Archivio di febbraio 2019

ANDREW SHEPPARD – Steady Your Aim

di Paolo Baiotti

27 febbraio 2019

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ANDREW SHEPPARD
STEADY YOUR AIM
A.Sheppard 2018

Cantautore cresciuto a Hailey in Idaho in una famiglia di musicisti, Andrew ha iniziato da adolescente come bassista in un gruppo punk. A 19 anni ha imbastito le prime composizioni, a 26 ha esordito con Far From Home seguito tre anni dopo da Steady Your Aim, secondo disco solista registrato a Nashville e co-prodotto con Was Walsworth e Eric Loomis (proprietario dello studio Ivy Hall) che si alternano alla chitarra elettrica, mentre Andrew si occupa dell’acustica, Smith Curry della lap steel e pedal steel e Chris Tuttle delle tastiere. Completano il nucleo di accompagnatori la sezione ritmica formata da Joe Giotta (batteria) e Nick Archibald (basso, occasionalmente anche al piano), un paio di coriste e David Henry al violoncello. Sheppard si inserisce nella corrente dell’outlaw country con influenze di blues e americana. Nella sua vita si è già mosso molto; terminati gli studi liceali si è trasferito a Los Angeles per seguire la passione per lo skateboard, abbandonata o almeno passata in secondo piano dopo un incidente. Tornato alla musica ha formato nel 2008 The Gypsy River Haunts, sciolti cinque anni dopo. A questo punto ha percorso 8.000 miglia in auto con il suo cane, raccogliendo storie e aneddoti che hanno ispirato molte canzoni. Il viaggio è terminato in Idaho dove ha ritrovato le sue radici e la voglia di vivere in montagna, vicino alla natura. Dopo il primo album ha suonato ovunque, compresi alcuni festival di buon livello. Il nuovo album comprende alcune canzoni sul viaggiare, come l’opener Take A Walk With Me, un mid-tempo rilassato tra country e folk con un organo soul che racconta del suo trasferimento da Los Angeles alle montagne del sud della California, il disincantato ritratto della vita on the road Steady Your Aim e Travel Light And Carry On, incisiva canzone di ispirazione western con tocchi di lap-steel. Ma Andrew si occupa anche di rapporti interpersonali come nella riflessiva Standin’ Tall e nell’intimo gospel-blues Further Away, non tralasciando qualche riflessione politico-sociale nel country-roots Not My Kind. Se country e folk sono le basi del suono di Andrew, non manca un tocco di rockabilly nella scattante Here At The Bottom, che contiene uno dei pochi assoli di un disco senza fronzoli, pieno di melodie accattivanti.

JIM STANARD – Bucket List

di Paolo Baiotti

24 febbraio 2019

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JIM STANARD
BUCKET LIST
Manatee Records 2017

A volte la Jstrada per incidere il disco d’esordio è piuttosto tortuosa. La storia di Jim Stanard avvalora questa affermazione. Cresciuto nella zona di Bryn Mawr in Pennsylvania frequentando il leggendario Main Point negli anni sessanta, dove ha ascoltato Tom Rush, Doc Watson e Bruce Springsteen, ha assistito al festival di Woodstock nel ’69 cercando di farsi strada nell’ambiente fino a quando, intorno ai 25 anni, ha dovuto fare una scelta. Ha smesso di suonare, dedicandosi al mondo della finanza e delle assicurazioni, dove ha avuto molto successo ottenendo posizioni di primo piano. Agli inizi del nuovo millennio, avvicinandosi la fine della carriera lavorativa, la moglie lo ha incoraggiato a coltivare nuovamente la passione giovanile; Jim l’ha ascoltata, ha preso lezioni di chitarra da Jon Skibic (già con The Afgan Whigs e Fountains Of Wayne) e vocali da Kip Winger (già con Alice Cooper e poi leader dei Winger, metallari molto popolari alla fine degli anni ottanta), ha iniziato a comporre e a cantare con convinzione, incidendo e producendo Bucket List a Nashville, con l’aiuto di Winger al basso e di Skibic alla chitarra, oltre a Scott Trammell alla batteria, Mike Rojas alle tastiere e Bobby Terry al banjo.
Bucket List è un disco di folk-roots venato di country, giocato prevalentemente su ritmi lenti e medi, ponendo attenzione principalmente ai toni melodici, adatti alla voce educata, gradevole, ma poco caratteristica di Stanard. I testi alternano osservazioni generali sulla politica e sulla società come nell’intensa ballata western Dogs Of War, forse la traccia più incisiva, nel roots-rock Can’t Happen Here e nel conclusivo rock and roll di It’s All Turtles a riflessioni più personali sulla vita e sulle relazioni come nella ballata country Meant To Say e nell’up-tempo Hard To Please, mentre l’elettroacustica Sparks, Nevada ricorda i Dire Straits più morbidi.
Jim si è tolto lo sfizio di incidere un disco che non resterà nella storia, come altri anche di musicisti molto più esperti, prodotto con cura e suonato senza strafare.

