Archivio di maggio 2021

CURTIS SALGADO – Damage Control

di Paolo Crazy Carnevale

30 maggio 2021

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Curtis Salgado – Damage Control (Alligator/IRD 2021)

Ascoltare nuovo materiale da Curtis Salgado è sempre una benedizione. Il cantante (e talvolta armonicista, ma qui solo in due brani purtroppo) di stanza a Portland e originario della stato di Washington, è ormai al suo quarto disco in casa Alligator, etichetta sinonimo di blues che ormai da decenni ci ha abituati a prodotti di qualità, anche se ogni tanto un po’ risaputi quanto a contenuti.

Salgado, che nella sua carriera è anche stato cantante dei Santana e della Robert Cray Band, è uscito a testa alta dai suoi problemi col cancro di una decina di anni fa e continua a dimostrare grande smalto nelle sue produzioni discografiche.
Damage Control è un disco pimpante, magari non sorprendente come il suo predecessore – un fantastico disco dalle sonorità acustiche condiviso con Alan Hager – ma comunque ben fatto e piacevole. Registrato tra Nashville e la California, il disco è prodotto dal titolare medesimo e ci presenta una serie di composizioni nuove di zecca, composte di volta in volta con alcuni dei musicisti coinvolti, o anche col partner del disco precedente.

È blues effervescente, elettrico, grintoso che punta ovviamente sulla voce di Salgado che graffia ancora con grande verve; tra gli accompagnatori spicca il nome di Mike Finnigan all’organo, un musicista immenso la cui carriera andrebbe totalmente riscoperta (basti pensare che compare persino in Electric Ladyland di Hendrix), alle chitarre si alternano Kid Andersen (prezzemolo un po’ eccessivo forse nelle produzioni Alligator), George Marinelli, Johnny Lee Schell, Dave Gross e Alan Hager, mentre il piano è suonato da Jim Pugh e Kevin McKendrick e alla batteria c’è tra gli altri Tony Braunagel, altro nome ricorrente nei dischi Alligator.

Tra le tredici canzoni incise da Salgado per questo suo nuovo disco spiccano senza dubbio Precious Time e Always Say I Love You (At The End Of Your Goodbyes), caratterizzate da due ottimi duetti con Wendy Moten, la cui voce di matrice gospel calza a pennello abbinata a quella di Curtis: il secondo brano poi ha un break centrale da peli dritti ad opera dell’organo di Finnigan che sembra far rivivere certe atmosfere di stampo The Band riconducibili allo stile del grande Garth Hudson.
E a dire il vero certe atmosfere southern country tipiche del gruppo canadese sono riscontrabili anche nell’attacco Hail Mighty Ceasar, anche qui il lavoro di Finnigan è da urlo, anche se il resto del gruppo fa virare il brano decisamente altrove. Waht Did Me In DId Me Well ci introduce invece ad un Salgado più in stile crooner (è uno dei due brani con l’armonica), che però convince meno. Meglio la successiva You Are Going To Miss My Sorry Ass; in I Don’t Do That No More vede il leader duettare con J.T. Lauritsen in una composizione veloce col pianoforte a far da guida e la mai invadente solista di Marinelli a rifinire con sapienza.

Oh For The Cry Eye vede di nuovo in pista la Moten, ma il brano convince meno degli altri in cui appare. Buon brano la title track, uno slow notturno ma non eccessivamente, contrappuntato dalle chitarre di Schell e Gross tra i cui lavori s’infila l’organo di Finnigan. C’è anche spazio per un po’ di zydeco con Truth Be Told in cui Curtis duetta con Wayne Toups impegnato ovviamente anche alla fisarmonica.

Tra le composizioni più blues c’è da segnalare poi The Fix Is In dove Slagado da un saggio fantastico della sua abilità come armonicista ed è un vero peccato che non si offra maggiormente in questo tipo di interventi, pregevolissimo anche il lavoro di “Petrosino” Andersen. Il disco si chiude con l’unica cover, il veloce rock’n’roll di Larry Williams Slow Down, con tanto di fiati, non irresistibile.

