Rock & Pop, le recensioni di LFTS/19
di admin
19 novembre 2012
GANG – Le Radici e le Ali 1991-2011 Live album (Mezcla 2012)
Un live dei Gang è sempre un’occasione imperdibile per fare un bagno di combat rock, sia che si tratti di un live recente con la formazione spartana, sia che si tratti dei concerti dei primi anni novanta, quando con la CGD alle spalle il gruppo marchigiano girava con un ensemble allargato.
Questo nuovo disco dal vivo dei fratelli Severini – unici rimasti della band originale – giunge ad appena un paio d’anni da un precedente doppio dal vivo di ottima fattura, ma stavolta l’occasione per presentare le loro canzoni di lotta non è un tour qualunque, si tratta infatti di un disco registrato nel corso di un concerto celebrativo svoltosi nel settembre dello scorso anno a Filottrano per festeggiare i vent’anni dell’uscita di Le radici e le ali, uno dei dischi storici della band barricadiera italiana per eccellenza (non a caso uno dei loro dischi degli anni ottanta era proprio intitolato Barricada). La ricetta è la solita, una manciata di canzoni mai scontate, con testi che vogliono davvero dire qualcosa, con una musica che ha le sue radici nel folk rock, nella tradizione ma anche più alla lontana anche nei Clash del paladino dei Gang, quell’indimenticabile Joe Strummer a cui viene sempre dedicata la commovente Bandito senza tempo, in questo disco la seconda traccia. E ancora Woody Guthrie e tanto ancora, soprattutto a livello ideologico più che musicale.
Il concerto celebrativo è soprattutto un grande festa in cui il gruppo ed i suoi ospiti si lanciano a capofitto, sfornando non solo i brani del disco che ha dato il la ai festeggiamenti, ma un po’ tutte le canzoni storiche dei Gang: Marino Severini è come sempre il trascinatore delle folle, con la sua voce arrabbiata a scandire le parole delle canzoni, suo fratello Sandro è il guitar hero della circostanza; con loro ci sono Francesco Caporaletti al basso, Fabio Verdini alle tastiere e Luca Ventura alla batteria, ma come ospite speciale c’è anche il tastierista originale del gruppo, Andrea Mei che si destreggia tra fisarmonica e organo, come faceva vent’anni fa e ci sono pure le percussioni di Fabio Andreacci, le chitarre, i mandolini e il banjo di Gianluca Spirito e il violino di Carlo Rubino, il tutto a rendere la festa ancora più festa.
Le canzoni immancabili ci sono tutte, dall’apocalittica Kowalski, che fu anche un video di successo su Videomusic, all’entusiasmante Prima della Guerra, a Il bandito Trovarelli, due brani molto Clash, passando per Chico Mendes e Comandante, che pagano tributo ai combattenti dell’America Latina. E che dire del commovente e disilluso omaggio ad Andrea Pazienza, Paz, di Sud o di Oltre?
Il gruppo gira a mille, la piazza affollata di Filottrano risponde positivamente cantando e facendosi sentire; la conclusione è affidata all’inno combat rock italiano per eccellenza, La lotta continua, uno dei brani che componevano Le radici e le ali, manca solo l’inno combat rock in inglese, quella I Fought The Law eseguita sempre in chiusura dei concerti dei Gang, ma la ritroviamo nel DVD allegato al disco, un documentario di un’ora con vari estratti del concerto e commenti ai brani e alla storia dei Gang ad opera di Marino Severini. Nel DVD, oltre ai brani del disco audio vengono riprese anche La pianura dei sette fratelli, Giorni, La corte dei miracoli e Sesto San Giovanni.
Paolo Crazy Carnevale
STEFANO FROLLANO – Sense Of You (Terre Sommerse 2011)
Se non sapessi che Stefano Frollano è italiano e se sul disco non ci fosse scritto “made in Italy”, ascoltandolo al buio penserei che di avere tra le mani, o nelle orecchie, il disco di un epigono del suono westcoastiano venato di easy listening di fine seventies. E in effetti non andrei molto lontano: Stefano Frollano, musicista e autore di libri musicali (imperdibili la discografia illustrata di Neil Young uscita per Coniglio Editore e la monumentale opera in inglese a più mani “Crosby Stills Nash and sometimes Young) è realmente un epigono del suddetto sound, anche più che un epigono, vi è talmente dentro che le sue composizioni sono west coast a tutti gli effetti, col pregio da non sottovalutare di mantenere una propria originalità, di non apparire mai citazioni o imitazioni.