DOUG SCHMUDE – Burn These Pages

di Paolo Baiotti

21 febbraio 2019

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DOUG SCHMUDE
BURN THESE PAGES
Lost Hubcap 2018

Nato a Baton Rouge in Louisiana, cresciuto in Texas e Oklahoma, Doug ha vissuto in otto stati diversi. Ha iniziato a scrivere e a suonare dal vivo in Colorado a Boulder negli anni novanta, poi si è trasferito a Nashville dove ha formato un duo di blues acustico, Hot Foot Delta che ha riscosso notevoli apprezzamenti in Tennessee testimoniando la sua passione per il Delta Blues. Attualmente risiede nel sud della California, dove suona prevalentemente da solo alternando brani storici di blues alle sue composizioni, che formano la base dei quattro dischi che ha inciso, a partire da A New Century del 2003, seguito da All These Avenues del 2014 e Ghost Of The Main Drag del 2017, fino a Burn These Pages, autoprodotto l’anno scorso e registrato a Irvine negli Old Mill Studios. Doug ha fatto quasi tutto da solo: ha composto i brani dell’album, eccetto una cover, canta, suona chitarra, basso e talvolta anche batteria e tastiere. L’up-tempo melodico di Setting Fires On The Moon interpretato con voce morbida e arrangiato con gusto apre il disco, che prosegue con la ballata confidenziale Just The Night, nulla di speciale, e con la ritmata Crescent City Home in cui si apprezza una slide incisiva. Nella parte centrale trovano spazio i brani migliori: la border-song El Tren de la Muerte, ispirata dal libro The Beast del giornalista di El Salvador Oscar Martinez che racconta la storia della rotta migratoria che dal Centro America attraversa il Messico fino al confine con gli Usa con accenti western che potrebbero appartenere a Tom Russell o Dave Alvin, il brioso folk Silas James, racconto sull’immaginario proprietario di un negozio di dischi che usa la musica per aiutare i suoi clienti e Worry Stone, brano intimo e riflessivo con il violino di Georgiana Hennessy e un cameo vocale della cantautrice Carter Sampson. La seconda parte del disco è più grintosa con la ritmata The Light, il robusto rock di Salt e il roots-rock Enough Rope, cover di Chris Knight che si alternano alla sofferta My Daddy’s Musket, ispirata dalla storia di una donna della Carolina del Nord che riceve ancora una pensione legata alla Guerra Civile in cui il padre aveva combattuto per entrambe le parti, circostanza che la costringe a sopportare insulti da sudisti che la considerano una traditrice e all’accorata ballata Burn These Pages, che chiude un album di discreto livello.

DREAM SYNDICATE – How We Found Ourselves… Everywhere

di Paolo Crazy Carnevale

21 febbraio 2019

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DREAM SYNDICATE – How We Found Ourselves… Everywhere (Anti 2018)

Sull’onda del successo di pubblico raccolto dal tour con cui hanno promosso il disco della reunion uscito nel 2017, i Dream Syndicate hanno dato alle stampe (complice la label Anti, che aveva pubblicato quel disco) un vinilone dal vivo (o quasi) che è stato messo in circolazione in occasione del Record Store Day.

Sono solo sei le tracce qui raccolte, ed una è un’outtake di studio rimasta fuori da How Did I Find Myself Here, però tenendo conto che ci sono due brani che superano i dieci minuti, per avere più canzoni si sarebbe dovuto avere un doppio vinile.

Per il gusto personale del vostro recensore, che non è mai stato un entusiasta del per altro celebratissimo doppio At Raji’s, il live migliore del gruppo resta quello uscito a seguito di Medicine Show, quando c’era ancora l’inestimabile Karl Precoda alla sei corde, questo nuovo live viene però subito a ruota, il suono è energico, più sporco e il gruppo gira molto bene (oltre al leader Steve Wynn ci sono il bassista Mark Walton, il batterista Dennis Duck e l’ultimo arrivato Jason Victor, collaboratore di Wynn da diverso tempo in altre avventure musicali).

Il disco si apre con l’inedita Recurring (Steve’s Dream) brano dal testo ossessivo su cui si dipanano i nervosismi delle chitarre e della sezione ritmica, la registrazione è stata fatta a Richmond, in Virginia, e prelude ad una lunga ineccepibile versione del brano che intitolava il disco del 2017, una versione molto elettrica e sicuramente più bella di quella di studio. È presa da un concerto norvegese e beneficia non poco della presenza delle tastiere di Chris Cacavas, decisamente in forma, e della lap steel di John Paul Jones, proprio lui, il bassista dei Led Zeppelin.

Wynn e Victor duellano con le elettriche mentre la sezione ritmica pulsa nervosamente.

Chiude il lato A una rielaborazione della classica Medicine Show, di nuovo con Cacavas in veste di tastierista: siamo alla TV tedesca, in occasione di una puntata del Rockpalast, e per quanto sia difficile dimenticare la versione originale del brano, il nuovo arrangiamento, più veloce, ha il suo fascino.