Paolo Crazy Carnevale

JOHN STRADA – Fra Rovi e Rose

di Ronald Stancanelli

27 maggio 2021

JOHN STRADA ROVI ROSE

John Strada torna on the Road dopo il periodo comune a tutti noi di domiciliari forzati. Periodo nel quale per gli amanti della musica in special modo di quella dal vivo son stati tristi dolori e finalmente pare che il rapporto artista/pubblico stia per avere uno spiraglio. Da anni seguiamo con simpatia, e passione questo solare artista emiliano che ha esattamente i gusti musicali di noi di Late For The Sky, sono appunto dieci anni che detto artista ci fa compagnia con le sue musiche, il suo rock, le sue ballate e album come l’omonimo ( 2001), Pezzi di vita ( 2002), Dalla periferia dell’anima (2008), Live in Rock’ A, (2011), Meticcio (2014), Mongrel (2016) ed è una epifania si colori, suoni e divertimento.
Adesso è il turno di Fra rovi e rose disco dall’ accattivante copertina per non parlare dello splendido disegno che caratterizza la cover del libretto interno, io avrei scelto quest’ultima come copertina ma tant’é, il discorso cover è secondario mentre la solarità dell’album è quella che colpisce e prende nei suoi dieci festosi e spensierati brani, spensierati non certo per i testi tutti di spessore ma per i suoni che avvicinano a questo nuova estate che si spera possa farci trovare serenità , divertimento e appunto spensieratezza, pur se con certa accortezza. Pardon per la rima non voluta ne cercata.
Testi e musiche ovviamente totalmente di John Strada e una pletora di ottimi musicisti che lo supportano. Impossibile citarli tutti ma un cenno al violino di Fabio Cremonini, al Banjo di Alex Valle, all’hammond di Daniele De Rosa, alla chitarra elettrica di Matteo Zuppiroli, alla fisarmonica di Gianmarco Banzi e al dobro e steel guitar di Enrico Cipollini lo facciamo volentieri. L’amico Strada ci delizia con al sua voce a tratti roca e profonda e la sua chitarra.
Deliziosi i disegni di Paola Covoni che arricchiscono il tutto. Album registrato all’overstudio di Cento, vicino Ferrara e allo studio SDS di Carpi.
Guarda alle stelle da inizio in modo sincopato a questo nuovo album con una ballata rock di modulata frequenza che avvince sin da subito e poi coinvolge nel proseguo con violino e batteria che esaltano il tutto. Wonderbar cita come in un sogno una marea di artisti che concorrono a suonare con lui in contesti ariosamente e profumatamente avvolgenti, un po Van De Sfroos quando raccontava di Johnny Cash nella cabina di un camion e un po Willie Nile quando incensa i bluesmen del passato. Fa piacer senti citare gli Who, lo aveva fatto tanti anni fa anche Ligabue. Gli Who sono nella storia musicale di tutti noi ! Eneide 2000 coniuga personaggi storici, Dei mitologici e letterati di prestigio in un racconto canzone che racchiude strali di vicende che toccano il nostro presente. Un grido di battaglia e di diniego alle storture che caratterizzano il nostro mondo lo sentiamo in Salvo il mondo, bel pezzo che nn vedremmo male proposto anche da Ligabue. Bravo John Strada che urlando verso il cielo ci dona un album di forte risentimento esemplificato in note e parole di spessore. Dolcissima ballata Il brivido, è momento di catarsi per acclimatarsi al bello, al dolce, al soave, a quello che in questi tempi un pò bastardi abbiamo bisogno. Bellissima con un violino struggente. E finalmente tra Jimmy Buffett e Daniele Ronda arriva la solarità del divertimento, come se ci fossimo lasciati alle spalle tempi e momenti bui Mare e limoni ci rilassa e fa apparire un sorriso ottimista a tutti noi. Frizzante song che immaginiamo darà il bianco eseguita dal vivo. Dall’Emilia al West è ovviamente coinvolgente sin dal titolo ed è pezzo crediamo destinare a divenire brano cult nella discografia di questo artista che da anni ci coinvolge e allieta con le sue canzoni. Uno splendido balzo a Parigi con la vibrante Kiki, la regina di Montparnasse e due dolci ballate dedicate al figlio Enrico, in tanti lo hanno fatto in modo gioioso, al volo mi vengono in mente Baglioni, Bruce e Jovanotti e anche John Strada non è da meno con queste avvolgenti true balldads, Stavolta dico no e Il tempio di Demetra, ricordiamo che Demetra era la Dea greca della fertilità. Bei pezzi ovviamente dedicati anche alla moglie Paola. Un bel ritorno quello di John Strada che ci inizia a rendere sereno questo periodo con l’ascolto del suo notevole album. A presto a rivederlo su di un palco. Tutti ce lo auguriamo

