Archivio di ottobre 2017

KENNEDY ADMINISTRATION – Kennedy Administration

di Paolo Crazy Carnevale

28 ottobre 2017

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KENNEDY ADMINISTRATION – Kennedy Administration (Leopard 2017)

Dietro la curiosa denominazione a cui questo dischetto è attribuito, si celano un paio di soggetti piuttosto interessanti come la vocalist Kennedy (non sono dati a sapersi ulteriori dettagli) ed il polistrumentista e compositore ceco Ondre J Pivec (nato Ondrej Pivec): il disco patinatissimo come la sua copertina offre una quarantina di minuti di black music raffinata (anche troppo per i gusti di chi scrive) a cavallo tra pop, lounge, hip hop e un’ombra, appena appena, di funk.

Non si discutono la bravura della cantante né il genio del suo socio che, fin dall’apprezzabile prima traccia, It’s Over Now, si cimentano con un repertorio che ricorda le cose più commerciali di Stevie Wonder se non addirittura certe produzioni di Michael Jackson, complice la vocalità della signora Kennedy, una ragazzona dalla pelle nera e dal look molto trendy.

Da un punto di vista stilistico il disco può piacere o non piacere, la voce di Kennedy ha le sfumature giuste e Pivec è indubbiamente un portento ma non è possibile esprimere un giudizio positivo sul largo uso – soprattutto in una musica in cui il groove è tutto – di campionamenti e diavolerie elettroniche. E difatti i momenti più belli e convincenti sono quelli in cui le tastiere – non quelle campionate o campionanti – si fanno sentire con prepotenza e quelli in cui si possono apprezzare gli inserimenti strumentali di ospiti occasionali, su tutti l’armonica di Gregoire Maret in Don’t Forget To Smile, che sembra uscita dal repertorio di Stevie Wonder.

Quando invece avanzano le batterie programmate, il basso sintetizzato e altre porcherie il disco scade e a poco giova la voce della cantante che più che pantera graffiante (come si addirebbe a questa musica) sembra preferire certe pose da gatta sorniona (per esempio in un brano come Finally).

E a poco giova anche il tirare in ballo un paio di brani d’autori blasonati come l’Al Green di Let’s Stay Together o il Billy Preston di Will It Go Round In Circles, che comunque resta una delle cose più azzeccate dell’intero prodotto insieme alla ballata Victory Song; il disco non fa fatica a lasciarsi ascoltare, magari funziona come musica da sottofondo, ma fatica davvero a lasciare il segno. Peccato.

A Nerviano la seconda edizione della Fiera del Disco

di admin

28 ottobre 2017

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Si svolgerà il prossimo 5 novembre la seconda edizione della Fiera del Disco di Nerviano (MI), presso il pub “La meccanica”, in Via Cesare Battisti, 4.

come sempre, ingresso e parcheggio gratuiti, e tonnellate di dischi in vinile, CD e DVD.
l’orario è dalle 10 alle 19

Facebook: Rock Paradise Fiera del Disco

per maggiori informazioni: 3384273051

ANDRE CYMONE – 1969

di Paolo Crazy Carnevale

24 ottobre 2017

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ANDRE CYMONE – 1969 (Leopard 2017/ IRD)

L’idea di base di questo disco è abbastanza chiara, fin dall’inizio: i primi secondi del disco i fanno ascoltare la manopola di un sintonizzatore che gira alla ricerca della musica giusta. E la musica giusta per Andre Cymone, classe 1958, è quella che undicenne ascoltava alla radio, quella di quell’anno immenso che fu il 1969, non a caso titolo del disco: musica ricca di contenuti, di idee e di messaggi politici.

Attenzione però: 1969 non suona assolutamente come un disco datato di classic rock, tutt’altro, è un disco molto moderno, ricco di idee e di influenze, magari ripescate da quei giorni felici così lontani, ma proposte con uno spirito attualissimo.

Ma chi è Andre Cymone vi chiederete a questo punto? Nato come Andre Simon Anderson, l’artista protagonista di questo disco è un produttore e polistrumentista legato fin dalla gioventù a Prince nel cui gruppo pre-Revolution ha ricoperto il ruolo di bassista. Ma se la carriera di Cymone è costellata di lavori e produzioni all’insegna di una black music dalle tinte fortemente orientate verso soul e funk, questo 1969 può essere considerato un disco rock a tutto tondo, un rock nero, d’accordo, che ricorda alla lontana le sonorità dell’Arthur Lee post sbornia psichedelica.

