a solo dodici anni suonando in tour con B.B. King, poi ha suonato con Eric Clapton e partecipato a tutti i più importanti Festivals di blues del mondo. Finora ha pubblicato quattordici album solisti. Fra gli ospiti c’erano Glenn Hughes, ex Trapeze e Deep Purple, stupendo bassista e solista e una delle più belle voci della scena rock britannica. Eseguirono dal vivo alcune canzoni, registrate da Kevin Shirley, produttore di Bonamassa. Visto il successo, Kevin propose di formare una band per alcuni tour e per incidere un album, invitando a unirsi loro alla batteria Jason Bohnam (figlio di John, batterista dei mitici Led Zeppelin) e alle tastiere Derek Sheridan, ex Dream Theathre ed ex  Billy Idol band. Hughes chiamò la band Black Country ed entrarono negli Shangri La Studios di Los Angeles nel gennaio del 2010, con la collaborazione di Patrick D’Arey, uillean pipes e tin whistle, terminando le session in aprile e incidendo dodici brani che sarebbero stati pubblicati nell’omonimo album nel settembre dello stesso anno dalla J & R Adventures negli USA e dalla Mascot in GB, e prodotto dallo stesso Shirley con il trainante singolo Black Country. Tutte le song sono composte da Hughes, alcune con la collaborazione di Bonamassa, Shirley e Sheridan, tranne la stupenda e immortale Medusa, scritta da Hughes nel 1970 e pubblicata dai Trapeze, band della quale vi ho già parlato e che vi consiglio caldamente di conoscere. Ci sono brani di notevole impatto con un rock blues duro e aggressivo come Black Country, Down Again, The Revolution In Me e la chitarristica Too Late For The Sun. Poi, ballate intense e sofferte come Stand (At The Burning Tree), One Last Sound e Sista Jane, The Great Divide, ma tutte le song sono di ottimo livello e l’impatto strumentale e la voce di Hughes sono incredibili. Ho trovato una edizione a prezzo modico con allegato un DVD contenente le session in studio dei brani, interviste ai musicisti e al produttore su come è nata questa grande band, e una versione spettacolare di The Great Divide, registrata alla Riverside Arena nel tour promozionale del marzo 2010. Imperdibile!  Recentemente è uscito il secondo album, Black Coutry Communion 2, altrettanto eccellente.

Daniele Ghisoni

 

 

joe lynn turner

JOE LYNN TURNER

Second Hand Life

2007 Frontier Records CD USA

 

Stupendo cantante rock statunitense, ricordato da noi, purtroppo, solo per essere stato il vocalist di Rainbow e  Deep Purple, ma ha avuto una carriera incredibile come singer in altre grandi band, con innumerevoli partecipazioni come sessioman, autore, attore, ma soprattutto come solista di notevole vaglia, e ora vi racconterò la sua storia. Joseph Arthur Mark Liquito nasce il 2 Agosto del 1951 nel New Jersey da una famiglia di origini Italiane; alle scuole superiori forma gruppi con i quali esegue cover di artisti che andavano per la maggiore. Gli Ezra furono la sua prima band importante che lo fece conoscere al grande pubblico, poi arrivarono i Fandango, con il sound dei Deep Purple nel sangue e con due album stupendi, One Night Stand e Cadillac che vi consiglio di cercare. Dopo tour di successo come  supporto a band come The Marshall Tucker Band, Allman Brothers e Beach Boys, la band si sciolse per lo scarso riscontro commerciale dei dischi. Joe (che aveva cambiato il nome) ricevette una sera del febbraio del 1981 una telefonata da Ritchie Blackmore che gli chiese di raggiungerlo nei Rainbow per sostituire Graham Bonnett. Con la band più famosa e amata del periodo Joe incide tre ottimi albums: Difficult To Cure, Straight Between The Eyes e Bent Out Of Shape, fino allo scioglimento del gruppo nel 1984 per la reunion dei Deep Purple. Inizia una carriera solista di buon livello con l’album Rescue You e con l’hit single Endlessly, nel 1988 incide Odyssey e Trial By Fire con Yngwie J .Malmsteon, ottimo chitarrista svedese. Poi l’anno seguente Blackmore lo vuole nei Deep Purple per sostituire Ian Gillan, e con la band inciderà, non per colpa sua, l’appena discreto Slaves & Masters. Col ritorno di Gillan, Turner torna on the road e la sua attività diventa  frenetica: incide alcuni album solisti di buon livello come Undercover, Slam e The Usual Suspects; collabora e incide con Mothers Army (con Jeff Watson, Bob Daisley e Carmine Appice), i finlandesi Brazen Abbot, Michael Men Project, Sunstorm (gruppo tedesco davvero interessante con l’omonimo album). Forma gli Hughes Turner Project con un altro grande ex Deep Purple, Glenn Hughes, con tre album spettacolari che vi consiglio spassionatamente: HTP1, HTP2 e Live In Tokyo. Innumerevoli le sue partecipazioni a tribute album, colonne sonore televisive, sessionman nei dischi di Michael Bolton, Jimmy Barnes, Bonnie Tyler, Mick Jones, Leslie West, Riot e Billie Joel, solo citarne alcuni. Oggi gira con una nuova band, i Big Noize, col vecchio amico Vinnie Appice. Questo è il suo ultimo album ed è attorniato da ottimi strumentisti: Karl Cochran , guitars e bass, Michael Cartellone, drums, Bob Held, bass e Gary Colbett, keys. Con la coproduzione di Bob Held , incide dieci brani di sua composizione, molti dei quali in collaborazione con i musicisti che lo hanno accompagnato nella sua carriera. Love Is Life è una ballata hard rock molto intensa, Got Me Where You Want Me è molto più sofferta, Second Hand Life è uno dei gioielli dell’album, con la voce di Joe che ti entra nel cuore. In Your Eyes ha atmosfere soffuse, sensuali e intriganti. Un’altra chicca è Stroke Of Midnight, scritta con Blackmore e Glover ai tempi dei Deep Purple. Notevoli anche le ballate hard rock di Over The Top, Cruel e Sweet Obsession, mentre sono coinvolgenti Love Is On Our Side e Two Lights, quest’ultima come bonus. Un grande artista da conoscere e non vi ho mai deluso, cari coniglietti.

 Daniele Ghisoni

 

 

cozmic mojo

 

COZMIC MOJO

Southern Frequency Club

2011 Cozmic Mojo CD

 

Una formazione curiosa quella dei Cozmic Mojo, un quartetto italo-texano che ruota attorno alla cantante di Austin Elizabeth Lee e al chitarrista bresciano Luca Gallina, giunti con questo lavoro alla loro terza prova discografica. A questo si aggiunga il fatto che il gruppo ha un notevole seguito in Germania ed ecco che avremo il ritratto di una formazione davvero senza frontiere. Rispetto al precedente lavoro, più orientato verso un sound texano più classico, questo nuovo CD dei Cozmic Mojo sembra aprire la strada, temerariamente e con successo, verso una musica più densa di contaminazioni, anche elettroniche, che ricordano certi esperimenti prodotti in casa Fat Possum, con la differenza che qui la tecnologia è applicata a un ambito country rock approcciato con spirito punk anziché al blues. La musica (quattordici tracce in tutto) sembra aver spostato l’asse dal Texas all’Arizona, più precisamente verso Tucson, pescando certe sonorità dai Green On Red (ascoltate l’apertura della traccia numero uno, Soundtrack) e certe altre dai Calexico (nel brano Yes ad esempio), fermo restando che quello dei Cozmic Mojo è soprattutto un progetto originale.  Gran chitarre, suonate da Gallina e da Luca Manenti, col solido drumming di Federica Zanotti e naturalmente la voce di Elizabeth Lee. Ai puristi dirò subito che l’uso di certi campionamenti elettronici non guasta assolutamente, rende anzi molto attuale e fresco il suono del gruppo, che si arricchisce qua e là di partecipazioni da parte di amici al di qua e al di là dell’Atlantico, perché, trattandosi di una formazione cosmopolita, il CD è stato registrato in Italia e in Texas. La voce della Lee è molto calda e duttile, si adatta molto bene alle composizioni che lei stessa firma con Luca Gallina, che si tratti dell’ipnotica Box Song, con momenti quasi hendrixiani, o della jazzata The Clown. Blue Happiness pare celare echi zappiani in una struttura che con Zappa non ha nulla a che vedere, Longhing è sostenuta da un intreccio tra slide e chitarra effettata, Lupin, come ci si può attendere dal titolo, è cantata in parte in francese e aggiunge nell’arrangiamento atmosfere parigine che vengono regolarmente riportate in linea col resto del disco da break di chitarra acustica di tutt’altra natura. Il tutto a testimoniare quanta buona musica in sordina si produca in giro per il mondo.