Ronald Stancanelli

HEATH CULLEN – Springtime In The Heart

di Paolo Baiotti

25 maggio 2021

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HEATH CULLEN
SPRINGTIME IN THE HEART
Five By Nine 2020

L’australiano Heath Cullen è un bel personaggio. Sguardo tra il tenebroso e il piratesco, cappello e lunghe basette, eleganza un po’ casuale, ci tiene ad avere un pubblico molto affezionato visto che i suoi dischi sono reperibili solo tramita la sua pagina su Bandcamp e che su www.heathcullen.com è possibile sostenerne l’attività con diverse modalità, ottenendo registrazioni personalizzate.
Residente a Candelo, un villaggio a sud di Sidney, non è un novellino: ha esordito nel 2010 con A Storm Was Coming But I Didn’t Feel Nothing, seguito nel 2013 da The Still And The Steep registrato a Los Angeles con ospiti Marc Ribot, Jim Keltner e Larry Taylor e nel 2015 da Outsiders in cui è stato accompagnato da The Imposters, la band di Elvis Costello. Dopo quasi cinque anni torna con un disco prodotto da Joe Henry (il primo dopo i problemi di salute del 2019), registrato a Los Angeles in tre giorni senza prove, con musicisti di primo piano abituati a collaborare con il produttore: Jay Bellerose (batteria), Jennifer Condos (basso), Levon Henry (fiati), Patrick Warren (tastiere) e Adam Levy (chitarra).
I riferimenti musicali di Cullen sono sicuramente il primo Tom Waits e il Nick Cave più tenebroso, oltre a icone come Leonard Cohen, Johnny Cash e Bob Dylan. L’influenza di Henry è evidente nella scelta di un suono minimale, ma Heath ha una personalità e un’eleganza che emergono sia nella voce che nei testi, interessanti e personali, scritti con la macchina da scrivere come nel secolo scorso.
Things Are Looking Up è la ballata che apre il disco con un testo ottimista sul futuro dell’umanità nonostante i danni causati alla natura. Seguono The Song Always Remembers, caratterizzata da influenze irish e da un testo ispirato dagli incendi che hanno devastato l’Australia e Song That I Know, cantata con tonalità più sporche che richiamano Waits, con un pizzico di raucedine in meno. La sofferta Cowboy Truths è dedicata a Sam Shepard ed è stata scritta il giorno del suo decesso, mentre Hurry Your Heart è una ballata pianistica con un testo molto intimo e personale. Non ci sono punti deboli in questo disco, che prosegue con The Shape Of Your Name che incrocia Waits e Cave, con la dolente e desolata The Last Match e con la morbida Home. La title track, ispirata dallo stile del maestro Cohen, risulta una delle tracce migliori dell’album, che si chiude con l’unica cover, la sontuosa ballata Kill Switch (T-Bone Burnett) in cui piano e clarinetto guidano il crescendo strumentale.
Springtime In The Heart è un disco di qualità superiore, Heath Cullen un artista di cui sentiremo ancora parlare.

