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DAVID CROSBY – Sky Trails

di Paolo Crazy Carnevale

2 marzo 2018

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DAVID CROSBY – Sky Trails (BMG 2017 2 LP)

Un nuovo disco di David Crosby ad un anno di distanza dall’ottimo Lighthouse non se lo aspettava nessuno. Ed invece il vecchio tricheco, con una nuova etichetta – il disco precedente era uscito su Verve – torna a colpire, ma purtroppo non a graffiare.

Se il disco precedente aveva davvero convinto molto quanto a bontà del materiale e a sonorità, con questo Sky Trails si torna ad un easy listening raffinatissimo ma anche fastidioso nella sua raffinatezza. In qualche brano ci sono ancora Michael League e Becca Stevens che avevano contribuito a fare di Lighthouse un disco eccellente, ma per il resto sono tornati gli accompagnatori abituali come il batterista Steve Distanislao, il chitarrista Jeff Pevar e – purtroppo – James Raymond e Steve Tavaglione, che funestano con tastiere troppo pesanti e sax il sound generale di questo doppio vinile. Ci sono anche ospiti come Dean Parks e Greg Leisz, purtroppo decisamente sottoutilizzati.

Il brano d’apertura, She’s Got To be Somewhere non è male, ma troppo in odor di Steely Dan, gruppo che per altro Croz ha sempre dichiarato di amare molto, per quanto distante musicalmente dal Crosby che si è guadagnato i nostri favori in tempi assai lontani. La sensazione generale, ascoltando il disco, è quella già espressa in precedenza circa la mancanza di idee proprie e il conseguente affidarsi troppo a musiche composte dai suoi soci. Musiche che non sempre si rivelano all’altezza. Qui il brano poi è tutto scritto da Raymond, con i risultati che ci si possono attendere. Decisamente meglio il brano successivo, una perla degna del miglior Crosby, composta in tandem con la Stevens, sicuramente più vicina a quell’ottica musicale di cui sopra. Il brano, che è quello che titola il disco, è una splendida composizione premiata dallo scarno accompagnamento quasi acustico che splende di luce propria nonostante la presenza di Tavaglione e Raymond. Il lato A si chiude con Sell Me a Diamond, inferiore alla title track ma graziato dagli ispirati contributi di Pevar alla solista e di Leisz alla pedal steel.

Il lato B è aperto da Before Tomorrow Falls On Love composta in coppia con Michael McDonald, è una ballata pianistica molto raffinata in cui spicca particolarmente la voce inintaccata del titolare. Segue Here It’s Almost Sunset scritta col bassista Mai Agan e aperta di nuovo dall’inutile sax di Tavaglione; molto meglio Capitol, canzone politica scelta anche come singolo di lancio del disco: un po’ sovrarrangiata, ma ben strutturata: è una canzone di spessore che ci restituisce il Crosby barricadero che spara a zero sul governo (“And the votes are just pieces of paper, and they sneer at the people who voted”), il tutto con le chitarre di Dean Parks (elettrica), Steve Postell (acustica) e Greg Leisz (pedal steel). A chiudere facciata e primo disco c’è la cover di Amelia, grande brano di Joni Mitchell: la versione è all’altezza, niente sax, solo Croz con Leisz e Raymond, per una rilettura fedele all’originale.

Con Somebody Home inizia invece il secondo disco, si tratta di un brano a firma del solo Crosby, atmosfere ancor più rarefatte, chitarra acustica, bell’organo (Cory Hensry) e non male neppure il piano elettrico (Justin Stanton), peccato anche qui per l’uso dei fiati (qui ci sono altri musicisti al posto del vituperando Tavaglione) che ammazzano un po’ tutto il disco. Il brano sembra comunque l’ultimo momento di interesse del disco, che va spegnendosi perdendo interesse con la successiva Curved Air (musica firmata da James raymond), una scontatissima sambetta decisamente inutile in un disco di questo artista capace – e lo ha dimostrato a più riprese – di ben altre risoluzioni a livello sonoro. Peccato. Non è meglio Home Free vittima a sua volta di quell’eccessiva raffinatezza che sembra voler supplire ad una generale mancanza d’idee.

La quarta facciata del disco riprende She’s got To Be Somewhere e Here It’s Almost Sunset e viaggia però a 45 giri. Una scelta, quella dei brani, che non sembra propriamente avveduta.

DAVID CROSBY – Lighthouse

di Paolo Crazy Carnevale

3 gennaio 2017

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DAVID CROSBY – Lighthouse (Verve/GroundUp 2016)

Forse vi farà ridere, ma il 2016 sia stato in qualche modo l’anno di CSNY: se la memoria non mi inganna credo sia stata la prima volta che nello stesso anno si siano visti dischi solisti di ciascuno dei quattro signori celati dietro la gloriosa sigla.
Non solo, credo anche che, a conti fatti, escluso il discutibile live di Neil Young, che le quattro prove di studio siano tutte dignitose, anche molto più che dignitose, e che in alcuni casi siano anche venute fuori delle signore canzoni.