 Paolo Crazy Carnevale

 

 

journey web

 

 

JOURNEY    

Revelation                

2008 Frontiers Records 2CD

 

In molti all’annuncio del nuovo cantante dei Journey hanno ironizzato sulla provenienza e le modalità di assunzione. Le battute sul fatto che il leader, il chitarrista Neal Schon (un passato, ormai molto remoto, nella band di Carlos Santana) si fosse trovato un nuovo cameriere, si sono sprecate. In effetti però il fatto che il gruppo, dopo le apparizioni di Steve Augeri e Jeff Scott Soto, avesse trovato nel filippino Arnel Pineda il sostituto del grande Steve Perry, attraverso YouTube dove il nostro aveva postato alcuni video con il suo gruppo, cover band dei Journey, The Zoo, poteva suscitare non poche perplessità.  Invece, incredibile, Arnel sembra proprio un clone di Perry, capace di arrivare a tonalità incredibili. E Revelations è un disco niente male, beninteso per gli appassionati di un genere, l’AOR, che in Italia non ha mai goduto di troppi estimatori. Per costoro, i Journey non hanno bisogno di grandi presentazioni, gruppo che dalla metà degli anni ‘70 ha venduto quasi ottanta milioni di copie in tutto il mondo. Molti i brani da citare in questo lavoro, dall’iniziale, radio friendly Never Walk Away, nel classico stile del gruppo, a Faith In The Heartland, che già appariva in versione leggermente diversa nel precedente album, Generations. Oltre ai due musicisti già citati il gruppo è formato dal bassista storico Ross Valory, il tastierista Jonathan Cain (un passato nei Babys come peccato di gioventù) e il batterista Dean Castronovo, e chissà quanti dei fan di Vasco Rossi conoscono i Journey. Non mancano la classica ballatona strappacuore, nel loro classico stile, come After All These Years o i brani più ariosi come Like a Sunshower. Altri pezzi da novanta le trascinanti Where Did I Lose Your Love (che farà un figurone in versione live) e What It Takes To Win dall’ottima apertura pianistica, l’intensa What I Needed e la romantica, potenziale hit single, Turn Down The World Tonight. In allegato anche un secondo CD, nel quale vengono riproposti, con il nuovo singer, molti classici del gruppo, da Don’t Stop Believin’ a Open Arms, per enfatizzare la bravura di Arnel Pineta ed i parallelismi con Steve Perry. Ci rende orgogliosi il fatto che (piccola nota patriottica) il disco in questione, come il successivo, appena pubblicato Eclipse, veda la luce sotto il marchio Frontiers, label napoletana che annovera nel suo carnet anche gruppi come Whitesnake, Def Leppard e Yes. Promossi quindi i Journey, a patto che il prossimo cantante non vadano a cercarselo ad Amici.

Paolo Baiotti

 

 

magenta

MAGENTA  

Home

2006  F2 Music CD + EP

 

 

I Magenta sono un gruppo gallese, di Cardiff. Questo Home è il loro terzo album in studio, pubblicato nel 2006. Home è un concept che narra la storia, ambientata negli anni ‘70, di una donna inglese, di Liverpool, che, stanca della routinaria vita nella città natale, matura il concetto che “casa” è ovunque ci si trovi. Affascinata dalla grande metropoli vola quindi negli States dove finisce invischiata in storie di droga, alcool e prostituzione. Dopo un incidente stradale, con conseguente ricovero in ospedale, trova la redenzione con un viaggio attraverso gli States, alla ricerca soprattutto di sé stessa, dove incontra una specie di sciamano nativo americano, Joe, che, portandola con se nella sua riserva, le fa capire che la vera vita, tutto ciò di cui abbiamo bisogno, è a casa (home). Joe le fa ritrovare la retta via e sconfiggere i propri demoni, con il desiderio finale del ritorno al punto di partenza, là dove potrà sentirsi finalmente bene e in pace con sé stessa, in Inghilterra. L’itinerario del viaggio è dettagliatamente documentato nella piantina che occupa le due pagine centrali del libretto del CD. Quello dei Magenta è un prog moderno, con echi di Genesis, Pink Floyd, Yes e anche Rush, il tutto visto con una sensibilità femminile dovuta alla bravissima cantante Christina Booth. Il leader del gruppo, autore delle canzoni, è Rob Reed (basso, chitarra e tastiere). Gli altri componenti il gruppo, all’epoca dell’uscita di questo lavoro, erano i chitarristi Chris Fry e Martin Rosser, il bassista Dan Fry e il batterista Allan Mason-Jones. I testi sono del fratello di Reed, Steve. Su tutto comunque spicca la magnifica voce, personale e carezzevole, calda e piena di passione di Christina. Un vero angelo. Ascoltatela nell’iniziale This Life, in Moving On o nel gioiello spezzacuori Towers Of Hope, ripresa anche nella conclusiva Home. Ve ne innamorerete perdutamente. Le canzoni sono tutte belle. Le lunghe Journey e Joe sono le più canonicamente progressive. Hurt e Demons sono assolutamente floydiane (la prima mi ricorda anche i Rush), mentre in The Dream e Journey’s End oltre ai Floyd trovo echi addirittura dei Massive Attack, quelli più soft, quando si avvalgono di una voce femminile, oppure degli Archive di You All Look The Same To Me, se avessero come cantante Kate Bush. Morning Sunlight, che invece c’entra poco con il prog, potrebbe essere stata scritta da qualche cantautore americano, ed è impreziosita da delle armonie vocali quasi alla Eagles. Home Town è una ballata molto sentita e struggente.  Una nota anche per la bella copertina che ritrae Christina vista attraverso i finestrini bagnati di pioggia di un taxi; un’immagine colma di malinconia che fa capire la situazione in cui si trova la protagonista del racconto (in musica). Da questo Home, che dura quasi settanta minuti, sono rimasti fuori cinque brani, per oltre quaranta minuti di musica, inclusi quindi nell’EP New York Suite, lavoro ancora più legato al prog e imprescindibile compendio all’album principale. I due CD sono infatti acquistabili separatamente oppure assieme, in cofanetto; ed è così che vi consiglio di procurarveli, in quanto inscindibili per apprezzare appieno il filo conduttore della storia. È infatti nell’EP che si narra della discesa della protagonista agli inferi degli aspetti più negativi dell’esistenza. Lavoro molto intenso, personale e intimo questo Home. Bello, bello, bello, da avere assolutamente. Attenzione però, potreste non poterne più fare a meno.

 Gianfranco Vialetto    

 

 

THE PIEDMONT BROTHERS PROJECT

Lights Of Your Party

2011 Flyin’ Cloud CD

 Un bel passo avanti rispetto al disco d’esordio per la band/ progetto di Marco Zanzi e Ron Martin, due appassionati di musica, uno italiano, di Varese, e l’altro di quelle Blue Ridge Mountain, Carolina per la precisione, cantate nel disco in un riuscito medley tra Blue Ridge Mountain Blues e Flint Hill Special. A dispetto del fatto che si tratta di un disco realizzato giocoforza usando molto le tecniche di studio, visto che i due leader vivono su sponde opposte dell’Oceano, Lights Of Your Party brilla per una coesione un affiatamento davvero pregevoli. I suoni acustici e gli impasti vocali sono la sua forza d’urto che fa subito breccia nell’ascoltatore. Ondeggiando tra brani originali che nulla hanno da invidiare alle cover, e riproposte (scelte con oculatezza e motivazione) di brani altrui (Carolina On My Mind, A Child Claim To Fame dei Buffalo Springfield, One More Night di Dylan tra le altre), la raccolta propone una miscela musicale che brilla per spontaneità, passando dal traditional alla canzone d’autore americana, con belle iniezioni di musica irlandese e impasti vocali molto curati. Alle voci dei due ideatori del progetto (che deve il suo nome al fatto che entrambi vengono da zone pedemontane) si aggiungono quelle di Cecilia Zanzi (che si occupa del brano di Dylan), Rosella Cellamaro (alle prese col classico di James Taylor), Doug Rorrer (che affianca Ron Martin nel brano sulle Blue Ridge Mountains). L’amalgama è totale e più che del disco di un duo, come quello d’esordio, si può davvero parlare di progetto, con strumenti a corda suonati con in mente la lezione di gente come Earl Scruggs e Clarence White, organo Hammond B3 (nella bella Big Grey), fisarmonica, violino, piano e, scusate se mi ripeto, le voci! Tra le canzoni autografe, oltre alla citata Big Grey, spiccano lo strumentale Acousticharmonies, My Brother, Springtime Flowers e la title track. Menzione d’onore per il gospel conclusivo Down In Ther River To Pray.