Girando il disco troviamo la vecchia When You Smile, un classico sin dai primi esordi, poi c’è l’immancabile John Coltrane Stereo Blues, sempre distorta, lunga, con le chitarre in primissimo piano (d’altronde qui non ci sono ospiti): anche in questo caso l’arrangiamento è riveduto. A chiudere il tutto c’è una spettacolare versione di Glide, indiscutibilmente il brano migliore del disco della reunion, oltre sei minuti infuocati, presi da un broadcast radiofonico, che rendono la composizione ancor meglio che nella versione di studio.

VIOLENTI LUNE ELETTRICHE di Donata Ricci

di admin

14 febbraio 2019

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VIOLENTI LUNE ELETTRICHE
Crema di un futurismo d’antan

Di Donata Ricci

Non ti inquietare Marinetti, se scegliendo il loro nome le Violenti Lune Elettriche si sono concesse una licenza poetica. Tieni conto che, per il resto, il tuo Manifesto del Futurismo lo rispecchiano in pieno, visto che celebrano, a modo loro certo, “le grandi folle agitate dal lavoro” e “le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni”. Anzi, dovresti essere grato che ti scrivano un’appendice sostanziosa, che poi è tutta contenuta nella definizione della loro opera quale “Musica Materica dell’Età del Ferro Atomico Bio-Cibernetico”. Ma ora lasciami scrivere una presentazione più canonica, altrimenti saremo responsabili dell’emicrania del lettore.

Le Violenti Lune Elettriche (d’ora in poi VLE) provengono dalla Bassa cremonese e si muovono sull’asse Crema-Castelleone. Sono in quattro (cinque se consideriamo la presenza spirituale di Gigi Bertuzzi, amatissimo batterista del gruppo, scomparso prematuramente nel 2015). Sfoggiano nomi d’arte che provocano un certo disorientamento: Liv-Liv (voce), G’ino TxD5 (chitarra), mentre la sezione ritmica si mantiene nell’ortodossia con Danilo Somenzi (basso) e Italo Trabattoni (batteria). La loro discografia è più che parca: due dischi in venticinque anni (1991 e 2016) ma non disperiamo… il terzo è già in fase di elaborazione. Nonostante la loro parsimonia produttiva, le loro origini sono antichissime (con l’Età del Ferro quasi ci siamo) se pensiamo che il chitarrista G’ino TxD5 (d’ora in poi Gino e basta, che già mi ha fatto giurare che non avrei svelato il suo vero nome), G’ino dicevamo, ossia l’anima delle VLE, compositore in solitaria di testi e musica, nonché autore dei dipinti che vanno a finire sulle copertine dei loro dischi, è un creativo di lungo corso. In quattro decenni ha dato vita a una serie di formazioni tra le più originali del nostro underground. Minimo Lumen, A, Astrali Neon Zuni. Tutti nomi estrosi per formazioni che hanno avuto ognuna una durata di tre anni, giusto per aggiungere mistero.

Nel tentativo di schedare l’inschedabile, occorrerebbe spiegare che musica fanno le VLE. Intanto diciamo che i testi sono in italiano, con l’unica eccezione anglofona della canzone Le rotolanti pietre del sole (niente a che vedere con gli Stones, troppo facile), che tuttavia conserva l’italiano nel titolo, tanto per scompaginare le carte. Trattano temi grandi, grandissimi, spesso mutuati dalle Sacre Scritture: inquietudini cosmiche, apocalissi proteiformi, tecnologie fagocitanti, stratificazioni e implosioni, piogge acide, plac plac plac su fiori e foglie, perché l’onomatopea è il loro quinto strumento. Non mancano sguardi più terreni, come l’anelito all’uguaglianza sociale che osa l’utopia di un socialismo che, pur non essendo reale, non impedisce loro di rilasciare dichiarazioni di questo tenore: “Gli umili e gli oppressi Dio li innalzerà, i ricchi e i potenti Dio li brucerà” (L’Apocalisse adesso). L’interrogativo a questo punto si fa pressante: che tipo di musica può veicolare tematiche tanto impegnative? Il modo migliore per rispondersi sarebbe partecipare a uno dei loro incendiari live act, magari al Cactus Cafè di Castelleone dove sono pressoché di stanza e che, ogni volta che in cartellone ci sono le VLE, si trasforma in un CBGB padano. E tu che sei lì a due metri dal palco hai la sensazione che lì sopra ci siano gli Stooges e che l’appellativo “animale da palcoscenico” sia stato coniato appositamente per il corpulento, incontenibile vocalist Liv-Liv. Lo zoccolo duro dei seguaci conosce ogni parola dei testi, perché qui in terra cremonese le VLE sono una piccola religione. E loro calano un tiro potente, che se proprio vogliamo infilare in una categoria direi hard rock. “La nostra musica è quella di sempre – semplifica G’ino – quella che ascoltavamo da adolescenti: Jimi Hendrix, Black Sabbath, Cream. Il suono è rimasto quello”. Certo è che non esci indenne dall’impatto con le VLE. Cercate in rete il video di Bwang e ascoltate il suo riff: vi sembrerà di aver infilato le dita nella presa elettrica.