L’idea di base di cui sopra è sviluppata nel disco in maniera molto decisa e pur non ricordando dichiaratamente nessun musicista di quell’epoca, qua e là in 1969 fanno capolino tutte le influenze possibili ed immaginabili, abilmente mescolate da Cymone che oltre ad occuparsi della voce, della chitarra solista e del basso è al timone anche come produttore, supportato da un esiguo manipolo di accompagnatori, per lo più chitarristi, che lo assecondano in questo suo concept.

Spunti hendrixiani, riff alla Stones (sia quelli dichiaratamente rock’n’roll, sia quelli di fine settanta quando qua e là strizzavano l’occhio alla disco), brani intimi guidati dalla chitarra acustica, suonata però con effetti moderni e soluzioni sonore che non possono non richiamare il vecchio compagno d’armi di Cymone, a cui il disco è dedicato.

Se le canzoni iniziali sono accattivanti e piacevoli, è con la terza traccia, California Way, d’ispirazione dichiaratamente hendrixiana come recitano le note di copertina, è un tripudio chitarristico che prende dalle prime note e piace un sacco.
Buona anche Already There, ma meglio ancora è Breathin’ Out Breathin’ In in cui – dopo un’introduzione vagamente psycho – echeggiano quelle atmosfere soul disco di cui sopra. It’s Rock’n’Roll, Man aperta e chiusa da applausi posticci è invece tutta un riff che gioca tra blues e rock. Point And Click si apre con una chitarra distorta da paura, poi l’atmosfera si fa più rarefatta e il brano si tinge di pop. Piace di più la traccia seguente, l’acustica Black Lives Matter tutta ad appannaggio di voce e chitarra che vestono alla perfezione una composizione vincente, uno dei punti forti del disco. Bella la successiva It Ain’t Much, mentre Black Man In America ( a cui prendono parte anche Mic Murphy ed il batterista della band di Prince in cui Cymone militava) e in particolare la title track (acustica) – che dovrebbero essere tra i brani di punta – non mi convincono del tutto e alla lunga risultano ripetitive. Il finale è affidato alla devastante Is That You, in cui tornano prepotentemente gli echi hendrixiani già apprezzati in California Way.

TOMMY CASTRO AND THE PAINKILLERS – Stompin’ Ground

di Paolo Crazy Carnevale

18 ottobre 2017

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TOMMY CASTRO AND THE PAINKILLERS – Stompin’ Ground (Alligator 2017)

Nativo della Bay Area, Tommy Castro calca le scene del blues elettrico da oltre venticinque anni: è partito dalla gavetta, secondo le migliori tradizioni, suonando in locali storici e costruendosi poco a poco una fama che lo ha portato dalle sconnesse assi del palco del Saloon – un angusto quanto imprescindibile tempio del blues di San Francisco – agli onori del S.F. Blues Festival che gli hanno spalancato l’accesso ad un seguito più diffuso a livello nazionale e successivamente mondiale.
Il primo disco era stato pubblicato a nome Tommy Castro Band proprio con l’aiuto della piccola label del Saloon, poi Castro era approdato in casa Blind Pig pubblicando diversi dischi, ora a pubblicare le sue produzioni è la titolatissima Alligator, una delle case principali per quanto riguarda il blues.

Questo nuovo, recentissimo Stompin’ Ground è l’ennesimo tassello di una lunga e gloriosa storia, ed è anche un signor disco: ne sono passati davvero tanti di anni da quel disco su Saloon Records in cui l’influenza principale era la scuola di Chicago. Ora Castro è un maturo bluesman dalla voce fortemente soul e molto dotato alla chitarra, al suo fianco c’è ancora il bassista Randy McDonald come sul disco d’esordio, ma la band è irrobustita anche dalla batteria di Bowen Brown e in particolare dalle tastiere sapienti di Michael Emerson che infila organo e piano elettrico in ogni brano. A dare una mano un po’ dappertutto c’è poi il produttore Kid Emerson.

Diviso più o meno equamente tra buone composizioni originali e azzeccatissime cover ripescate in particolare nel repertorio blues dei primi anni settanta, Castro e soci ci consegnano un bellissimo disco di soul blues piacevolissimo, confezionato con cura e con l’aiuto anche da parte di un paio di amici titolatissimi che ci infilano autentiche zampate di classe.
Possiamo dire di essere lontani da quel blues bastardo tipico della San Francisco di fine anni sessanta, quando i chicagoani Gravenites, Bloomfield e Bishop vi avevano cercato asilo e ispirazione, provenendo insieme o separatamente dall’illustre gavetta nella Butterfield Blues Band.