 Paolo Crazy Carnevale

 

 

untitled

 

UNITOPIA     

The Garden      

2008 Inside Out 2CD

 

Gli Unitopia sono un gruppo progressive australiano fondato alla fine del 1996 dal cantante Mark Trueack e dal tastierista Sean Timms. Il loro debutto discografico vede la luce però solo nove anni più tardi con il titolo More Than A Dream, ma il vero botto arriva con il successivo The Garden del 2008. Lavoro doppio con richiami, oltre ai soliti Genesis/Marillion (evidenti le affinità vocali di Mark sia con Peter Gabriel che soprattutto con Fish), anche ai King Crimson, ai Van Der Graaf Generator e ai più attuali Flower Kings, Spock’s Beard, Kaipa e Tangent. Ma ci troviamo anche accenni di jazz e world music con l’utilizzo di strumenti atipici per il genere come la lap steel guitar e percussioni tribali di ogni sorta, a carico di Tim Irrgang. Gli altri componenti il gruppo sono il chitarrista Matt Williams, la bassista Shireen Khemiani e il batterista Monty Ruggiero. Una caratteristica degli Unitopia, nome che significa, come da loro spiegato nel libretto del CD, vivere insieme in armonia in un mondo idealmente perfetto, soprattutto nelle leggi e nelle condizioni sociali, è quello di avere uno spiccato gusto per le soluzioni melodiche. Già con l’iniziale breve e intimista One Day ci si rende conto di essere di fronte a un disco fuori dall’ordinario. Dopo la splendida introduzione ecco il brano cardine dell’album, i ventidue minuti del pezzo omonimo si aprono con richiami tribali e proseguono con tali e tante variazioni da lasciare a bocca aperta, in una suite dove prog, hard, jazz, pop, world, fusion, funky e perfino musica classica si fondono in un insieme strabiliante. A completare un trittico iniziale da urlo, da stendere chiunque, ecco la magnifica Angeliqua, anche qui inizio etno, con voce femminile (della brava ospite Kiki Celarik), percussioni e fiati, per poi passare a uno stacco hard rock che si evolve nella dolcezza del cantato (alla Fish), che esplode nella piacevolezza pop del magnifico ritornello. Uno spettacolo! Gli altri brani del primo dischetto, tutti belli, tutti da citare, sono la dolce, inizialmente pianistica, ma con uno splendido crescendo Here I Am, la strumentale Amelia’s Dream che sfocia nella sognante I Wish I Could Fly e, a chiudere il tutto, la più spigliata e ritmata Inside The Power. Molti i pezzi memorabili anche nel secondo CD. Anche Journey’s Friend, l’altra suite e brano di lungo minutaggio, passa con disinvoltura dal progressive al jazz fino all’hard rock, dove la voce di Mark Trueack arriva a somigliare a quella del conterraneo Brian Johnson degli AC/DC. Give And Take potrebbe uscire da un disco del Peter Gabriel solista, con in più un ritornello piacevolmente pop che non guasta affatto. Dopo una bella ballata come Love Never Ends, con la splendida voce dell’ospite Kiki Celarik, e la breve, pianistica e classicheggiante So Far Away, il finale è per il crescendo della coinvolgente 321, brano che mi ricorda alcune cose del Fish solista. Una nota di merito all’etichetta Inside Out, che vanta nel suo carnet parecchi gruppi molto interessanti, per l’abilità nello scovare splendidi prodotti in ogni angolo del pianeta. Prog fans, fate assolutamente vostro quest’album, mi ringrazierete.

 Gianfranco Vialetto

 

 

hot tuna

 

HOT TUNA

Steady As She Goes

2011 Red House CD

 

Se pensiamo che l’ultimo album in studio degli Hot Tuna è stato Pair A Dice Found del ‘90, preceduto da Hoppkorv del 1976, si può ritenere un evento l’uscita di Steady As She Goes. D’altra parte, bisogna ammettere che i due album citati non sono delle pietre miliari del rock californiano e che Burgers del 1972 resta il miglior disco in studio della band creata da Jorma Kaukonen e Jack Casady. In effetti, il duo proveniente dai Jefferson Airplane ha sempre dato il meglio dal vivo, a partire dal seminale omonimo esordio acustico del 1970, citando doverosamente almeno il doppio elettrico Double Dose, i due volumi Live At Sweetwater e Live In Japan del 1998. Cosa possiamo attenderci da un album in studio elettrico degli Hot Tuna? Non certo novità sconvolgenti e neppure la grinta di trent’anni fa, perchè gli anni passano e Kaukonen da tempo preferisce suonare acustico. Ma Steady As She Goes scorre veloce, ha qualche buona canzone nuova (nessuna memorabile) e cover arrangiate come sempre con gusto ed esperienza, è prodotto da un musicista di qualità come Larry Campbell negli studi di Levon Helm a Woodstock con un suono più roots che rock e conferma l’ottimo inserimento di Barry Mitterhoff (mandolino), da anni terzo membro della formazione completata dal nuovo batterista Skoota Warner. La chitarra di Jorma è meno aggressiva e psichedelica e il basso di Casady meno personale che in passato, ma l’alchimia tra i due musicisti è sempre notevole. Tra i brani spiccano la ballata Second Chances, un rock melodico con un riuscito impasto elettroacustico, l’energica A Little Faster, la grintosa Mourning Interrupted con un’elettrica pulsante, la delicata Smokerise Journey, il country-folk di Things That Might Have Been (un brano nelle corde del Kaukonen solista) e il conclusivo strumentale country-blues Vicksburg Stomp con il violino di Campbell. Da ricordare anche le due cover del Rev. Gary Davis, grande influenza del chitarrista, il rock-blues Children Of Zion e Mama Let Me Lay On You, profumata di roots country vicino al suono di The Band (sempre con il violino di Campbell). Peccato per un paio di tracce più banali, come Goodbye To The Blues e If This Is Love, che appesantiscono l’ascolto, abbassando la valutazione complessiva del disco.

 Paolo Baiotti

 

 

mayall

 

JOHN MAYALL

Howlin’ At The Moon

2011 Secret Records CD

 

Questo ennesimo disco dal vivo del padre del blues elettrico inglese comprende registrazioni dei primi anni ‘80 già apparse qualche anno fa nel doppio Rolling With The Blues di difficile reperibilità. Nel 1980 Mayall è in una fase non brillante della sua carriera: dopo alcuni album per la Abc la sua popolarità negli Usa, dove si era stabilito dieci anni prima, è declinata e anche musicalmente è in un momento di riflessione, lontano dalla creatività di dischi innovativi come Blues From Laurel Canyon o The Turning Point. I primi quattro brani sono tratti da un concerto a Huntington Beach del maggio ‘80 con James Quill Smith alla chitarra, Red Holloway al sax e una sezione ritmica formata da Kevin Mc Cormick e Soko Richardson, una band in grado di improvvisare con sapienza tra rock, blues e jazz. Si possono apprezzare versioni esplorative di Mexico City e Caught In The Middle decisamente interessanti e l’incisivo John Lee Boogie ispirato ovviamente dal suono di John Lee Hooker. Dopo lo scioglimento di questa band, nel 1982 Mayall decide di riformare i Bluesbreakers per un tour mondiale, richiamando alcuni musicisti con i quali aveva suonato negli anni ‘60. Rispondono all’appello il grande Mick Taylor (chitarra), John McVie (basso) poi sostituito da Steve Thompson e Colin Allen (batteria). Le altre sei tracce riguardano questo tour; quattro sono registrate negli States e due in Italia, a Roma e Lugo di Romagna. Emergency Boogie è guidata dall’armonica e dal piano del leader, con l’aggiunta degli arpeggi preziosi della  slide di Taylor prima dell’entrata della sezione ritmica, mentre Rolling With The Blues è uno slow di ottima qualità nel quale spiccano gli assoli del piano elettrico e della slide, indispensabili anche nel punteggiare il mid-tempo blues di Howlin’ Moon. Ed è ancora Taylor il protagonista assoluto di Sitting Here Alone, registrato a Roma, formidabile slow blues caratterizzato dalle grintose acrobazie della slide, affiancata dall’armonica di Mayall e della conclusiva The Stumble, strumentale di Freddie King perfetto per esibire le qualità di solista dell’ex chitarrista dei Rolling Stones. 