È ciò che deve aver pensato il nostro indimenticato Daniele Ghisoni quando, da giurato, li incrociò nel 1990 al MAST di Cremona e assegnò loro il primo premio in un concorso per rock band. Per dire come le strade a volte si incrociano e tessono canovacci. Perché quella delle VLE è anche una bella storia di provincia, di quelle che Tondelli avrebbe scritto volentieri: un gruppo formato da artigiani della musica (loro si definiscono “artistigiani”) allettati dal sogno del professionismo, ma abbastanza umili da accettarne la rinuncia quando divenne chiaro che toccava accontentarsi di considerarla una forte passione. E qui le soddisfazioni non difettano: top ten radiofoniche, la stampa non soltanto locale, Rockerilla che nel 1993 li piazza in classifica a pari merito con gli Afterhours. Uno di quei bei sogni che partono da una registrazione in diretta su un otto piste a nastro, per una tiratura di cinquecento musicassette, per poi, l’anno dopo, compiere subito il grande salto verso il longplaying. E con un amico che decide di indossare la casacca da manager per procurarti contratti telefonando da una cabina a gettoni, un po’ come faceva Rob Gretton con i Joy Division.

Credono nelle “coincidenze significative” junghiane, le VLE. Ciò spiega il loro ritrovarsi e ripartire vent’anni dopo l’esordio. Puntano sulla convivenza delle diversità, giacché gli altri membri della band sostengono con convinzione i testi confessionali di G’ino, pur non essendo credenti. Testi che non nascondono una netta propensione alla rima accentata e ai verbi al futuro: un peccato veniale di ampollosità che, insieme al tono declamatorio, richiama il Giovanni Lindo Ferretti periodo C.S.I. E non è necessariamente un male. Osano parecchio. “Stanno come d’autunno sugli alberi le foglie” (Soldati) è Ungaretti servito su un letto di Huriah Heep. Contraddicono Guccini asserendo che “Dio non è risorto ancora”. Respirano la stessa aria acida di Jerry Garcia nella sitaristica Mantra, un pezzo che profuma di viaggio all’Eden, o nel bellissimo brano Il sogno delle farfalle metalliche dove, grazie a un ritornello orecchiale ma per niente banale, si palesa la sapiente mescolanza di espressione colta e popolare. Anche Lungo i marciapiedi e Nuovo mondo si accostano alla forma canzone e questo chiarisce definitivamente che le VLE non aspirano a un trono fra gli alieni, ma sanno anche scherzare con la citazione beatlesiana di Magico Misterico Tour.

Una band ottimamente amalgamata anche dal punto di vista squisitamente strumentale: un cantante tutto anima e sudore, una sezione ritmica metronomica e indispensabile e un chitarrista dalla strepitosa abilità. A lui spetta il compito della ritmica, della solita, di tessere la melodia. Ha uno stile tanto classico quanto personale, basti ascoltare JJ Blues, dedicato allo storico drummer Gigi Bertuzzi, un blues canonico tentato però da digressioni e sconfinamenti dalla tradizione. La chitarra di G’ino è un labirinto in cui puoi perderti, esattamente come nei suoi disegni zeppi di simbolismi e di figure miniaturizzate come nei dipinti di Brueghel. Ma una cosa va precisata: Le VLE sono e vogliono essere un’espressione collettiva perché, anche in un mondo bagnato da “lacrime d’olio” e sporcato di “vinavil di tristezza”, non ci son re.

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L’INTERVISTA

Gino, dove comincia tutto?

Qualche anno di liceo mi bastò per capire che avrei voluto diventare una rockstar; qualche supplenza come maestro mi bastò per capire che avrei voluto partire per Londra. Infatti partii e mi sistemai in uno squat del quartiere giamaicano. Poi volai a New York e da lì, attratto dalla mitologia hippie, attraversai l’America su un Greyhound. Avrei voluto farlo in autostop per imitare Sal Paradiso, ma me lo sconsigliarono. Erano gli anni ‘80. Incontrai gli Amish, i Born again Christian colti dall’estasi e varia umanità. Fu un’esperienza importante, poi tornai in Europa. Ma non ancora in Italia.

Dove esattamente?

A Parigi. Facevo le pulizie a Le Figaro e intanto suonavo in un gruppo rock. Ma rockstar non divenni mai. Così dopo tre anni di vagabondaggio rientrai in Italia, senza arte né parte, mi sposai e tentai ancora di trasformare la musica in una professione. Formai gli A, che nella Milano da bere ebbero i loro momenti di gloria, insieme ad Elio e le storie tese. Gli A durarono tre anni. Poi formai le VLE, la cui prima fase durò anche’essa… tre anni. Il numero tre è ricorrente nella mia vita, dev’essere il soffio della Trinità.

Mi fornisci un assist. Nei tuoi testi sono frequenti i riferimenti biblici. Come nasce la tua attrazione per le Sacre Scritture?

Mi considero un riconvertito al Cristianesimo. Dopo l’educazione cattolica che più o meno tutti abbiamo ricevuto, me ne sono allontanato. Però in seguito sono tornato a “credere” per meraviglia nei confronti del Creato.

E poi?