Ottimo, per carità, il classico Frisco Blues di quell’epoca, ma senza dubbio datato: cosa che non è quello suonato dai Painkillers di Tommy Castro.

Dopo una tripletta apprezzabile composta da Nonchalant, Blues Around Me e dalla robusta Fear is The Enemy, arriva la prima perla del disco, una lenta e penetrante soul ballad cantata con gran convinzione e altrettanto ben suonata (bella la parte della sezione fiati) My Old Neighborhood che si candida subito tra le più belle tracce di questo disco. L’asse si sposta più verso il blues texano o comunque sudista con il boogie di Enough Is Enough, con un bel lavoro di slide, e diventa poi blues muscolare con Love Is sostenuta dal lavoro della sezione ritmica in cui si intrufolano chitarra e tastiere.

Rock Bottom è un pezzo di Elvin Bishop, un rock blues di stampo sudista con il pianoforte in bella mostra e un lavoro di chitarra solista del titolare che convince in modo particolare e che duetta con la sei corde di Mike Zito; ancor meglio il brano seguente, Soul Shakes ripescato dal repertorio di Delaney & Bonnie (stava su To Bonnie From Delaney del 1971), composizione dal ritmo e dal refrain contagiosi, decisamente convincente con la voce grintosa di Danielle Nicole a duettare con quella di Castro come Bonnie faceva col consorte Delaney. Further On Down The Road è il celebre brano di Taj Mahal, perfettamente inserito nel contesto, con un’ulteriore grande prova della voce di Castro che su un brano del genere si trova totalmente a proprio agio, abilmente supportato dal tappeto d’organo di Emerson. Them Changes, a firma Buddy Miles è un altro gran brano d’ispirazione soul che proviene nientemeno che dal Band Of Gypsies hendrixiano, Castro, che non è uno stupido si guarda bene dal voler strafare come spesso accade a coloro che si cimentano con Hendrix e la sua versione del brano – che può contare su un gran bel duetto con la chitarra e la voce di David Hidalgo dei Los Lobos – diventa così preziosa ed essenziale, non scontata.

Stick And Stones, già sentita da Ray Charles e da Joe Cocker, è forse più interlocutoria, meglio il finale, con Charlie Musselwhite all’armonica e alla voce: una composizione originale lenta e penetrante intitolata Live Every Day, autentico omaggio a quel blues di Chicago che è stato il primo amore di Castro.

A Bergamo la 6a Mostra Mercato del disco e del CD

di admin

16 ottobre 2017

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Si svolgerà il prossimo 29 ottobre, domenica, la sesta edizione della Mostra mercato del Disco e del CD di Bergamo, come sempre presso lo Star Hotel Cristallo Palace di Via Ambiveri, 35.

L’ingresso è libero, gli orari: dalle 10.00 alle 19.00

Per maggiori informazioni: 0354250391

Facebook: VINILEBERGANO HIFISTUDIO SRL

CHEAP WINE – Dreams

di Paolo Baiotti

15 ottobre 2017

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I pesaresi Cheap Wine pubblicano il loro undicesimo album in vent’anni di attività, nono in studio (oltre al mini album d’esordio del ’97), sempre orgogliosamente indipendenti, questa volta con il supporto di una raccolta di fondi organizzata in casa sul sito www.cheapwine.net. E ancora una volta il quintetto guidato dai fratelli Marco e Michele Diamantini centra il bersaglio, dimostrandosi la migliore realtà del roots rock italiano.

Dreams chiude una trilogia aperta nel 2012 con Based On Lies e proseguita nel 2014 con Beggar Town. In questi due albums hanno raccontato la situazione drammatica dell’Italia di oggi, evidenziando dapprima personaggi distrutti dalla crisi economica e raggirati da un sistema fondato sulla finzione supportata da mass media manipolati (in Based On Lies) e poi gli stessi uomini che, preso atto delle macerie e della desolazione, cercavano di sopravvivere, di rimettersi in cammino e di trovare una prospettiva più decente di vita, lottando e non limitandosi a compiangersi.