Paolo Baiotti

AA.VV. – Dylan Revisited

di Paolo Baiotti

24 maggio 2021

bob

AUTORI VARI
DYLAN REVISITED
Bandlab 2020

L’ottantesimo compleanno di Bob Dylan sarà l’ennesima occasione di celebrare il musicista, compositore e poeta che più di tutti ha caratterizzato la storia della musica rock dai primi anni sessanta. In verità i festeggiamenti sono già iniziati sugli organi di stampa italiani e stranieri con retrospettive più o meno approfondite.
Il numero di giugno del prestigioso mensile inglese Uncut aggiunge ad un lungo e curato speciale sull’artista un cd con 15 brani di cui 14 cover inedite e una traccia di Dylan. Nella tradizione della rivista anche questo omaggio è curato con attenzione nella scelta degli artisti di diverse generazioni e nella qualità delle interpretazioni, tenendo conto delle difficoltà legate alla pandemia.
La versione acustica di Too Late di Bob apre il dischetto, un inedito dalle sessioni di Infidels dell’83 che sembra anticipare Foot Of Pride (dal primo volume delle Bootleg Series). La voce inconfondibile di Richard Thomson e la sua chitarra caratterizzano una notevole This Wheel’s On Fire, seguita dalla prima delle numerose interpreti femminili, Courtney Mary Andrews alle prese con To Ramona insaporita di sapori messicani. Non mi convincono Lay Lady Lay dei Flaming Lips e Precious Angel di The Weather Station (con il testo rielaborato da Tamara Lindeman), a differenza di I’ve Made My Mind To Give Myself To You (dall’ultimo album di Bob) rivista dalla voce melodica e dolente di Margo Timmins, accompagnata ovviamente dagli altri Cowboy Junkies tra i quali spicca il lavoro della chitarra del fratello Michael. Thurston Moore rivisita da solo dalla sua casa di Londra Buckets Of Rain accompagnato dalla chitarra acustica e fa la sua figura, come il maliano Fatoumata Diawara che accelera Blowin’In The Wind, togliendo pathos e aggiungendo festosi sapori africani e l’irlandese Bridgit Mae Power che addolcisce con la sua voce limpida ed eterea One More Cup Of Coffee. Si prosegue con tre brani a mio avviso privi di incisività: dapprima i Low non aggiungono molto a Knockin’ On Heaven’s Door, quindi la cantautrice Joan Shelley riprende Dark Eyes con accenti folk un po’ tediosi, infine Patterson Hood dei Drive By Truckers aiutato dal tasierista Jay Gonzales approccia la magnifica Blind Willie McTell in modo intimo e minimale, senza emozionare. Nella parte finale la calda voce soul della canadese Frazey Ford affronta con coraggio The Times They Are A-Changin’, Jason Lytle (Grandaddy) rivisita con delicatezza l’intima Most Of The Time e la cantautrice americana Weyes Blood offre un’eccellente interpretazione dell’epica Sad Eyed Lady Of The Lowlands che cresce gradualmente sia vocalmente sia strumentalmente con il contributo essenziale delle tastiere.

Paolo Baiotti

STEVE YANEK – Across The Landskape

di Paolo Baiotti

20 maggio 2021

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STEVE YANEK
ACROSS THE LANDSCAPE
Primitive Records 2020

Originario di Youngstown in Ohio, proveniente da una famiglia che ha lavorato per generazioni nelle acciaierie della zona, Steve ha imparato a suonare la chitarra nell’adolescenza, guadagnandosi una discreta notorietà come artista solista nella regione dei Grandi Laghi. Appassionato del suono di CSNY, Jackson Browne, Eagles e James Taylor, si è trasferito a Los Angeles inserendosi nella locale scena folk nei primi anni ottanta. Pronto a esordire avendo un contratto e delle registrazioni effettuate a Nashville con il manager Derek Bowman, ha visto sfumare questa possibilità. Tornato in California, di fronte al cambiamento musicale portato dall’avvento di MTV, frustrato da un altro contratto saltato e consapevole di vivere in un modo poco “salutare”, ha rinunciato alla professione musicale, pur continuando a scrivere e ad aggiornare il suo studio di registrazione. Si è trasferito nella campagna della Pennsylvania, ha lavorato come falegname, nelle ferrovie, come ingegnere dei trasporti e imprenditore. Ha anche fondato una label indipendente, la Primitive Records, restando quindi in contatto con l’ambiente musicale, finchè gli è tornata la voglia di suonare e di registrare, esordendo con questo Across The Landscape, inciso nel corso degli anni e assemblato nel 2020. Si è fatto aiutare da Jeff Pevar, figlio e collaboratore di lunga data di David Crosby, che ha prodotto il disco e suonato la chitarra, chiamando altri esperti musicisti come il tastierista T Lavitz e il batterista Rod Morgenstein (entrambi già membri dei Dixie Dregs e di Jazz Is Dead) e la cantante Leah Kunkel, moglie del batterista Russ Kunkel e collaboratrice di Jackson Browne, Carly Simon e James Taylor.