Poi ho letto i Vangeli e anche Jung con le sue “coincidenze significative”, che sono una specie di “sincroniticità”, nient’altro che ciò che il Cattolicesimo chiama “provvidenza”: far incontrare cose assolutamente lontane. È grazie a una coincidenza significativa che le VLE si sono rimesse insieme dopo lo scioglimento del 1992. L’aspetto curioso è che i miei compagni sono miscredenti, qualcuno addirittura è un bestemmiatore. Ciò nonostante abbiamo una sintonia perfetta perché la musica supera molte barriere.

Sei affascinato dal mistero

È esatto. Dal mistero che tutto ammanta prende il nome la mia musica che definirei “Rock misterico dell’Età Oscura”.
Mi gira la testa con tutte queste definizioni…
Posso capirti. Chiunque avverta il veloce e inarrestabile trascorrere del tempo prova una sorta di destabilizzazione. Chiunque comprenda che la nostra esistenza è una voce tra due grandi silenzi – il silenzio del passato che non è più e il silenzio inquietante dell’avvenire – sa che vivere nel tempo è un continuo trascorrere/passare/morire. Dunque la soluzione per vivere senza morire veramente è trascendere il tempo. Solo l’eternità è vita.

Il vostro brano “Dio non è risorto ancora” vuole evidentemente essere una risposta al Maestrone…

Certo. Mentre in “Dio è morto” Guccini terminava con la speranza della resurrezione, il nostro testo ha una deriva pessimistica. Quell’utopia purtroppo non si è realizzata.

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Come riesci a conciliare pessimismo e fede religiosa?

Esiste un Giusto Pessimismo senza il quale non si combinerebbe nulla di grande. È la forza amara che rende il cuore coraggioso. La vera casa dell’uomo è il Cielo. Siamo immersi in una corrente migratoria incessante. Siamo un punto che appare e scompare, appare e scompare. Tuttavia il mondo non finisce con noi, ma continua a fluire, da Ponente a Levante. In altre parole mi considero un “pessimista terreno” e un “ottimista cosmico”. Il mio pessimismo deriva da un’analisi disincantata della società, invece il mio ottimismo nasce alla fiducia nell’individuo. Essere credente non mi impedisce di prendere atto delle negatività del mondo, però se guardo alla bellezza delle relazioni interpersonali divento fiducioso.

Quindi credi nell’individuo ma non nelle collettività?

Sì, è così. La mia fiducia viene meno quando la sovrastruttura che domina gli individui prende determinate direzioni. Penso per esempio alla tecnologia esasperata e mi domando cos’abbia portato di utile nel Burkina Faso o negli slum di Nairobi. Penso alla degenerazione dei significati: l’idea orwelliana del Grande Fratello è stata perlomeno banalizzata.
Credi sia possibile realizzare una società fondata sull’uguaglianza?
Sarò un utopista ma penso che, terminata la fase della “Fatalità Storica”, l’assolutizzazione della ricchezza si sgretolerà insieme al capitalismo.

I linguaggi con cui ti esprimi sono vari: musica, scrittura, pittura. Immagino sia gratificante.

Sicuramente. Mi permettono di mostrare i miei diversi volti ed esprimere i miei differenti umori. Per esempio, mentre nella musica metto la cupezza, nella pittura adopero colori solari e accesi. Sono un frequentatore di discariche: recupero le cassette delle mele, le smonto e le rimonto, poi ci dipingo sopra. Te lo dicevo che sono un “artistigiano”…

Permettimi una domanda più prosaica, giusto per riguadagnare il suolo dopo un volo negli spazi siderali: visto che non sei diventato una rockstar, cosa fai per sbarcare il lunario?

Per un po’ di tempo ho suonato il liscio nelle balere, Angela Ghezzi e così via. Poi, quando non ne ho potuto più, ho tolto dal cassetto il diploma di maestro elementare e sono diventato educatore e insegnante di sostegno. Seguo bambini autistici e faccio alfabetizzazione a quelli stranieri. Il bello è che adopero la musica, li faccio suonare – chitarra, tamburi, quello che c’è – e creo canzoncine per loro.

Gli parli anche dell’Apocalisse?

Quando saranno grandicelli… perché no?

disco

BODINROCKER – Eye To Eye

di Paolo Baiotti

13 febbraio 2019

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BODINROCKER
EYE TO EYE
Bearman Music 2018