Paolo Baiotti      

     

 

early_seger[1]             

BOB SEGER

Early Seger vol. 1

2009 Hideout Records CD

 

Tra i cataloghi dei grandi artisti degli anni ‘70/ ‘80, nessuno è stato sfruttato meno di quello di Bob Seger. Una gestione assurda e inesistente, che ha avuto come conseguenza l’impossibilità di trovare (se non bootlegati) i dischi ante 1976, cioè precedenti a Beautiful Loser (e in questa scelta c’è sicuramente lo zampino dell’artista che non ha mai amato quei dischi e in parte li ha disconosciuti) e l’assenza di versioni rimasterizzate e potenziate di quelli successivi. Ora qualcosa si sta muovendo: Live Bullet, il mitico doppio che lo lanciò e Nine Tonight, altro doppio live, stanno uscendo in una nuova veste grafica con una bonus track ciascuno (che sforzo… brani già editi come b-side di singoli), mentre Seger un paio di anni fa ha pubblicato sul suo sito questa raccolta che sottointende ulteriori volumi… anche se per ora non ha avuto seguito. Ma anche qui le scelte sono piuttosto discutibili: dieci brani di cui cinque tratti dai primi album, registrati tra il 1971 e il 1973, un altro brano degli anni ‘70 con overdub recenti e quattro inediti degli anni ‘80 ritoccati in studio prima della pubblicazione. Quindi Early Seger è titolo in parte fuorviante e non riesco a capire la scelta di mischiare materiale di epoche diverse e in parte riregistrato. Per certi aspetti la parsimonia di Seger nel pubblicare estratti dall’archivio mi ricorda Bruce Springsteen di qualche anno fa. Detto questo, il contenuto musicale del dischetto è di ottima qualità. Le tracce già edite sono la cover di Midnight Rider degli Allman Brothers, più ritmata e incalzante, una splendida If I Were A Carpenter di Tim Hardin dall’intonazione gospel, una trascinante Get Out Of Denver di Chuck Berry (che diventerà un classico nella versione di Live Bullet), la ballata Someday (una delle prime grandi ballate dell’artista) e l’eccellente errebi U.M.C. (Upper Middle Class), mentre Long Time Comin’, tratta da Seven, è il brano modificato in studio con l’aggiunta di fiati e di una chitarra che lo rendono meno grezzo. Le tracce inedite sono la melanconica ballata Star Tonight registrata con la band dei Muscle Shoals Studios, la trascinante Wildfire (molto simile all’edita Roll Me Away) con Bill Payne al piano e la ballatona Days When The Rain Would Come, tratte dalle sessions di Like A Rock del 1984 (non avrebbero sfigurato sul disco) e l’incalzante errebi Gets Ya Pumpin’ del 1977, interpretato con voce negroide, con i fiati in primo piano. Brani interessanti che mettono in risalto la splendida voce dell’artista di Detroit, probabilmente non le sole outtake presenti nei suoi archivi, per non parlare del materiale live sicuramente disponibile. Speriamo che se ne accorgano e agiscano di conseguenza!     

 Paolo Baiotti

 

 

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JESSE SYKES & THE SWEET HEREAFTER

Marble Son

2011 Fargo Records CD

 

L’ombra dei Quicksilver Messenger Service aleggia sul recente quarto album di questa band americana. Il gruppo è stato formato intorno al 2000 dalla cantante e chitarrista Jesse Sykes (proveniente dagli Homini) e dal chitarrista Phil Wandscher (ex Whiskeytown). The Sweet Hereafter oggi comprendono anche il bassista Bill Herzog e il batterista Eric Eagle  L’esordio del 2002 con Reckless Burning è stato seguito da due altri dischi che hanno consentito al gruppo di crearsi un certo spazio nel circuito dell’alternative country con una musica intimista e rarefatta, caratterizzata dalla voce di Jesse, paragonata da qualche critico a Margo Timmins dei Cowboy Junkies. Il terzo album Like, Love, Lust & The Open Halls Of The Soul aveva mostrato una certa evoluzione verso un suono meno scarno, con una voce più aspra e una band più aggressiva, con arrangiamenti complessi e la presenza di fiati e altri strumenti, pur rimanendo in ambito folk-rock. Ma il recente Marble Son, pubblicato dopo una pausa di quattro anni, denota un deciso salto in avanti… anzi indietro, vista la forte influenza psichedelica che a tratti ci riporta alla San Francisco degli anni ‘60, quelli dei Quicksilver di John Cipollina e dei Grateful Dead del maestro Jerry Garcia, pur non ripudiando l’atmosfera e l’eleganza dei dischi precedenti e riuscendo a mantenere un ottimo equilibrio tra country, folk, chitarre distorte e riverberi, amalgamati dalla voce fascinosa della Sykes, registrata quasi in sottofondo rispetto agli strumenti. All’evoluzione del suono non è sicuramente estranea la crescente influenza di Wandscher che firma con Jesse i brani più psichedelici a partire dall’opener Hushed By Devotion, percorsa dagli abrasivi interventi del chitarrista, con fraseggi lisergici che si alternano alle parti vocali, cambi di ritmo e un finale strumentale da sballo. Marble Son è un esempio di psichedelia bucolica che rimanda ai primi Pink Floyd, mentre Ceiling’s High è una traccia quicksilveriana con un incisivo crescendo finale. Pleasuring The Divine ha una chitarra quasi heavy e fortemente lisergica che ci riporta alla Bay Area più creativa, come il formidabile strumentale Weight Of Cancer, che alterna una sezione più rilassata a un crescendo impetuoso. Infine, Your Own Kind amalgama alla perfezione la morbidezza inquietante del cantato con gli arpeggi incisivi della sezione strumentale che sboccia in una coda jammata. Gli altri brani si riallacciano al suono folk rock dei dischi precedenti, confermando tuttavia la coesione sorprendente del dischetto. Come To Mary è una ballata morbida e sognante, Servant Of Your Vision ha un cantato sussurrato e una chitarra essenziale, Birds Of Passerine è un elegante folk d’atmosfera e Wooden Roses un esempio riuscito di folk venato di psichedelia, come la morbida Be It Me Or Be It None, già pubblicata su un precedente EP. Uno degli album più interessanti di questo 2011.

Paolo Baiotti

 

 

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GRAZIANO ROMANI

My Name Is Tex

2011 Panini Comics CD

 

A un paio d’anni di distanza dall’esperimento con cui ha messo in musica le avventure dello Spirito con la scure, il mitico Zagor, Graziano Romani ci riprova cimentandosi con un altro protagonista incontrastato degli albi a fumetti di casa Bonelli. E stavolta le sue attenzioni si sono indirizzate a Tex Willer, il re delle nuvole parlanti Made in Italy. Il disco che ne è uscito, My Name Is Tex, pubblicato dalla Panini (quella delle figurine, non la mitica casa discografica hawaiiana), è un vero e proprio attestato d’affetto al ranger Tex Willer, una dozzina di canzoni ben assortite tra brani originali firmati da Romani e alcuni ripescaggi dalla tradizione, con un occhio di riguardo per certe cose che erano finite in colonne sonore di film che il vecchio Bonelli aveva sicuramente visto e rivisto, e teneva in considerazione mentre scriveva le sue storie. L’unico appunto che si può fare è che il piglio musicale che ha sempre caratterizzato le composizioni di Graziano Romani non mi sembra sposarsi troppo con il mondo di Tex, lo dico da consumato fruitore di musica e di fumetti di casa Bonelli, a parte forse la bella resa del classico Red River Valley, frutto di una bella ricerca filologica. Per il resto, c’è la certezza che il musicista emiliano abbia messo la propria vena creativa al servizio di testi ispirati a Tex e soci: con una dedizione davvero encomiabile, i suoni del disco sono quelli giusti, la tradizione musicale nordamericana è rivisitata con gusto, le chitarre dominano, siano esse dobro, acustiche, slide. Qua e là emergono, violini, mandolini, fisarmoniche, il tutto senza mai esagerare o sbavare. E alcuni brani sono riusciti davvero bene, grazie anche all’interpretazione vocale dell’autore, al solito grintosa e sempre, come gli si riconosce praticamente da sempre, nella scia di Springsteen. Tra le cose che emergono c’è di certo la title track, ma ancor meglio sono Mephisto dominata da una tastiera insinuante, la tristissima e intensa So Long Lilyth, una ballatona dedicata alla moglie navajo di Tex, la latineggiante (con accenni al miglior Willy De Ville e al Dylan di Romance In Durango) Showdown With El Muerto. E tra le cose eccelse del disco ci sono, in chiusura Four Brave Riders e Quien Sabe Hombre, altri due brani di notevole fattura.