Con Dreams la band cerca, con qualche illusione, di vedere un futuro che in qualche modo offra delle speranze, basandosi sulla forza dell’amore e dei sogni. E questo attraverso la ricchezza data dalla famiglia, dalle amicizie e dalla complessità dei sogni, non necessariamente logici o positivi, in ogni modo indispensabili per capire a fondo la nostra anima. Dal punto di vista musicale il quintetto prosegue nella maturazione avviata con Spirits nel 2009, che ha rappresentato la scelta di un rock meno estroverso e più intimista, a tratti raffinato e complesso, nel quale la chitarra di Michele ha uno spazio ristretto dal punto di vista degli assoli, svolgendo un importante lavoro di raccordo e di arrangiamento, affiancata dal ruolo determinante delle tastiere di Alessio Raffaelli, diventato un elemento determinante nello sviluppo del suono. La sezione ritmica, sempre precisa ed efficace, è affidata ad Alan Giannini (batteria) e al nuovo bassista Andrea Giaro.

Il rock stonesiano incalzante di Full Of Glow apre il disco, seguito dall’eccellente Naked, che esprime lo sconcerto del testo con una chitarra insinuante, sventagliate di tastiere e la voce intensa di Marco. The Wise Man’s Finger è un mid-tempo cadenzato con un tocco di psichedelia, che si apre nel finale lasciato alla chitarra raffinata di Michele. L’ossessiva e avvolgente Pieces Of Disquiet ha qualcosa di Nick Cave, chiudendosi con un calibrato assolo distorto di chitarra. Altri due brani lenti caratterizzano la parte centrale: la ruvida Bad Crumbs And Pats On The Back e la malinconica ballata Cradling My Mind. Il ritmo torna a crescere con For The Brave, roots rock con un riff di stampo western, ma il mood del disco è più riflessivo come dimostrano gli ultimi tre brani. Dapprima la lenta I Wish I Were The Rainbow, ballata classica con l’organo in primo piano e un testo liberatorio, poi la quieta e sognante Reflection con Andrea Giaro al violoncello, per finire con la splendida Dreams, la traccia più lunga del disco, pacata riflessione che rappresenta un messaggio di speranza narrato più che cantato da Marco con le tastiere e un ticchettio di batteria in sottofondo, fino all’entrata della chitarra che costruisce con discrezione un assolo in crescendo.

Come sempre molto curata la veste grafica, con i testi in inglese e italiano, mentre l’animazione del pregevole video di Full Of Glow è curata dall’ex batterista Francesco Zanotti. I pregevoli testi della band, un’altra caratteristica non comune con il rock contemporaneo, sono stati raccolti in un volume in vendita sul sito. Dreams cresce con gli ascolti e si candida a diventare un altro classico in una discografia ricca di qualità. E se i Cheap Wine suonano dalle vostre parti, fatevi un regalo e andate ad ascoltarli: sono sicuro che non rimarrete delusi.

NO PASTA NO SHOW! – Claudio Trotta

di Ronald Stancanelli

15 ottobre 2017

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NO PASTA NO SHOW !
CLAUDIO TROTTA
Mondadori Electa
Pag 200 + 32 pag. di fotografie

Tengono banco ultimamente i libri di memorie o memorabilie o nostalgie vintage imperniate su ricordi, aneddoti, storie, scampoli di vita di artisti, scenette, recensioni di vecchi album storici o semi-sconosciuti, e quanto altro si possa aggiungere per quanto concerne il mondo musicale. A braccio ve ne posso citare vari che mi hanno ultimamente decisamente avvinto se non emozionato, ovvero Massimo Cotto con Pleased to meet you e Rock Bazar, Vincenzo Spera con A un metro dal palco, Ma che musica suoni di Fabio Zuffanti, Disco Club-Il diario di un dischivendolo di Gianfranco Balduzzi e L’ultimo dei Mohicani e My Tunes di Maurizio Blatto tutti eccellenti tomi che vanno a far legna con le ormai storiche antiche righe di Nick Hornby che sintetizzo con il meno noto ma ottimo Rock, pop, jazz e altro. Aggiungerei adesso questo No Pasta, No Show di Claudio Trotta che ci racconta a sua volta, girandosi a guardare indietro, del suo percorso iniziatico e poi inossidabile, essendo diventato lavoro, su quello che ha visto, vissuto, subito, gioito, guardato, assaporato, sofferto e che lo ha infine esaltato del mondo musicale,che è compagno di vita ormai da tempo del suo cammino di grande appassionato di musica, e di ciò che vi ruota attorno.