Qualche mese fa ci siamo occupati di un Ep di Bodinrocker, comprendente quattro brani con due tracce che anticipavano un nuovo disco e due tracce dall’album Rock It The Right Way del 2014. In seguito è uscito Eye To Eye, quarto album di Anders Bodin, in arte Bodinrocker. Anders compone tutte le musiche, affidando gran parte dei testi all’olandese Jan Leenties, canta e suona la chitarra, aiutato da Lars Ekberg alle tastiere e dalla sezione ritmica del gruppo svedese Sven-Ingvars formata da Stefan Deland (basso) e Klas Anderhell (batteria). Influenzato principalmente da Status Quo (e si sente!), Beatles, Slade e T-Rex, un incrocio tra boogie-rock, pop e glam, si è dedicato seriamente alla musica dopo il trasferimento da Uppsala a Goteborg intorno al 2000, esordendo sei anni dopo con Hall Of Flames, prodotto da Lars Ekberg con il quale collabora da sempre, un disco di classic rock che ha ottenuto discreti riscontri. Nel 2010 è uscito Mysterious Man, quattro anni dopo Rock It The Right Way con la stessa formazione di Eye To Eye. Bodin non ha particolari ambizioni se non quella di divertire con canzoni semplici, scorrevoli, divertenti e ottimiste, ideali da essere ascoltate durante un viaggio in auto o su una spiaggia assolata. Vacation è una partenza brillante, un boogie-rock trascinante, seguito sulla stessa falsariga da Brown Bear con un riff debitore degli Ac/Dc, che racconta la storia (o leggenda) dello scontro tra un antenato del musicista e un orso bruno. Il lato pop è privilegiato nella melodica My Way, nell’elettroacustica Lazy Day e in New Sweden, soft-rock un po’ anonimo, mentre l’influenza degli Status Quo è evidente nella mossa Got No Time, in cui la chitarra solista assume un ruolo importante. Se Roller Coaster Ride, già ascoltata sull’ep sopra citato, è una delle tracce migliori, un rock incalzante e tonificante, il suono si indurisce nel finale con il boogie-rock di That Old Twelve-Bar, con la robusta (e un po’ banale) Can’t Live Without It e con la traccia conclusiva Life Ain’t Fair, un up-tempo coinvolgente con un riff che richiama gli Ac/Dc e un andamento che mischia glam-rock e melodia pop in modo gradevole.
Eye To Eye è un disco sciolto e disinvolto…caratteristiche non comuni nel rock contemporaneo.

KENTUCKY HEADHUNTERS – Live At The Ramblin’ Man Fair

di Paolo Crazy Carnevale

13 febbraio 2019

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KENTUCKY HEADHUNTERS – Live At The Ramblin’ Man Fair (Alligator/IRD 2019)

Dopo il disco per la Alligator col pianista Jimmy Johnson (inciso all’inizio del millennio ma rimasto inedito fino al 2015), i sudisti Kentucky Headhunters hanno deciso di rimanere accasati presso l’etichetta di Chicago, ecco così prontamente realizzato per la bisogna un esplosivo disco dal vivo col quartetto del Kentucky decisamente a proprio agio sulle assi di un palcoscenico, nella fattispecie quello della Ramblin’ Man Fair, durante una rassegna che vedeva altri illustri ospiti, come avremo poi modo di vedere analizzando il contenuto del disco.

La performance del gruppo dei fratelli Young (Richard alla chitarra ritmica e Fred alla batteria) è compatta, tesa, senza fronzoli: il risultato è un rock di matrice sudista che prende un po’ da tutti i gruppi storici del genere, c’è qualche sprazzo del sound dell’Allman Brothers Band, ma soprattutto ci sono le schitarrate (Greg Martin il responsabile) in stile Lynyrd Skynyrd, con echi dei primi Molly Hatchet o dei Blackfoot.

L’apertura è affidata ad una robusta rivisitazione della classica Big Boss Man, già eseguita da molti, da Elvis ai Grateful Dead: la versione dei Kentucky Headhunters va oltre, si velocizza, diventa incalzante. Ragtop è un buon brano originale tratto dal disco d’esordio del 1989 mentre Stumblin’ stava sul disco precedente, quello con Johnny Johnson (che ricordiamo ha collaborato a lungo con Chuck Berry), così come l’ottima Shufflin’ Back to Memphis, particolarmente skynyrdiana, con Martin impegnato in evoluzioni pirotecniche alla sei corde. Intensa e urlata la versione di Have You Ever Loved A Woman? che con i suoi sei minuti e passa è uno dei tour de force del disco (l’altro è My Daddy Was A Milkman in cui il gruppo cita anche il vecchio Bo Diddley): le chitarre viaggiano gran bene mentre il basso suonato da Doug Phelps fa un ottimo lavoro.

Con Wishin’ Well l’atmosfera si velocizza e si fa ancor più incandescente mentre Walkin’ With The Wolf vira verso il classico boogie sound con Martin impegnato alla slide.

Nel finale, raggiunti sul palco dai Bad Touch e dai Black Stone Cherry al completo, in cartellone nella stessa rassegna da cui proviene il concerto, i canuti e capelluti cacciatori di teste kentuckiani si lanciano in una sbilenca cover della beatlesiana Don’t Let Me Down, forse non perfetta (raramente i momenti corali di questi concerti lo sono) ma sicuramente divertente.

Ma se il concerto a questo punto è terminato, non lo è il disco, che mette sul piatto tre bonus track provenienti dalle vecchie session con Johnson: Rock Me Baby, Rock’n’Roller e High Heel Sneakers.

XAVI REIJA – The Sound Of The Earth

di Paolo Crazy Carnevale

13 febbraio 2019

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XAVI REIJA – The Sound Of The Earth (Moonjune 2019)

Il batterista ispanico Xavi Reija è ormai da tempo accasato presso l’etichetta Moonjune: questo nuovo disco, registrato con i fedelissimi Dusan Jevtovic (chitarrista serbo, compagno di scuderia e co-titolare con Raija di un disco in duo) e Tony Levin, ormai un pilastro del basso, anch’egli frequentemente coinvolto in produzioni di casa Moonjune.