Che l’influenza principale di Steve sia il cantautorato rock californiano venato di folk e pop con curate armonie vocali è evidente dallo scorrevole opener No One Said e dalla ballata Right In Front Of You in cui la voce dell’artista, non molto personale in altre tracce, sembra trovare il suo ambito ideale, richiamando non solo le influenze sopra citate, ma anche artisti più recenti come Neal Casal, con degli inserimenti calibrati della chitarra solista di Pevar. Nell’intima Emily’s Eyes, in cui si apprezza il mandolino di Jeff, i richiami a James Taylor sono evidenti, mentre il country-rock All I Ever Wanted potrebbe trovare uno spazio radiofonico (qualora le radio programmassero anche nomi meno conosciuti). Se la jazzata Quarter Moon c’entra poco con il resto del disco, I Could Drown torna ai canoni preferiti da Yanek con un raffinato lavoro di chitarra, prima di Dance With You che alza il ritmo e l’intensità e di Got To Hear You Say It che richiama il suono degli Eagles tra rock e country. Nel segmento finale di un disco che si lascia ascoltare senza scossoni spicca la ballata Safe Harbors impreziosita da un pregevole assolo di Pevar.

Paolo Baiotti

Thom Chacon – Marigolds And Ghosts

di Paolo Crazy Carnevale

11 maggio 2021

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Thom Chacon – Marigolds And Ghosts (Pie Records/IRD 2021)

Sono trascorsi tre anni dal precedente ottimo disco di questo piccolo grande uomo del West che scrive canzoni di uno spessore incredibile, ora Chacon – che ci auguriamo di rivedere in concerto anche dalle nostre parti appena sarà possibile – torna con un altro spettacolare lavoro che ne è il seguito fin dalla grafica di copertina e che ne conferma la statura artistica e l’ispirazione, nonostante gli arrangiamenti ancor più minimali (stavolta ad accompagnarlo c’è solo il bassista Tony Garnier, il cui nome non dovrebbe esservi del tutto sconosciuto, e in un brano, ma solo uno, c’è il dobro di Tyler Nuffer).

Ma Chacon non ha bisogno di grandi artifizi per le sue canzoni che stanno in piedi da sole, sono autonome e le vibrazioni che la sola voce di Thom sa evocare si sorreggono con perfetta stabilità sul sostegno di chitarra acustica, armonica e contrabbasso, per non dire di quella voce da brividi e peli dritti.

Sono storie di gente comune, della gente a cui la vita stenta a sorridere, perdenti non per propria scelta ma per scelta di qualche governante in preda a deliri di onnipotenza: pensiamo alla bellissima Borderland, collocata proprio nel beThom Chacon – Marigolds And Ghosts l mezzo del disco, risposta alla “chiamata alle armi” del mai domo Neil Young che invitava i colleghi a prendere posizione nei confronti delle aberrazioni comandate dal governo Trump nei confronti dei bimbi messicani separati dai genitori quando colti nel tentativo di entrare clandestinamente negli USA, un tema assai caro a Chacon, che è nato a pochi chilometri dal confine col Messico. Ma tutto il disco è pervaso di grandi pensieri anche quando la fonte d’ispirazione sono le vicende personali di Thom e della sua famiglia, Church Of The Great Outdoors è una splendida canzone dedicata alla natura: Thom infatti, oltre ad essere un cantautore sopraffino, nelle corde del miglior Townes Van Zandt per intenderci (anche se tra i suoi ispiratori ci sono Springsteen, Dylan, Mary Gauthier), è anche una guida escursionistica e vive nel sud-ovest degli States, a costante contatto con le bellezze naturali di quelle zone. In un paio di brani s’ispira ai suoi genitori: Sorrow e Kenneth Avenue, in particolare basta su una riflessione riguardo alla loro separazione in cui Thom racconta (un po’ come il Neil Young di Dont’ Be Denied ) della mamma che prepara i bagagli per andarsene altrove con i figli. Florence John, con un personaggio a metà strada tra quelli evocati da Van Zandt e quelli di Michael McDermott è arricchita dal dobro di Nuffer, mentre A Better Life suona come una canzone di speranza e ricorda nella sua struttura lo Springsteen di Nebraska, anche se il suono è molto più accurato.