Dal 1979 anno del suo primo concerto che organizzò per John Martyn, che in quell’occasione gli fece anche un occhio nero ai fasti di mega concerti di valenza storica come tutti quelli di Bruce per citare un artista a caso, che piace a noi tutti, si srotola la vita e vi si narrano le vicende di questo promoter, ma prima aveva fatto altro sempre nell’ambito musicale, anche e specialmente la Radio come tanti di noi. Benedetti quei, permettetemi di dirlo, fantastici anni settanta. Insomma a 360° un libro che ci racconta con gli occhi di uno di noi, grande appassionato di musica e in special modo fan, quel mondo a volte folle, dorato, strambo, bellissimo, che è quello che tutti amiamo da tempo immemorabile, quello della musica e di quello che dannatamente vi frigge intorno. Una frase di Trotta sintetizza direi perfettamente quello che erano gli anni settanta nel quale aveva iniziato questo suo lavoro; lui nel libro dice che “erano anni duri ma anche straordinari,” ecco credo che questa frase riassuma bellamente in toto l’atmosfera, gli odori, gli umori, le emozioni, le speranze, le eccitazioni di quel periodo.

Per me leggere queste pagine è stato molto bello poiché ha fatto correre anche i miei ricordi a quei tempi e mentre Trotta cita splendidi ed indimenticabili concerti di artisti da lui in quel tempo fatti venire qua nel bel paese non posso non emozionarmi a ricordarne alcuni che avevo visto nelle date genovesi, quelli di Cockburn, Bromberg e Rebourn & Grossman. show che negli anni non ho mai dimenticato. E ai quali, quando ascolto questi artisti, vado sempre con la memoria ricordando la grande emozione di vedere per la prima volta il canadese errante Cockburn autore di musiche e suoni che mi facevano letteralmente impazzire e come non ricordare uno straordinario Bromberg con la sua band, uno di concerti più emozionanti che ho nel cuore, e l’amarezza della scomparsa di Dick Fegy poco dopo la data genovese in un incidente , se non erro, di moto. Ma non posso non citare un’altra data storica, quella del 4 maggio 1982 al Rolling Stone di Milano ove ho visto uno dei più bei concerti della mia vita, ovvero quello di un Ry Cooder tra i più ispirati e in forma della sua carriera, uno show direi indescrivibile per chi non c’era. Scopro adesso che era stato anch’esso organizzato dal buon Trotta. Che gli Dei del pentagramma gli diano merito, gioia e felicità. Posso tranquillamente dirlo anche io, bei tempi di grandi piccole splendide indimenticabili emozioni. Lo stesso Trotta scopro, organizzò altri due show che ho carissimi nella memoria, il trittico Pogues, Los Lobos, Steve Ray Vaughan a Milano nel 1988 e sempre nel capoluogo lombardo una splendida serata con Randy Newnam, peccato che quella sera fuori dal Teatro Nazionale qualcuno pensò di andarsene con la mia Golf nuova lasciandomi a piedi.!

Trotta in modo semplice e molto coinvolgente racconta tanto e più di tanto toccando tematiche importanti di quei tempi e in virtù di questo significativo- e storicamente interessante – periodo si rende Troubador storico quando parla del suo primo approccio con i manager e promoter inglesi e relative problematiche e bocconi a volte amari da buttar giù, quando qualcuno – questo lo sintetizzo io – lo avresti volentieri mandato a quel paese ma, essendo principalmente lavoro oltre che passione, non poteva. Tra i riferimenti che a noi giungono cari da un tempo lontano vorrei rammentare quelli che citano la carta stampata del Mucchio Selvaggio prima e del Buscadero poi che hanno forgiato tanti di noi verso miriadi di artisti “indispensabili”. Si parla di Sonoria festival che al suo esordio nel 1994 vantava la presenza di due artisti come Bob Dylan e Willy De Ville e Petr Gabriel e che fu penalizzato da un riscontro debole di pubblico !! Io c’ero e la mia parte l’ho fatta, peggio per coloro che non vennero e spiacente per Trotta che tanto aveva fatto, credendoci in questa manifestazione. Le due a seguire andarono fortunatamente meglio. Sappia, se gli può far piacere, che ricordo il Sonoria del 1994 come un avvenimento leggendario. Nel libro si narra appunto delle vicende inerenti detta prima edizione e pure delle seguenti.
Mi piacerebbe concludere questo piacevolissimo libro denso di ricordi ed emozioni, anche se ovviamente altrui, sempre con altre parole appunto di Trotta che dice “ Tuttora resto convinto della possibilità che io possa morire povero di beni materiali ma molto molto ricco di emozioni”.