Credo si tratti di un chiaro segnale di professionalità e di capacità di assimilare senza per forza copiare i sacri modelli. Nelle canzoni che compongono questo Sense Of You ci sono sì echi di questi modelli, ma ogni brano brilla per conto suo, piuttosto è l’uso di amici musicisti come Jeff Peavar e James Raymond (il suo piano è inconfondibile) a definire il sound qua e là, senza mai invadere. Certo, ci sono echi del Neil Young acustico ed intimista nel brano di apertura – ripreso in chiusura in versione cantata al femminile -, in (She Won’t) Fly Away e Chagall Song non mancano rimandi a James Taylor, così come nella chitarra elettrica di Believe il richiamo è di nuovo al canadese di CSNY, ma la cosa bella del disco è che viaggia bene da solo, ha un suo perché, un suono unitario che avvolge, ecco se proprio devo dirne una, io non ci avrei messo il sassofono e la tromba, ma solo perché a me non piace il loro utilizzo in questo tipo di musica, però per il resto questo Sense Of You è davvero buono, Frollano si fa accompagnare oltre che dai titolati amici californiani di cui sopra, anche da un gruppo di amici italiani che si occupano di tastiere e sezione ritmica (le chitarre sono rigorosamente sue!) e di amiche che gli offrono dei duetti vocali di gran livello, tutte molto brave, da Gabriella Paravati a Paola Casella a Chiara De Nardis e Laura Visconti – che nell’acustica Northern Lights fa sembrare che Frollano stia duettando con la grande Grace Slick! -.
Persino il brano che mi piace di meno, Fallin’ Apart (troppo Nash) rinasce alla fine grazie ad un’azzeccata e magistrale coda di organo hammond. La parte del leone è comunque nelle note di The Dance, scelta anche come singolo radiofonico, in versione editata inserita nel disco come bonus track, e nella tilte track che beneficia un’introduzione strumentale da paura.
Paolo Crazy Carnevale
TIM O’GARA – Sticky As Tobacco (2005)
Non sono molte le cose che posso dirvi su di lui, Tim O’Gara è uno dei numerosi artisti che affollano l’immensa America, per di più vive nella più affollata delle aree urbane statunitensi, quella di Los Angeles, dove di talenti inespressi o di aspiranti talenti ce ne sono a dozzine.
Lui un certo talento lo ha a giudicare da questo disco indipendente realizzato con l’aiuto e la produzione di Steve McCormick, grazie al quale sono venuto in possesso di questo cd. Cd: però con la lista dei brani suddivisa in “side 1” e “side 2”, col pensiero che naturalmente vola subito ai vecchi (e nuovi) vinili.
E l’idea mi piace. Una quindicina di brani di varia ispirazione, ma seguendo un loro filo logico, come un concept: la prima facciata è sottotitolata Hills Of Connnemara, con un evidente richiamo alle origini del nostro tradite fin dal nome, e la musica, che pur non potendo essere definita irish è comunque una sorta di canzone d’autore con molti riferimenti al paese d’origine, soprattutto per l’uso di strumenti come bouzouki, penny whistle, gourds che vengono abilmente mescolati a banjo, mandolino, dobro e pedal steel. Irlanda dunque, ma con testi che parlano di L.A. River, Topanga, Hollywood, come a dire che l’orecchio oltre che alla terra dei padri è rivolto anche alla terra d’adozione. Addirittura all’inizio della side B, che si chiama Henry Ridge si fa uso di congas, djembe e bonghi, con richiami alla musica tribale, e nel brano David Zasloff ci sono corno inglese e clarinetto per ricreare atmosfere che conducono alla musica degli immigrati dell’est europeo.