 Paolo Crazy Carnevale

 

 

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NEIL YOUNG & INTERNATIONAL HARVESTERS

A Treasure

2011 Reprise 2011/ 2009 NYA PS

 Probabilmente, se Neil Young avesse consegnato un disco così a David Geffen, quando costui lo accusava di non fare dischi “alla Neil Young”, le cose sarebbero andate diversamente. A Treasure è il classico disco che Geffen e il pubblico si aspettavano dal loner canadese quando questo si alternava tra follie elettroniche, rockabilly e brutti dischi. Ma a Neil Young non si comanda, bisogna prenderlo così com’è, anche quando fa dischi poco ispirati, come gli ultimi di studio o come quelli degli anni ‘80. Questo ennesimo capitolo delle sue produzioni d’archivio non è male, non un tesoro come recita il titolo, ma almeno un tesoretto… Si tratta di incisioni dal vivo della metà degli anni ‘80, col gruppo con cui si esibì al Live Aid, quando il suo spettacolo oscillava tra un country addomesticato che avrebbe visto la propria risoluzione in Old Ways, reminiscenze dei fasti di Comes A Time (country meno addomesticato, per quanto inciso a Nashville) e sciabolate elettriche a cui Young non ha mai rinunciato. Con abbondanza di brani inediti, a partire dall’ottima Amber Jean dedicata alla figlia più piccola e dominata da un pianoforte ispiratissimo suonato dal grande Spooner Oldham. It Might Have Been proviene dal repertorio di Hank Williams e Flying On The Ground Is Wrong è un ripescaggio dai trascorsi di Young con i Buffalo Springfield. Suoni piacevoli, con l’immancabile armonica, la pedal steel di Ben Keith (scomparso lo scorso anno e produttore insieme a Young del materiale qui presentato) a dialogare con le varie chitarre del leader, sia che si tratti di Martin acustiche che della mitica Old Black. Trovano qui posto anche un paio di canzoni del trascurabile Re-Ac-Tor, che suonate dal vivo acquistano in spessore: Motor City e Southern Pacific. Tra gli inediti ci sono poi Your Fingers Do The Walking, il blues Soul Of A Woman, Nothing is Perfect (nota al pubblico per essere stata eseguita al Live Aid e trasmessa in mondovisione) e la finale ed elettrica Grey Ghosts che permette a Young di scatenarsi adeguatamente. Un disco forse non indispensabile, ma certamente piacevole. In attesa di altri “veri” tesori dagli archivi segreti del canadese.

 Paolo Crazy Carnevale

 

 

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THE STRANGLERS    

Suite XVI      

2006 Liberty/Emi CD

 

Gli Stranglers sono stati uno dei gruppi di punta del punk/new wave inglese storico. I loro primi album sono imprescindibili in qualsiasi discoteca degna di tal nome. Poi, diciamo da Dreamtime in avanti, una serie di dischi tra l’inutile e l’imbarazzante ne ha un tantino minato la reputazione. Nel 1990 arriva la defezione del chitarrista e cantante Hugh Cornwell, sostituito da John Ellis alla chitarra e da Paul Roberts al microfono, con i quali vengono incisi alcuni discreti lavori. Nel 2000 se ne va anche John Ellis, rimpiazzato da Baz Warne e nel 2006 esce anche Paul Roberts, così il gruppo torna alla sua classica formazione a quattro con, oltre all’ultimo arrivato Warne, i tre membri fondatori Jean Jacques Burnel al basso, Dave Greenfield alle tastiere e l’anziano batterista Jet Black. Baz Wourne, oltre a essere un ottimo vocalist, sembra aver portato una ventata d’aria fresca al gruppo e, nel 2006, vede la luce questo lavoro, l’ultimo a tutt’oggi, intitolato Suite XVI, gioco di parole con sweet sixteen, loro sedicesimo album in studio che, diciamolo subito, è un prodotto di tutto rispetto. Il basso pulsante di Burnel (leader con Greenfield) è in primo piano fin dall’iniziale Unbroken, che ci riporta ai fasti degli esordi. Molto bella anche la successiva Spectre Of Love, brano contrappuntato dalle fantastiche tastiere di Greenfield, che mi ricorda nel ritornello (avrò bevuto una pinta di troppo?) la meravigliosa e inarrivabile Under The Milky Way dei Church (una delle più belle canzoni di tutti gli anni ‘80), solo suonata al triplo della velocità e con attitudine punk. She’s Slipping Away rimanda dritti all’esordio Rattus Norvegicus, con le tastiere che copiano leggermente la loro Sometimes, il tutto riletto ovviamente in chiave moderna. Ascoltate anche il lavoro al basso in chiusura, bellissimo! E sempre con il quattro corde  in evidenza parte Summat Outanowt, new wave tra No More Heroes e Black & White. Si prosegue con un altro brano fantastico, la ballata Anything Can Happen,dove voce e keys mi ricordano alcune cose del Nick Cave di The Good Son, registrato in Brasile, con anche influenze di bossanova. See Me Coming mixa il punk del 1977 con la Madchester di Stone Roses e Inspiral Carpets e già nel 2004 aveva fatto da colonna sonora a un cartone animato giapponese ispirato al romanzo Il Conte di Montecristo. Bless You è l’altra ballata dell’album, autentico capolavoro un po’ fuori dai consueti canoni degli Stranglers, con un finale quasi blues e un Baz Warne ispiratissimo, proprio l’uomo giusto per il ruolo lasciato vacante da Cornwell. A Soldier’s Diary è puro punk alla Stranglers (ah! Grande Greenfield), mentre con Barbara si sconfina nel pop, con una canzoncina piacevolissima e per niente banale. E a questo punto arriva una sorpresa, una cosa che non ci si sarebbe proprio aspettati. I nostri uomini in nero (dal titolo The Men In Black, vecchio album del 1981) se ne escono con I Hate You, un country che potrebbe essere stato interpretato benissimo dall’Uomo in Nero per eccellenza, Johnny Cash. La chiusura è affidata a Relentless, epica cavalcata con chitarra western su una ritmica e un cantato decisamente berlinesi. Grande congedo. Vabbè, le ho citate proprio tutte in una specie di lista della spesa ma, se non si fosse capito, la band è proprio in forma e non c’è un solo brano da scartare. Una gradita sorpresa; bravi davvero, anche perché  pensavo di averli persi per sempre. Invece, gli Stranglers sono tornati con un ottimo album, e non conceder loro una possibilità di ascolto, solo perché considerati ormai sorpassati o bolliti, sarebbe oltremodo sciocco e ingeneroso.