Quindi ben ci hanno arricchito queste duecento pagine ove abbiam trovato scampoli di vicende piccole o grandi di nostri eroi che hanno un angolino nel nostro cuore come Ry Cooder, Robert Plant, John Martyn, Bruce Cockburn, Sonny Terry & Brownie McGhee, John Mayall, Mike Bloomfield , Steve Ray Vaughan, Frank Zappa, John Lee Hooker,Van Morrison, Bo Didley e Muhammad Alì e del bellissimo percorso di vita e di musica del buon Claudio . Tuffatevi in queste vicende che si leggono con immenso piacere e scorrevolezza e le vivrete come vostre. Molto, molto bello e sentito il ricordo di Mike Bloomfield che in poche pennellate Trotta tratteggia con rara maestria.

Un bel libro che vi renderà felici e sicuramente per un po’ di nuovo giovani. E vi divertirà con una miriade di aneddoti tra l’esilarante e lo strambo raccontandovi di Lemmy Kilmister, Jonathan Richman, Dream Theater, Mika, Primus, Steve Morse, Lorena McKennitt, David Lindley, Renato Zero e tantissimi altri. Ovviamente non mancano note, dati, info e varie su Bruce Springsteen al quale è dedicato un intero capitolo. E scopro che lo stesso Trotta come me vide per la prima volta Bruce dal vivo nel 1981, lui a Zurigo, io a Lione. Lui ha poi però organizzato ben trentasei concerti di Bruce….. io ovviamente nessuno, ma posso almeno dire di averne visti 49, una buona parte organizzati certamente da lui. Lo ringrazio per il suo impegno, lavoro e dedizione e per avermi(ci) fatto vedere una miriade di artisti straordinariamente sfavillanti. Nel finale del libro un capitolo è doverosamente rivolto al triste fenomeno del secondary ticketing, ricordiamo che nell’aprile dell’anno scorso lo stesso autore di questo libro ha presentato una denuncia alla Procura della Repubblica di Milano su questo lacerante e disgustoso problema. Infine restando sul mero versante musicale annotiamo che Trotta ricordi come fu Edoardo Bennato il primo a riempire stadi ed arene prima dei vari Vasco, Ligabue… Una giusta nota di merito al bravissimo cantautore partenopeo.

Chiude la riproposizione di una lettera aperta che l’autore scrisse sul Mucchio Selvaggio allorché il partito de L’Ulivo salì al governo, ove il buon Trotta si augurava, come tanti di noi, che molte cose cambiassero in meglio, nella musica, nella cultura, in tante piccole e grandi componenti come la televisione e nella pubblicità, nel fornire le notizie secondo il giusto valore della loro importanza, e così purtroppo pare non sia certamente stato.

Libro consigliatissimo, avvincente e nostalgicamente emozionante.

Save the date!

di admin

11 ottobre 2017

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Si avvicina l’appuntamento con BRIANZA VINILICA, giunta alla sua terza edizione.
L’appuntamento è per il prossimo 15 OTTOBRE ad AGRATE BRIANZA (MB) dalle ore 10 alle ore 18 presso la Cittadella della Cultura – Auditorium Mario Rigoni Stern Via Gianmatteo Ferrario, 51.

Come sempre, INGRESSO LIBERO E PARCHEGGIO LIBERO nei pressi della fiera, in Via Lecco, 11.
Vi aspettiamo!

CECE WINANS – Let Them Fall In Love

di Paolo Crazy Carnevale

8 ottobre 2017

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CECE WINANS – Let Them Fall In Love (Thirty Tigers Records 2017)

La black music, non è un mistero, pur partendo tutta da una stessa matrice, si è evoluta in mille generi e sottogeneri: la disco, il rap, l’hip hop sono loro (e nostro) malgrado un derivato di quel grande soul e rhythm’n’blues che negli anni gloriosi del vinile ci hanno consegnato artisti monumentali, ma se le contaminazioni sono molteplici e il loro conteggio si perde nell’infinito, di black music d’alta qualità, pur con inevitabili concessioni ad altre sonorità, ne viene ancora prodotta parecchia.

È il caso di questo recente disco della cantante gospel Cece Winans, sulla breccia da parecchi anni, dapprima col duo Bebe & Cece (insieme al fratello Benjamin), dal nome abbastanza infausto e ridicolo, poi come solista. Il gospel pop con cui è condito questo vinile pubblicato dalla Thirty Tigers, un’etichetta che è una garanzia, è a volte un po’ leggero e sovrarrangiato, ma è definitivamente figlio della musica che gli afro americani cantavano, con notevoli risultati e riscontri, negli anni d’oro in cui Stax e Motown erano sinonimi di garanzia.