The Sound Of The Earth, questo il titolo del disco, prende le mosse da un brano che era apparso in origine proprio sul disco in duo con Jevtovic: il brano in questione, Deep Ocean, viene qui posto in apertura quasi a contrapporre il suono del mare, dell’oceano a quello della terra che viene sviluppato nel disco attraverso quattro differenti suite inframmezzate da altri brani più brevi.

A completare il gruppo, nel disco troviamo anche la touch guitar di Mark Reuter, un altro benemerito dell’etichetta newyorchese.

Il disco si sviluppa senza risparmiarsi nelle contaminazioni e nelle citazioni, come indicano le stesse note di copertina tra le fonti d’ispirazione ci sono persino Jeff Beck, Curtis Mayfield, gli Eagles: ma sono sol spunti, il disco è un disco fortemente sperimentale, come si addice alle produzioni Moonjune, e se nella terza suite eponima del disco emergono richiami a certo soul/blues, se in Lovely Place ci sono echi del mai dimenticato Hotel California, soprattutto da parte della chitarra di Reuter, il resto è all’insegna dell’avanguardia, tutto sorretto dal drumming robusto del titolare.

Le quattro lunghe suite sommate insieme raggiungono e superano da sole i quaranta minuti, l’ultima, la più lunga passa addirittura il quarto d’ora, all’insegna di certe atmosfere che richiamano l’elettronica di Ned Lagin, ma qui gli strumenti sono veri.

A/B TRIO – Trioliloquy

di Paolo Baiotti

10 febbraio 2019

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A/B TRIO
TRIOLILOQUY
Chronograph 2018

A/B Trio riunisce alcuni dei musicisti più richiesti della regione canadese dell’Alberta, il contrabbassista Josh McHan, il sassofonista Dan Davis e il batterista Thom Bennett, eccellenti strumentisti, compositori e insegnanti, spesso impegnati anche in contesti orchestrali di musica classica. Ispirati dal suono di Joshua Redman, Sonny Rollins, Chris Potter e Ari Hoenig, alternano rivisitazioni di standard jazz a composizioni autografe. Hanno esordito nel 2012 con Take No Prisoners, seguito nel 2017 da Out West e l’anno scorso da Trioliloquy, in cui sono raggiunti dal trombettista Kevin Turcotte di Toronto, musicista esperto e versatile che ha lavorato con artisti come Bruce Cockburn e Barenaked Ladies, chiamato a dialogare con il sax in buona parte del disco. Trioliloquy è un disco melodico, pur non rinunciando a partiture complesse come nell’energico opener Lenny’s Beat. L’idea di melodia del trio è rappresentata al meglio da Leda’s Song, che si svolge come un morbido colloquio tra sax e contrabbasso e dalla romantica How Suite It Is, dove i musicisti improvvisano con maestria intorno al tema principale con ampi spazi solisti per sax e tromba, mentre le influenze latine sono evidenti nella bossanova Los Plazos Del Patron, in cui dialogano lungamente Davis e Turcotte. In chiusura il ritmo si accentua nella notturna Bluesaholic in cui viene lasciato spazio al contrabbasso e nell’ansiosa e pulsante Secondary Opinion, dove gli strumenti interagiscono in modo brillante.

JASON ISBELL AND THE 400 UNIT – Live From The Ryman

di Paolo Baiotti

6 febbraio 2019

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JASON ISBELL AND THE 400 UNIT
LIVE FROM THE RYMAN
Thirty Tigers 2018

L’ascesa di Jason Isbell, quarantenne di Green Hill, Alabama, nel settore roots-rock è stata lenta e costante. Dopo l’addio ai Drive By Truckers nell’aprile del 2007, l’autore, cantante e chitarrista ha esordito come solista con Sirens Of The Ditch nello stesso anno, seguito da Jason Isbell & The 400 Unit nel 2009 e da Here We Rest nel 2011. Questi tre dischi hanno preparato il terreno per il salto di popolarità avvenuto con l’intimo e personale Southeastern, consolidato con Something More Than Free e The Nashville Sound, entrambi entrati nella top ten americana nel 2015 e 2017. In questo periodo Isbell è stato nominato più volte agli Americana Awards vincendo per la canzone dell’anno, tre volte per il migliore album e nel 2015 come migliore artista.