A guardare la lista dei musicisti ci si accorge che più d’uno ha il nome che come quello del titolare è d’origine irlandese, ma ci sono anche altri losangeleni nei credits, magari non famosissimi ma i cui nomi non possono passare inosservati, come quello di Stan Behrens, armonicista e sassofonista in una delle reincarnazioni dei Canned Heat, c’è Peter Fox – musicante di documentari – che suona il piano in un brano e c’è Eric Heywood – Ray LaMontagne e Son Volt sono tra le sue collaborazioni più note – che con la sua pedal steel duetta con la slide del producer in Whoo Goes The Train una delle migliori canzoni del disco.
Tim O’Gara, mi è stato detto, all’epoca delle registrazioni faceva il giardiniere per mantenersi, e ben due brani sono intitolati con i nomi di piante, l’iniziale Bamboo e Jacaranda, altra canzone molto riuscita. Belle anche la title track in cui l’autore canta di una sua ragazza appiccicosa come il tabacco (quello da masticare, presumo), L.A. River e This Sweet By And By – una sorta di irish bluegrass che ricorda il miglior Bob Geldof – scritta in coppia col produttore McCormick che nel disco si destreggia suonando chitarre d’ogni tipo, mandolino, organo e batteria, conferendo all’intero disco un suono pacato e intimista curato in ogni minimo dettaglio.
Paolo Crazy Carnevale
JONNY KAPLAN & THE LAZY STARS – Seasons (Bittersweet Recordings 2007)
Schitarrata sghemba, riff che più rollingstonesiano non si può, poi innesto di piano alla Hopkins, e infine, dopo l’arrivo del cantato, anche un bell’organo (lo suona Rami Jaffee), questo è l’attacco di Smoking Tar, brano d’apertura di questo probabilmente terzo disco del rocker Jonny Kaplan (sì proprio Jonny senza l’acca tra la a e la prima enne) valente rappresentante di un country rock molto rock e poco country che si suona nell’odierna west coast ed ha i suoi fari illuminanti nel sound degli Stones appunto, di certe cose di Gram Parsons, Dylan, ma anche un sacco di altri modelli sparsi qua e là nel patrimonio musicale americano.
Tutto questo preambolo racchiude pregi e limiti – non difetti – della musica di Kaplan. Non una mancanza di originalità, per carità, le idee sono buone, ma qua e là emergono riferimenti ai modelli che sono troppo evidenti per poter essere sottaciuti. Se il primo brano – comunque una delle cose migliori del disco – è un bel rock ruspante come gli Stones non ne compongono da tempo, e quindi viene naturale di entusiasmarsi ed esserne felici, il successivo, dopo aver fatto più che ben sperare con una stratosferica partenza guidata da hammond e armonica, su cui si innesta una chitarra baritonale, da metà in poi vira nel già sentito: Seasons, brano eponimo del disco suona infatti come una Mr. Tambourine Man elettrificata e rivestita a nuovo, ed è un peccato perché le prime due strofe erano davvero potenti. Il già sentito si ripresenta con la traccia numero tre, Still Lonely con un riff che sa tanto di Lou Reed. Con la quarta traccia, Keep Rollin’, ci troviamo davanti ad un bel rock che brilla di suo, con una bella voce femminile che affianca quella del titolare colorando una canzone sorretta da chitarre taglienti. La successiva Golden Years è più lenta e di nuovo caratterizzata dalle tastiere di Jaffee, uno che col suo hammond riesce a mettere un tocco inconfondibile su tutto ciò che suona. Procedendo con l’ascolto di questo cd prodotto in Spagna – dove Kaplan gode di un largo seguito – ma suonato in California con l’aiuto di una band ispanica, emergono anche richiami a Tom Petty (Miracle Mile Madonna), di nuovo agli Stones (Together In The Morning sembra in tutto e per tutto una di quelle canzoni che canta Keith Richards, cosa che ci fa intuire quale degli Stones eserciti maggior influenza su Kaplan).
Per contro Long Rain, chitarre sempre in evidenza, paga meno dazio ad altra musica lasciando venire fuori per bene il talento di Kaplan.
Il disco si conclude con uno strano brano per sole chitarra elettrica e voce, Sunflower Hair, dall’andamento vagamente “finto blues”.
Paolo Crazy Carnevale