Il disco è prodotto da Alvin Love III, consorte della Winans, che pur eccedendo qua e là nell’uso di archi e cori, finisce comunque col consegnarci un disco apprezzabile che va ben oltre le connotazioni solitamente associate al gospel.

La voce è di quelle giuste, si capisce da subito, anche se il primo brano He’s Never Failed Me Yet ed il seguente Run To Him strizzano un po’ l’occhio al pop, con Hey Devil! la ricetta cambia, il ritmo spacca e tutta la classe della Winans vien fuori, e vien fuori anche in Peace From God, ballatona guidata dal pianoforte con un break di chitarra acustica e un bel coro a supporto della bella voce della titolare.

Ma il pezzo forte del primo lato è la canzone che lo chiude, una rilettura intensa e riuscita del brano di Kris Kristofferson Why Me?, già rivestita di gospel decenni fa anche da Elvis Presley. Qui la Winans ce la mette proprio tutta per fare una gran bella cosa, l’inizio con la chitarra elettrica appena pizzicata e la gran voce, poi il crescendo con l’organo, i cori e persino una pedal steel usata con parsimonia.

Il lato B parte ugualmente alla grande, Lowly – che è firmata dal marito di Cece – sembra provenire da quella scuola musicale del profondo sud che mescolando country e soul ha lasciato tracce profonde passando per Memphis e Muscle Shoals: l’incedere è vincente, le voci non se ne parla neppure e il pianoforte di Gabe Dixon guida la composizione, che prima del finale ha un breve rallentamento per sola voce e steel guitar prima di decollare vorticosamente.

L’atmosfera si fa più raccolta con Never Have To Be Alone, ballata essenziale dall’arrangiamento misurato (cori e violini ci sono, ma in maniera meno preponderante) che ricorda il pop soul di casa Motown; riesplode poi con Dancin’ In the Spirit, con botta e risposta tra la solista e le coriste su un ritmo sostenuto da un fantastico suono di basso su cui piano e organo ballano allegramente, la soul music venata di funky che prelude alla nascita della disco. Marvelous è forse il brano più propriamente gospel di questo vinile, un gospel moderno con entrata sfumata dell’organo da chiesa, su cui si innestano la voce della Winans e il coro alle sue spalle guidando il brano per tutta la durata, prima che verso la fine facciano capolino – appena appena – basso, chitarra e batteria.

Il finale è affidato ad un brano pianistico composto dalla stessa Winans, l’arrangiamento a cavallo tra pop e jazz (batteria spazzolata e) è abbastanza distante dal resto e appesantisce il risultato finale, privando un bel disco del giusto finale e conferendo alla canzone, non disprezzabile, un’atmosfera da musical disneyano (gli archi e i cori da film ci mettono del loro a rovinare tutto!).

A sottolineare le intenzioni gospel del disco, va osservato come i titoli dei brani – siano essi originali o meno – vengono fatti ricondurre a frasi tratte dalle sacre scritture, vangeli o salmi che siano.

GIULIA MILLANTA – Moonbeam Parade

di Paolo Baiotti

1 ottobre 2017

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GIULIA MILLANTA
MOONBEAM PARADE
Ugly Cat Music 2016

Cantautrice nata e cresciuta a Firenze, Giulia da tempo si è trasferita a Austin, entrando a far parte della comunità locale dove è stata accolta con affetto e rispetto. Moonbeam Parade è il suo quinto album, comprendente dodici brani autografi e una cover, a due anni da The Funambulist. Dotata di una voce naturalmente melodica, in equilibrio tra rock e canzone d’autore con un tocco cabarettistico europeo, ha prodotto il disco insieme a George Reiff, recentemente deceduto, in passato associato tra gli altri a Joe Walsh, Tedeschi Trucks Band e Jayhawks. L’inserimento nella Austin musicale è confermato dai musicisti che la accompagnano, tra i quali Charlie Sexton (Bob Dylan, Arc Angels), David Pulkingham (Alexandro Escovedo), Gabriel Rhodes (Willie Nelson), Glenn Fukunaga (Joe Ely, Tom Russell, Dixie Chicks), Dony Wynn (Robert Palmer), Howe Gelb, Michael Fracasso e Kimmie Rhodes.