Gianfranco Vialetto

 

 

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VARIOUS ARTISTS

Bridge School Benefit 25th Anniversary Edition

2011 Reprise 2CD/3DVD

 

Bravo Mr. Young. Dopo averci tenuti col fiato sospeso per anni e con la voglia di ascoltare qualcosa di consistente dai concerti di beneficenza che annualmente organizza per sostenere il progetto benefico che lui e la moglie hanno fondato, finalmente ci concede qualcosa. Certo c’era stato un CD negli anni ‘90, e poi aveva messo su i-tunes una lunga serie di brani, ma per chi ama il supporto e lo preferisce alla musica virtuale, questo è il primo prodotto realmente soddisfacente.  Con copertina totalmente identica, con prezzi davvero ottimi, la Reprise ha pubblicato un doppio compact disc e un triplo DVD, con una bella selezione di brani che devono la propria unicità al formato quasi unplugged messo in scena per l’occasione. I due prodotti non coincidono quanto a contenuto, o meglio, coincidono solo in parte. Per quanto riguarda l’audio è sempre notevole, bei suoni acustici, performer per lo più degni di nota, dai vecchi dinosauri alle nuove leve, nessuno escluso. Qualcuno si adatta meno al formato acustico (i Metallica, ad esempio) altri si scoprono invece notevoli in questa veste (Who e Sonic Youth), ma tutti fanno la loro parte, qualcuno è decisamente fuori contesto (il vecchio Tony Bennett nella versione CD oppure il vituperabile Billy Idol in quella video) ma nell’insieme saltano fuori delle belle cose. Neil Young, padrone di casa è presente con due brani per conto proprio, una spettacolare Love And Only Love sul compact e Crime In The City sul DVD, nella versione audio è anche con CSNY alle prese con una memorabile Deja Vu e su tutti e due i formati accompagna i REM nel pezzo forte del disco, una Country Feedback da urlo, e si fa vedere con Brian Wilson nell’esecuzione di Surfin’ USA. Bruce Springsteen apre in tutti e due i supporti con una solitaria Born In The USA, ci sono poi Pearl Jam, Dave Matthews Band, No Doubt, Gillian Welch, Sarah MacLachlan, Thom Yorke dei Radiohead che omaggia Young con una intensa After The Goldrush. Tra le cose migliori abbiamo una Patti Smith da antologia con People Have The Power, una versione acustica di Heroes con un insolito David Bowie, Nils Lofgren, un Dylan d’annata con Girl From The North Country accompagnato da G.E. Smith, Devendra Banhart con Bert Jansch come ospite (ma lo si vede appena), Paul McCartney, l’immensa Bonnie Raitt, i Pretenders con quartetto d’archi, James Taylor in formato musica da camera, uno spettacolare Tom Waits e molti altri. Le riprese video non sono forse il top, ma probabilmente erano state effettuate per uso non commerciale, in alcuni casi comunque sono più che apprezzabili. Nella confezione DVD, il terzo dischetto è occupato da un documentario sul Bridge Benefit.

Paolo Crazy Carnevale

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/12

di admin

5 aprile 2011

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CHRIS HILLMAN & HERB PEDERSEN

At Edward’s Barn

2010 Rounder CD

 

Incredibile! Un disco dal vivo di Chris Hillman. Incredibile perché, nella sua eccezionalmente lunga e prolifica carriera, è uno dei rari dischi live di questo artista, se non sbaglio solo il secondo pubblicato in tempo reale (e comunque anche i live d’archivio sono solo un paio). Nessun disco dal vivo con i Byrds, nessuno con i Manassas, la SHF Band, la Desert Rose Band o come solista assoluto. A conti fatti c’è solo il mitico Last Of The Red Hot Burritos a far compagnia a questo scintillante, bellissimo concerto acustico realizzato col fido pard Herb Pedersen. Il disco è stato registrato verso la fine del 2009 in un fienile dove con cadenza regolare i nostri si esibiscono per beneficenza. L’acustica particolare della sede scelta, l’informalità e l’intimità della performance ne fanno una perla di rara bellezza, sia per chi ama le atmosfere acustiche che per chi apprezza la formidabile miscela vocale che Herb e Chris sanno allestire quando le loro ugole si uniscono (e ormai sono decenni che la cosa accade). Come se non bastasse, hanno scelto per farsi accompagnare un gruppo di musicisti molto dotati che creano un sound ricco e grondante di umori unici. Ci sono infatti il violino di David Mansfield (già al fianco di Hillman negli anni ‘80 per una serie di registrazioni country- gospel), il bassista Bill Bryson (a lungo collaboratore del duo) e il chitarrista Larry Park. I due compadres oltre alle voci ci mettono il banjo (Herb) e il mandolino (Chris), con un risultato che le parole stentano a definire. Il concerto è un viaggio piacevolissimo attraverso tanti anni di musica e di gruppi e concede anche un paio di brani nuovi che in questi frangenti non guastano mai, come a dire che i nostri non sono solo due pezzi da museo. E difatti, la particolare ritrosia di Hillman verso il materiale d’archivio conferma questa dichiarazione. Chris Hillman sembra, con questo disco, essere ritornato definitivamente al mandolino, il suo strumento originario, quello con cui dalle parti di San Diego suonava in timidi gruppi bluegrass prima di imbracciare il basso e cominciare a volare con i Byrds. Il disco si apre con il gospel di Going Up Home per poi citare la Desert Rose Band attraverso Love Reunited. La versione di Turn Turn Turn è puro spettacolo così come gli altri brani byrdsiani, Have You Seen Her Face (il primo firmato da Chris per supplire alla fuoriuscita di Gene Clark dal gruppo) e l’incredibile versione acustica di Eight Miles High, che dal vivo è anche meglio di quella già spettacolare incisa in studio qualche anno fa. Dal repertorio dei Burritos ci sono Together Again, Sin City e un’azzeccata Wheels. Tra gli inediti si fa apprezzare particolarmente Tu Cancion una canzone di ispirazione tex-mex ma senza fisarmoniche composta da Hillman, probabilmente con in testa il Dylan di To Ramona. La conclusione del disco (quindici brani in tutto) è affidata a Wait A Minute cantata da Pedersen, e alla struggente Heaven’s Lullabye.

 Paolo Crazy Carnevale

 

 

 

Johnnie Selfish and the Worried Men Band

 

JOHNNIE SELFISH AND THE WORRIED MEN BAND

Committed

2010 Autoproduzione CD

 

Un disco realizzato da veri amanti della musica americana. Dagli strumenti, alle sonorità, Johnnie Selfish e i suoi propongono un ritratto del folk americano appassionato, ma molto, forse troppo tecnico,  puntuale nell’esecuzione e senza una nota in più o in meno di quanto sia richiesto. Questo è certo un pregio quando si suona un genere popolare, il saper essere allo stesso tempo buoni strumentisti e arrangiatori oculati. Tuttavia alcune pecche sono difficilmente perdonabili a dei musicisti di livello: voler fare una canzone d’autore, nel senso in cui è intesa in Italia, rifacendosi al mondo del folk americano può essere pericoloso e dare luogo a fraintendimenti non sempre risolvibili. C’è qualcosa di sbagliato nell’immaginarsi Woody Guthrie cantare una Song For The Working Class come quella che compare in apertura del disco, è un accostamento che va al di là dei limiti del folk americano, per sorvolare poi su svarioni linguistici propri dell’italiano come l’allitterazione “lines and lanes” che sono quasi cacofonici in altre lingue. Certo, è già una buona prova saper addentare con originalità un genere rigido e chiuso nei suoi schemi fissi, nelle sue armonie ricorrenti, e veramente il lato strumentistico non delude mai; molto pregevole anche lo strumentale Self Portrait. Tuttavia ciò che il disco non trasmette è il lato, per così dire, ruspante della musica, quell’eterna, ossessiva ripetitività dei folk singer, nonostante la quale sono nati brani di struggente poesia, soppiantati qui da immagini altamente prosastiche, poco più di una pallida imitazione. A volte si ha l’impressione che il testo non sia che un mero riempitivo per una musica che suoni il più americano possibile, quasi un esercizio di stile.

Eugenio Goria

 

 

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NEIL YOUNG

Le Noise

2010 Repris CD

 

Della serie dischi inutili. Dispiace dirlo di uno dei propri beniamini, ma questo ennesimo CD firmato dal canadese per eccellenza mi ha deluso. Così come mi avevano deluso i suoi predecessori. Non so se sia perché Young sta riversando tutte le energie nei suoi archivi o se sia proprio perché la vena creativa si è momentaneamente impoverita, ma non mi erano piaciuti né Chrome Dreams II, né Fork In The Road. Per carità qualche brano buono lo si trovava anche, così come lo si trova in questo nuovo CD, ma la sensazione era, ed è, che la bontà fosse dovuta al fatto che tutto il resto era davvero brutto. A partire dalla grafica, ma Young ha spesso avuto il gusto dell’orrido in questo senso, questi dischi non fanno davvero onore a buona parte del passato discografico di Neil Young. E sì che l’attesa era davvero spropositata, da quando si era saputo che a produrre il tutto c’era nientepopodimenoche il signor Lanois, un altro canadese. Più che di suoni in questo disco sentiamo dei feedback, ma non occorreva scomodare il già produttore di U2, Bob Dylan, Robbie Robertson: Young di feedback chitarristici ce ne aveva già regalati molti in passato, senza dover propinarci questa nuova creazione. Quello che emerge dagli ascolti, ripetuti, è la totale mancanza d’ispirazione, di buone canzoni. C’è anche la ripresa di un vecchio brano, pare risalente al 1976, ma sicuramente eseguito più volte nel tour del 1992, intitolato Hitchhiker, una buona canzone, ma vestita con un arrangiamento che non va giù. Un paio di brani acustici o semiacustici sembrano eccellere tra gli altri, otto in tutto per meno di quaranta minuti, Someone’s Gonna Rescue You e Peaceful Valley Boulevard dove si cerca di rifare il verso a certe cose di On The Beach (senza riuscirci), ma, lo ripeto è un’eccellenza fatua, che emerge per colpa della pochezza del resto. Quantomeno, stavolta ci è stata risparmiata l’edizione col DVD allegato (che ultimamente Young non aveva mai fatto mancare ai suoi fan) anche se per la verità, su Youtube c’è un video dedicato alla realizzazione di questo Le Noise.