La sorpresa più bella è forse questo disco di Crosby, un po’ per la bontà del contenuto, un po’ perché il baffuto canuto non è mai stato molto prolifico ed invece ad appena due anni dal disco precedente ci ha offerto questa nuova raccolta di canzoni che trovo molto più bella di quella del 2014. Non che Croz fosse un brutto disco, ma per i miei gusti era troppo laccato, sovrarrangiato, fastidioso nella sua impeccabilità, con le canzoni scritte in tandem da Crosby con i suoi collaboratori , gente il cui modo di scrivere musica è lontano anni luce da quello del Crosby solista che abbiamo amato in passato.

Stavolta Croz si è affidato alla partnership di un jazzista come Michael League (Snarky Puppy) e, udite udite!, è riuscito a fare un disco molto meno jazz dei precedenti (il disco del 2014 soffriva di quegli eccessi di sofisticazione che si potevano riscontrare ampiamente anche nella discografia dei CPR), atmosfere molto acustiche, soprattutto chitarre, un po’ di basso, qualche misurata intromissione dell’elettrica, organo azzeccatissimo e coriste nel finale.

Posto che il Crosby del primo disco (capolavoro inarrivabile, non si discute) e dei dischi degli anni settanta con Nash e gli altri soci era un’altra cosa, Lighthouse è il suo disco che ci restituisce maggiormente le composizioni ed i suoni di allora, senza esserne in alcun modo una copia a carbone: si tratta di un disco affascinante, avvolgente, dominato dagli arpeggi acustici e dalla sempre eccelsa voce che ben sappiamo. Va detto anche, a onor del vero, che non è un disco senza ombre, ma alla fine sono di più i pregi e questo basta. Quello che manca qui sono i cori e le armonie vocali, d’altronde sappiamo che la frattura tra Crosby e il suo compadre di armonie pare ormai insanabile e quindi il guru della musica californiana deve fare tutto da solo o con Michael League che per quanto ce la metta tutta non è certo Graham Nash; per il resto però c’è davvero quasi tutto, la voce, gli intrecci di chitarre, i testi introspettivi in cui si avverte l’urgenza di Crosby di fare fronte agli anni che ormai passano alla velocità della luce senza lasciare nulla di incompiuto.

League non è l’unico partner a livello compositivo del disco, in un brano le liriche sono opera di Marc Cohn e in uno la musica è di Becca Stevens (a sua volta proveniente dal giro Snarky Puppy), inoltre due canzoni sono a firma del solo Croz, e guarda caso sono tra le cose migliori del disco insieme al brano scritto con la Stevens.

Quaranta minuti, come si faceva una volta, nove brani: Lighthouse si apre con la buona Things We Do For Love, composizione nelle corde del Crosby più recente, The Us Below, che la segue è meglio, caratterizzata dalle belle chitarre e da elaborazioni armoniche molto riuscite, come ci si poteva aspettare dal titolare del disco. Drive Out To the Desert è più scarna, è firmata da Crosby in solitudine e ci sono solo le chitarre acustiche. Look In Their Eyes è il brano che mi piace meno, per via dell’atmosfera bossa nova che è parecchio lontana dai miei gusti, per altro però la performance vocale di David è notevole, forse una delle più interessanti e riuscite di tutto il disco. A chiusura del lato A (il disco è uscito anche in vinile per fortuna) c’è Somebody Other Than You altra canzone riuscita, abbastanza incalzante e con le chitarre in evidenza, peccato che nei cori si avverta decisamente la mancanza di un armonizzatore come Nash.

Voltiamo il disco e troviamo The City, stavolta la musica è tutta di Michael League, Croz è responsabile solo di parte delle liriche, il brano comunque gli calza addosso bene e può contare su un insinuante organo, opera di Cory Henry (anch’egli del giro Snarky Puppy), che si inserisce su armonie vocali più azzeccate di quelle del brano precedente, e poi c’è un break di chitarra elettrica di League che qui sembra voler citare a bella posta lo stile di Stephen Stills. Il brano composto con Marc Cohn è l’apprezzabile Paint You A Picture, una composizione molto intimista con le chitarre in punta di piedi e col piano di Bill Laurance ancor più soffuso; What Makes It So è invece il secondo brano con la firma del solo Croz ed è una delle perle del disco (ma sono molti i picchi alti di questo Lighthouse), ancora con l’organo che s’intrufola sapientemente, cantato da Crosby con voce ispiratissima e un bel lavoro delle chitarre rigorosamente acustiche: a tratti sembra addirittura di essere all’ascolto del primo disco di CSN, quello del divano, tanto il brano è classico nella sua struttura. La chiusura è affidata a By The Light Of Common Day con Crosby che scrive le liriche per una musica della Stevens, un gran brano, con le voci dei due autori supportate da quella di Michelle Willis, cantautrice canadese: il risultato è una canzone molto riuscita, decisamente in odore della west coast più tipica, degno suggello di un disco tanto bello quanto inatteso.