In questo disco Giulia si cimenta anche alla chitarra elettrica, abbandonando l’amato ukulele, dimostrando una maturazione compositiva ed interpretativa notevole. Moonbean Parade è stato registrato quasi tutto in diretta, senza overdubs ed è il suo disco più americano, a tratti quasi desertico nell’ispirazione. La teatrale opener Shaky Legs, scritta con Pulkingham, l’intensa 4th And Vodka interpretata con toni drammatici e la ballata Play With Fire aprono il disco. Mi lascia perplesso la cover di Rock & Roll Suicide (David Bowie) cantata in italiano da Giulia e in inglese da Howe Gelb, a differenza del roots-rock Motel Song e della melodica Pieces nella quale l’artista dimostra la sua duttilità vocale. La drammatica e oscura There’s A Bridge e la morbida Gun Shy ci accompagnano al finale del disco, nel quale emerge la melodia roots di The House Never Wins.

Se non vi accontentate del disco o di un concerto, sul sito di Giulia c’è anche la possibilità di prenotare una cena toscana accompagnata dalla sua musica…un’idea intrigante se passate dalle parti di Austin!

MARY BETH CROSS – Feels Like Home

di Paolo Crazy Carnevale

1 ottobre 2017

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MARY BETH CROSS – Feels Like Home (MBC 2016)

Con un discreto numero di dischi all’attivo disseminati nell’arco di vent’anni, Mary Beth Cross può considerarsi a buon diritto una veterana nel mondo della musica, anche se ogni suo disco, a partire alla cassetta In This Quiet Place del 1996, è frutto di una paziente autoproduzione all’insegna dell’indipendenza totale: cosa che non vuol dire assolutamente che il risultato sia di minor rilevanza.

Ne è la prova questo EP uscito nel 2016 e registrato impeccabilmente tra le montagne del Colorado (dove la Cross vive da tempo dopo aver trascorso i primi anni della sua vita in Wisconsin), suonato a con gusto e precisione, cantato con passione. Peccato si solo un EP, ma questa, l’ho già scritto altrove credo, è la tendenza attuale di quegli autori che lavorano in proprio negli Stati Uniti, ossia senza l’appoggio di una major e senza un contratto: probabilmente immettere sul mercato un EP ogni tot mesi mantiene desto l’interesse più che non un disco di durata oltre i quaranta minuti ogni due o tre anni.

Comunque, bando alle ciance, questo dischetto dalla copertina che pare una cartolina natalizia, è davvero gustoso e mette sul piatto un misto tra brani originali e cover per un totale di sei tracce (ma una è un medley di tre differenti canzoni), a fare da trait d’union è lo stile con cui Mary Beth le mette sul piatto, un accostamento bluegrass misurato, mai eccessivo, dovendo tener conto che le composizioni sono comunque orientate verso il mondo dei singer songwriters.

Si apre con Kathy’s Song, un brano di Simon & Garfunkel che sinceramente avevo rimosso, l’avevo ascoltato molto sul nastro del Greatest hits del duo in anni lontani, devo dire che si tratta di un piacevolissimo recupero di una notevole canzone che la Cross e il suo quartetto eseguono davvero con un gusto sopraffino.

Si prosegue con una canzone autografa, Treshing Time, che mantiene le aspettative e conferma che la Cross non è solo interprete ma anche raffinata autrice. Shady Grove è il traditional che ben sappiamo, l’unica composizione qui inclusa che fin dalle sue origini era stata concepita o quasi per un arrangiamento a base di chitarra acustica, violino, banjo e mandolino. Long Long Time è la canzone resa celebre da Linda Ronstadt, ma l’arrangiamento è tutt’altra cosa, d’altra parte le radici musicali della Ronstadt erano in origine più o meno le stesse della Cross.

Il medley, quasi otto minuti, sposa due ultraclassici con una composizione originale: quello che colpisce è la straordinaria naturalezza con cui la Cross e i suoi soci (Chris Pandolfi, procucer e banjoista, Jeremy Garrett, violino e mandolino, Tyler Grant, chitarra e Adrian Engfer, basso) si accostano a canzoni come Summertime e la Moondance di Van Morrison, con begli spunti per l’acustica di Grant, con il brano originale Pas De Deux infilato magicamente nel mezzo e poi ripreso alla fine in francese. Applausi.

Il disco si conclude con la breve ma riuscita Cottonwood Creek. Ribadisco, peccato sia solo un EP.