 Paolo Crazy Carnevale

 

 

rufus party

RUFUS PARTY

Civilization & Wilderness

2007 Bluebout CD

 

 

Un bel lavoro come non se ne vedono spesso.  I Rufus Party sono una band di Reggio Emilia che ha scelto per il proprio lavoro, prodotto nel 2007, una veste semplice e casalinga: una grafica essenziale, una registrazione su bobinone analogico: roba d’altri tempi. Tuttavia, anche se in certi ambienti questo entusiasmo tutto amatoriale può non essere ben visto, il prodotto musicale è sicuramente di alta qualità, e merita il rispetto che si deve a un bel disco. Civilization & Wilderness è, come lo definisce il chitarrista Parmiggiani, “una specie di concept album registrato con amore, come si faceva una volta”, e rappresenta un’originale rielaborazione del rock blues britannico e americano. Forte è in molti brani l’influenza di Jagger e Richards, e a volte lo spirito di emulazione prevale sulla creatività, ma non mancano momenti anche di grande personalità che fanno presto dimenticare le piccole sbavature che si incontrano qua e là. Ad esempio le due parti in cui è divisa Walk Of Fame rappresentano un tentativo di sperimentazione davvero azzeccato e significativo, che mescola un riff blues suonato dall’armonica con sonorità innovative, a metà strada tra l’indie e il rock. Quanto alla voce, sono necessarie due parole in più: quasi sempre il cantante è in buona sintonia con l’accompagnamento e con la natura delle canzoni che interpreta, è perfetto in un brano come la poderosa e travolgente Mr. Shuffle, lascia però a bocca asciutta su un lento come Girl On A Pedestal, e l’ascoltatore forse vorrebbe un po’di più in un pezzo peraltro molto bello. L’ascolto prosegue tra suggestioni che vanno dagli anni Sessanta americani al rock contemporaneo, attraverso riff quasi sempre puntuali e incisivi, con una ricchezza di timbriche e di strumenti che rende il disco estremamente particolare: non ci sono molti gruppi che sanno utilizzare a ragion veduta un organo hammond.  Un bel lavoro dunque, con pregi e difetti, ma piacevole all’ascolto e ricco di buone idee.

Eugenio Goria

 

 

soft machine legacy

SOFT MACHINE LEGACY

Live Adventures

2010 Moonjune CD

 

 

Nonostante Hugh Hopper ed Elton Dean siano passati recentemente a miglior vita, la spinoff band che si dedica a proseguire i fasti dei Soft Machine continua la propria strada con onore e perseveranza. Questo live, fresco di stampa, ci propone il sunto di due serate tenute nell’ottobre dello scorso anno in Austria e Germania. Il gruppo, va detto per i puristi e i pignoli, non comprende alcun membro originale del gruppo, ma ha sempre avuto l’imprimatur degli ex, e il buon gusto di non farsi chiamare semplicemente Soft Machine è cosa non da poco. Per sostituire Hopper la formazione britannica ha seguito una logica inappuntabile ed ecco che ora le vibranti note di basso elettrico sono a discrezione di Roy Babbington, che negli anni ‘70 aveva militato nel gruppo per un breve periodo. Così sono sempre tre i componenti del quartetto attuale che hanno nel DNA la musica dei Soft Machine: Babbington, il batterista John Marshall e il chitarrista John Etheridge, che è un po’ il leader del gruppo odierno. Il quarto membro è il giovane Theo Travis, oboe e sassofono, che vanta un pedigree stellare, annoverando collaborazioni con Dick Heckstall-Smith, Gong, i fratelli Sinclair e Robert Fripp. Il disco è molto ben registrato e ci mostra un gruppo ben lontano dal fare della semplice musica per nostalgici, proponendo a fianco di qualche titolo firmato dai vecchi Soft Machine (Gesolreut di Ratledge e Facelift di Hopper) nuove composizioni di Etheridge, Travis e di Karl Jenkins, altro personaggio legato alle due formazioni. Si va dalle atmosfere molto progressive di Song Of Aeolus (con la chitarra ispirata di Etheridge a dominare) e The Nodder agli sperimentalismi dell’iniziale Has Riff II (rielaborazione di gruppo di un tema originale di Mike Ratledge), passando per il jazz rock di Grapehound e In The Back Room (con gran lavoro del sassofonista) e il free del medley The Relegation Of Pluto/Transit.

 Paolo Crazy Carnevale

 

 

thee jones bones

THEE JONES BONES

Electric Babyland

2010 Il verso del cinghiale CD

 

 

Nella scia dei gruppi a base di sola chitarra e batteria (White Stripes, Black Keys tanto per dire i più affermati) si inserisce questa curiosa formazione bresciana. Per la verità ci sono altri strumenti in questo disco, ma il gruppo resta comunque un duo, formato da Luca Ducoli e Michele Federici. Se la copertina e il titolo (entrambi da premio!) fanno pensare immancabilmente a Hendrix, l’ascolto ci porta decisamente altrove, le nove tracce di questo CD sono tutto tranne un riferimento al mancino di Seattle. Una parola può riassumere quello che i Thee Jones Bones suonano: rock’n’roll. Scontato? No, direi anzi molto fruibile, grezzo, ribelle, simpatico, in tutte le sue sfaccettature, il rockabilly delle origini, con tanto di riferimenti country e bluegrass, una buona dose di punk, passando, distrattamente, per Lou Reed con il brano Nico’s Banana. Il tutto shakerato col risultato di un prodotto fresco e originale: banjo, chitarre slide, ritmica incalzante: oltre al brano citato si fanno apprezzare particolarmente Cowbaby, Teachin’ Nurse e l’iniziale Holly Holly.

Paolo Crazy Carnevale

 

 

dire straits

 

DIRE STRAITS

Sultans Of Swing The Very Best

2010 Vertigo 2CD + DVD

 

La band si forma a Newcastle nel 1977 e poi si trasferisce a Londra, con David  Knopfler, il fratello  Mark, e gli amici John Illsey, basso e Pick Withers, drums. In piena era punk i Dire Straits  (letteralmente terribili ristrettezze) riuscirono a creare una sonorità unica, unendo il classico rock & roll a influenze country, jazz, swing e blues, grazie anche alla loro notevole capacità strumentale e compositiva che li fece diventare in poco tempo famosi in tutto il mondo con i due primi albums, Dire Straits e Communiquè, piccoli gioielli del genere e con singoli che ormai fanno parte della storia della musica rock, da Tunnel Of Love a Romeo And Juliet, da Local Hero a Sultan Of Swing, solo per citarne alcuni. Questa raccolta fu pubblicata dalla Vertigo nel 1998 come album singolo con sedici brani, ovviamente i più famosi della band oltre a due tracce live, Your Latest Trick e Local Hero/ Wild Theme. Visto il successo fu ripubblicata in doppio CD, con il disco originale sul primo CD e sul secondo un concerto inedito registrato a Londra nel 1996 durante il Golden Heart Tour, contenente sette brani e con versioni strepitose di Romeo And Juliet, Sultan Of Swing e Brothers In Arms. La ultimissima versione è questo lussuoso cofanetto con booklet allegato, a prezzo veramente contenuto, con i due CD già citati e uno stupendo DVD contenente sedici canzoni  dal vivo tratte da vari concerti con brani lunghi e dilatati, con grande spazio ai solismo dei musicisti e con Mark in grande spolvero con la sua chitarra e con la sua voce roca e personalissima:Sultan Of Swing, Romeo And Juliet, Tunnel Of Love, Calling Elvis, Love Over Gold e Heavy Fuel ci faranno sempre sognare.