DAVID CROSBY – Croz

di Paolo Crazy Carnevale

8 marzo 2014

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DAVID CROSBY – Croz (Blue Castle Records/Alliance 2014)

Un disco solista di David Crosby nel 2014? E per di più intitolato col solo soprannome del titolare? Ci ho pensato su a lungo, questo dovrebbe essere il suoi quinto disco in solitudine, rimanendo nello stretto ambito della discografia canonica, considerando i CPR un gruppo – così come lo sono i Rides di Stills – ed escludendo le raccolte e qualche pubblicazione non del tutto autorizzata come il disco dal vivo per il programma radio King Biscuit Flower Hour.

Va subito detto, è un signor disco, fatto bene, suonato ancor meglio, ispirato. Ma va anche subito detto, a beneficio di chi fosse rimasto al primo, storico ed inarrivabile esordio del 1971, il Crosby dei giorni nostri è un’altra cosa. Non meglio, non peggio, semplicemente un’altra cosa.

L’altra faccia di una stessa medaglia se vogliamo, infatti il titolo sembra essere comunque una risposta al titolo del disco del ’71, If I Could Only Remember My Name – se solo potessi ricordare il mio nome – era il problema di David Crosby all’epoca, in mezzo c’era stato il secondo disco, dopo tempo immemorabile, che si intitolava Oh Yes I Can – certo che posso –, molto prima che la frase divenisse il motto di Barak Obama. E Crosby il suo nome se lo ricorda ancor oggi, anzi ricorda precisamente il proprio nomignolo, “Croz” appunto, titolo di questa nuova fatica che campeggia sulla copertina in cui il vecchio baffone è immortalato in un bello scatto opera del figlio Django.

Undici tracce, registrate perlopiù in vari studi californiani, assistito dall’altro figlio James Raymond – spesso alla firma da solo o con Croz e sempre dietro alle tastiere e altri strumenti – e da un manipolo di fedelissimi come Shane Fontayne, Marcus Eaton, Kevin McCormick e Stevie D, a cui vanno aggiunti per la cronaca anche Mark Knopfler nel brano di apertura, Wynton Marsalis e Steve Tavaglione.

La prima differenza che emerge col Crosby “smemorato” degli anni settanta è la conferma che il nostro ha quasi del tutto accantonato la composizione solitaria, ormai i brani sono in tandem e il sospetto è che Croz finisca con l’occuparsi più delle parole che delle note. Ma non è una novità, quasi tutte le sue canzoni dagli anni ottanta in poi sono così. Può piacere e può dispiacere – nel senso che le vecchie canzoni del Crosby erano indiscutibilmente uniche. Ma anche queste nuove, dicevo in apertura, sono in alcuni casi notevoli, tutto sta riuscire a mettere da parte quel primo maledetto disco che aveva il difetto di essere troppo bello. Perché il Crosby di adesso è uno che pensa ancora molto, uno che non ha mai dimenticato di essere stato uno degli indiscussi pontefici del movimento freak (per dirla con Bertoncelli), uno che non può permettersi di dire cose banali.

Le canzoni: Radio era già apparsa sul DVD concerto di CSN usc
ito nel 2012, si dimostra un buon brano e rimane presto nelle orecchie, meno invece Time I Have eseguita spesso nel tour estivo del trio che ha toccato anche la nostra penisola. What’s Broken, con Knopfler, apre il disco ed è un’altra buona composizione con la solista dell’ex Dire Straits a duettare con la pedal steel di James Raymond. Per il sottoscritto la palma di miglior canzone va a The Clearing, ma anche l’acustica If She Called – firmata da Croz in solitudine – affascina non poco, e che dire di Slice Of Time o di Set The Baggage Down, firmata con Fontayne, che inizia con un attacco di chitarra che per un attimo sembra riportarci ai vecchi tempi?

I brani meno convincenti sono quelli con Marsalis alla tromba e Tavaglione al sax, sarà per la mia idiosincrasia per le atmosfere jazzate, sarà che questi strumenti mi sembrano fuori luogo nel contesto crosbyano, così come l’eccessivo uso di campionamenti in Dangerous Night.

Ma per il resto, datemi retta, questo è un disco che scalda il cuore e la voce del protagonista (non ve l’avevo ancora detto, ma è cosa risaputa) non ha perso un briciolo di smalto rispetto alle origini e se nella conclusiva Find A Heart il sax di Tavaglione finisce per irritarmi, le armonie vocali costruite da Croz – l’architetto dell’armonia, come lo ha definito Dylan – sono ancora e sempre da peli dritti!