Live From The Ryman, tratto da sei concerti del 2017 al leggendario Auditorium di Nashville, è una sorta di celebrazione e di riassunto degli ultimi tre dischi, trascurando il repertorio precedente già ripercorso, almeno parzialmente, in Live From Alabama del 2012 e in un paio di Live pubblicati in edizione limitata per il Record Store Day. Peccato che il disco, uscito un po’ in sordina con una copertina scura e poco attraente, risulti frammentario e incompleto proprio per la sua natura, raccogliendo tredici canzoni per un’ora scarsa di musica che riflettono solo parzialmente l’atmosfera e lo svolgimento di un concerto dell’artista. Le canzoni sono di qualità, Jason ha una voce espressiva e matura e la band lo segue con precisione e attenzione (anche troppa), mancando forse di un pizzico di inventiva e coraggio nelle interpretazioni. The 400 Unit sono formati da ragazzi dell’Alabama, Chad Gamble (batteria), Jimbo Hart (basso) e Derry De Borja (tastiere, ex Son Volt) da tempo insieme, ai quali si sono aggiunti la chitarra di Saldler Vaden (ex Drivin’ N Cryin’) e il violino di Amanda Shires, dal 2013 anche signora Isbell, la donna che lo ha salvato dall’alcolismo e che ha meriti non trascurabili nella sua ascesa, avendogli dato serenità dopo il turbolento matrimonio con Shonna Tucker, bassista dei Drive By Truckers e gli anni trascorsi abusando di cocaina e alcolici.

Negli ultimi dischi Isbell ha affinato la capacità di scrivere ballate intimiste come la dolente Something More Than Free, l’intensa Flagship, la drammatica Elephant e la desolata Cover Me Up sull’alcolismo, che si alternano a tracce più ritmate come l’aspro roots-rock di Hope The High Road, la febbrile 24 Frames e il robusto mid-tempo White Man’s World, caratterizzata da un messaggio antirazzista e da un dialogo serrato tra violino e slide. La scrittura di Jason non trascura accenti pop come in The Life You Choose e influenze sudiste come nell’epica Flying Over Water, ma sembra avere trovato la sua cifra di riferimento nelle ballate. Oltre a quelle già citate emergono due tracce da The Nashville Sound, la sofferta Last Of My Kind, cantata splendidamente e arrangiata con spruzzate di violino, chitarra acustica e punteggiature di slide fino alla sezione strumentale dove finalmente gli strumenti si lasciano andare e la conclusiva If We Were Vampires, una delle più delicate love songs degli ultimi anni, non a caso premiata come Best American Roots Song agli Americana Awards del 2018.
Per i motivi sopra indicati Live Form The Ryman sembra un’occasione non pienamente sfruttata, anche per la qualità del suono che non convince del tutto, nonostante il missaggio di Dave Cobb, produttore di punta di Nashville che ha prodotto gli ultimi dischi in studio di Isbell.

STEPHAN THELEN – Fractal Guitar

di Paolo Crazy Carnevale

3 febbraio 2019

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STEPHAN THELEN – Fractal Guitar (Moonjune 2019)

In questo primo scorcio di 2019 la Moonjune Records torna a farsi sentire alla grande e dopo la bellissima sorpresa del disco di Dewa Budjana con ospite John Frusciante, ecco fresco fresco di stampa un nuovo disco che vede l’esordio sulla label di Leonardo Pavcovich del chitarrista svizzero (americano d’adozione però) Stephan Thelen. Thelen, che ha comunque al suo attivo molti altri dischi per l’etichetta RepTile, è chitarrista e matematico (per sua stessa definizione) e per questo suo cambio di label ha approntato un disco che si compone di solo cinque brani, tre dei quali raggiungono però sommati quasi cinquanta minuti!

Rock strumentale, progressive, ma anche altro, composizioni molto elaborate per la cui esecuzione Thelen si avvale di collaboratori titolati: d’altra parte è da un bel pezzo che la Moonjune ci ha abituati a trovare nelle sue produzioni la crema dei musicisti americani (e non solo) d’estrazione jazz/fusion/rock.

Col disco di Thelen comunque l’orizzonte si allarga, le chitarre vibrano, la batteria non è per nulla jazz: il chitarrista elvetico ci incanta fin dai primi, lunghi, diciassette minuti di Briefing For A Descent Into Hell, una specie di diabolico bolero moderno in cui la chitarra del titolare dialoga con quella del compare d’etichetta Markus Reuter (presente in tutto il disco) e con quella di Jon Durant. La successiva Road Movie, “appena” tredici minuti e una manciata di secondi è sorretta come la precedente dal drumming robusto di Manuel Pasquinelli (della formazione elvetica Akku Quintet) e si avvale di un ospite di quelli il cui nome fa tremare le pareti: stavolta a duettare alla sei corde con Thelen c’è infatti l’eclettico Henry Kaiser, ma a rinforzare il tutto ci sono anche il meno noto Bill Walker e il già menzionato Reuter.

Per l’intrigante title track invece Thelen ospita il losangelino Barry Cleveland, musicista e giornalista (è stato direttore di Guitar Player per dodici anni) che ha al suo attivo diversi dischi a proprio nome, uno – uscito una decina d’anni fa – proprio per la medesima etichetta che pubblica questo Fractal Guitar. E sempre Cleveland è il collaboratore della successiva Radiant Day.

La chiusura è affidata ai quasi diciotto minuti di Urban Nightscope, con ospite alla chitarra David Torn, star della musica sperimentale che vanta una militanza nel quartetto di Jan Garbarek e collaborazioni con Tony Levin, Bill Bruford e Mark Isham: la composizione si districa in una serie di sperimentazioni molto all’avanguardia che però, rispetto al resto del disco alla lunga sembrano diventare eccessive, peccato.