Daniele Ghisoni

 

 

john hammond

JOHN HAMMOND

Rough & Tough

2009 Chesky Records CD

 

 

Quasi cinquant’anni di carriera, forse il più grande interprete ed esecutore bianco della musica blues di tutti i tempi, riesce ancora a stupirci con un nuovo album, grazie a una voce calda e coinvolgente, un tocco chitarristico unico unito alle sonorità stupende che riesce a trarre dalla sua armonica. Con un Palmares di un Grammy Award e un WH. Handy Award, oltre a diverse nomination, il 26  giugno di quest’anno ha suonato il suo concerto numero 4.000. Una produzione discografica enorme, oltre trenta album, iniziata nel 1962 ma con pochissimi lavori non all’altezza. Soprattutto interprete, perché John ha scritto pochissimo, delle canzoni di tutti i grandi del blues, da Muddy Waters , Chuck Berry, Jimmy Reed, Son House, Sonny Boy Williamson, fino a Howlin’ Wolf ,  solo per citarne alcuni, ma anche un brano già ascoltato migliaia di volte nella sua esecuzione riesce a dare ancora nuove sensazioni che ti coinvolgono in modo unico. Quindici brani, classici senza tempo, prodotti da G.Love , nei quali John si fa aiutare da Stephen Hodges, drums, Marty Baloou, bass e Bruce Katz, keys e suona acoustic and 12 strings guitar  National steel e armonica. Il disco è stato registrato  nel novembre del 2008 in NYC, alla St. Peter Episcopal Church. Le canzoni, quasi tutte già interpretate da John, si susseguono senza sosta, una più bella dell’altra:My Mind Is Ramblin del suo idolo Howlin’ Wolf, She’s Though, Chattanuga  Choo Choo, il classico di Glen Miller davvero stupendo, Statesboro Blues di Willie McTell, I Can Tell di Bo Diddley, No Place To Go, It Hurts Me Too di Elmore James, I Can’t Be Satisfied di Muddy Waters, solo per citarne alcune. Notevole il booklett allegato con notizie e foto per un disco da non perdere.

Daniele Ghisoni

 

 

kiss

KISS

Ikons – 2009 Mercury Box 4CD

Sonic Boom – 2009 Mercury Box 2CD + DVD

 

Ace Frehley, il chitarrista storico dei Kiss, ha appena pubblicato Anomaly, un disco in gestazione dagli anni ’90, poi rimandato per le sue vicissitudini personali, l’abbandono e il rientro nella band  in varie riprese, con alcuni brani scritti e incisi recentemente, veramente un bel dischetto degno di un grande musicista. Ma ai fan della band consiglio soprattutto  queste due chicche: Ikons è un cofanetto con oltre sessanta brani, in una bellissima confezione con un libretto con la storia della band, foto inedite e altre delizie. Le note si aprono con “Sono quattro, quattro volti, quattro eroi, quattro Icone”. Ogni CD è dedicato a un componente del gruppo e raccoglie le canzoni più belle e famose dallo stesso scritte e cantate. Di Gene Simmons, “The Demon”, troviamo tra le altre Deuce, Lager Than Life e Radioactive. Di Paul Stanley, “The Star Child” ricordo Detroit Rock City, Rock Bottom , Strutter e Mr. Speed. Di Ace Frehely, “Spaceman” possiamo ascoltare Talk To Me, Dark Light e Snow Blind. Infine, Peter Criss “The Cat Man” ci offre le stupende Beth, Black Diamond e Getaway.  Consigliato anche per il prezzo contenutissimo.  Sonic Boom è invece il nuovo album della band pubblicato in concomitanza col nuovo tour che porterà i Kiss in tutto il mondo, il primo in studio dal 1998. L’ascolto ha tolto ogni dubbio sulla utilità della operazione: un buon album di rock and roll, undici brani nuovi composti da Simmons e Stanley, alcuni col chitarrista Tommy Thayer. I mie preferiti sono Russian Roulette, Say Yeah e Hot And Cold,  ma anche gli altri non sono  davvero male. Questo box è una edizione limitata, in confezione deluxe in ogni senso, contenente anche un CD antologico e un DVD con un concerto inedito registrato al River Plate Stadium di Buenos Aires, il 9 Aprile del 2010.

Daniele Ghisoni

 

 

ozzy

OZZY OSBOURNE

Scream

2010 Sony Music CD

 

 

Decimo album in studio per l’ex leader dei Black Sabbath che a sessant’anni compiuti continua a stupire dandoci  lavori di ottima fattura, come il precedente Black Rain, che ha ottenuto ottimi riscontri di vendite, supportati da tour mondiali che confermano lo stato di grazia del “Prince Of Darkness”, sempre vivo e vegeto malgrado decenni di abusi in ogni senso. Si tratta anche del primo album senza il grande chitarrista Zakk Wylde, con lui dalla incisione di No Rest Of The Wicked nel  1998. Il disco è uscito in Europa l’11 Giugno 2010, con la produzione del fido Kevin Churko e con i trainanti singoli Let Me Hear Your Scream e Let It Die ha subito raggiunto tutte le top ten mondiali, grazie a concerti che hanno confermato l’incredibile carisma dal vivo del Mad Man e della sua band. Inciso ai Bunker Sudios di Los Angeles, ci offre undici nuovi brani composti da Ozzy e Churko, e quattro col tastierista Adam Wakeman.  Il resto della band è formato dal batterista di origine greca Tommy Clufetos (ex Alice Cooper e Ted Nugent) , dal bassista Rob Nicholson e dal chitarrista Gus G, ex Firewind, non geniale come Zakk (un vero mito) ma graffiante e con un suono potente e aggressivo. Let It Die e Let Me Hear Your Scream sono stupende, suono grintoso e coinvolgente, ma non sono da meno le durissime Soul Sucker e Crucify, o le ballate elettro/ acustiche Time e Life Won‘t Wait, con la voce di Ozzy sempre stupenda e accattivante. Grande e basta , mai nostalgico! Al recente Ozz Festival di Boston ha avuto una interminabile standing ovation dai suoi fan.

 Daniele Ghisoni 

 

 

davies

RAY DAVIES & The Coral Crouch End Festival Chorus

The Kinks Choral

2009 Decca CD

 

Solo un genio come Ray Davies poteva pensare a riproporre le più famose canzoni dei Kinks facendosi accompagnare da un coro liturgico, riuscendo in modo eccellente ad amalgamare brani seminali con sonorità così diverse, unendo il sacro al profano in modo unico.Il risultato è un disco davvero unico per la sua bellezza nel quale Ray canta facendosi accompagnare da una rock band composta da Billy Shamely e Milton McDonald, guitars, Dick Nolan, bass, Toby Baron, drums e Gunnar Frick e Ian Gibbons, keys. Il coro è originario di Crouch End, un sobborgo vicino a quello di Mushwell Hill, dove Ray è cresciuto, ed è diretto da David Temple. Ray li aveva già usati nella   incisione di Other People‘s Lives e in alcune sue esibizioni dal vivo. Dieci brani stupendi , alcuni  tratti da Village Green Preservation Society (disco stupendo  recentemente ristampato come triplo CD in edizione deluxe) ma tutti in questa versione col coro, che si amalgama perfettamente alla strumentazione elettrica, assumono una prospettiva musicale diversa, mantenendo intatto il nucleo originale della melodia. Le eterne You Really Go Me e All Day And All Of The Night, dal riff chitarristico unico e irripetibile, con il coro assumono un alone di magia, come le melodiche Days,   See My Friend, Shangri -La e Celluloid Heroes (queste ultime due  sono tra le composizioni di Davies quelle che adoro) che continuano sempre a incantare. Anche le famosissime Waterloo Sunset e Victoria con questo arrangiamento sembrano avere una immediatezza nuova e avvolgente.  Notevole anche Working Man Cafè, tratta dal suo ultimo, omonimo album, che fa la sua bella figura in mezzo a tanti classici. Un cenno a parte merita il medley di Villane Green, con Big Sky, Picture Book, Johnny Thunder, Do You Remember Walter? e ovviamente la title track che coinvolgono in modo sorprendente . Un grande disco che non mi stanco mai di riascoltare! Una volta i dischi preferiti che riascoltavi in continuazione si consumavano, succederà anche per questo CD ? 

Daniele Ghisoni