Splendida anche la canzone iniziale, quella che intitola il disco, peccato solo che il prodotto duri meno di mezz’ora e che nella confezione non ci siano i testi, che sarebbero invece stati da valorizzare: nel disco precedente, distribuito da noi dalla Appaloosa c’erano addirittura le traduzioni.

Paolo Crazy Carnevale

ROSALBA GUASTELLA – My Little Songs

di Paolo Baiotti

2 maggio 2021

My Little Songs

ROSALBA GUASTELLA
MY LITTLE SONGS
Rubber Soul 2020

Rubber Soul è il nome (che denota buon gusto) di un negozio di dischi di Torino e ora anche di una casa discografica che esordisce con il primo disco solista di Rosalba Guastella, già vocalist di una più recente incarnazione dei No Strange, formazione psichedelica di primo piano del panorama italiano degli anni ’80. A volte le piccole cose, se fatte con cura e passione, possono essere più interessanti e meritevoli di progetti più grandi o strombazzati. E succede anche nella musica come in My Little Songs, curato anche nella confezione: 250 copie in vinile colorato blu con inseriti i testi e anche il cd con un brano in più. L’atmosfera del disco è quella di un folk-blues impregnato di una psichedelia morbida e avvolgente, registrato e prodotto dal chitarrista Thomas Guiducci, scritto in gran parte da Rosalba, voce solista nonché alla chitarra, percussioni varie ed effetti sonori, aiutata principalmente dall’esperto bluesman Dario Lombardo alla chitarra solista, slide e dobro, con interventi di Thomas Guiducci, Claudio Belletti (batteria), Stefano Leonardon (basso) e Michela Marassi (piano).
L’intro di apertura, un breve strumentale per chitarra e fischio che mi ha ricordato Syd Barrett, precede la filastrocca bluesata Beating in cui la voce sembra ispirata dalle tonalità e dal modo di cantare di Patti Smith e l’esile Cigarettes in Tea Cups. Il ritmo cresce leggermente in Play Guitar Is Not Enough, una delle tracce migliori del disco in cui spicca l’intervento della tromba jazzata di Stefano Chiappo che dà un’impronta anche all’inizio etereo e sospeso di Nothing Is Wrong, un pregevole folk psichedelico spruzzato di venature jazz. La slide e l’elettrica che si intrecciano con delicatezza caratterizzano My Baby’s Blues, che si apre nel finale ad un puntuale assolo di chitarra chiudendo il primo lato del vinile.
Si riprende con la delicata filastrocca Alice (uno dei frequenti richiami al libro di Lewis Carroll), seguita dalla barrettiana Far Away So Close e dalla cantilena In The Woods in cui si nota un pregevole lavoro di chitarra. I cinguettii floydiani di A Feather And A Camelia e il notevole folk elettrico di Silver & Gold dal sapore orientaleggiante ci portano alla lunga traccia conclusiva, Carla Bley’s Hair, suonata con Lodovico Ellena (Effervescent Elephants) e gli Astral Weeks, un’ipnotica e raffinata nenia psichedelica con agganci floydiani anche nel testo. Il cd aggiunge in chiusura Freedom Blues, un brano bluesato che chiude il cerchio con l’inizio dell’album.

Paolo Baiotti

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Various Artists – Me & My Guitar

di Paolo Crazy Carnevale

2 maggio 2021

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Various Artists – Me & My Guitar (Lone Hawk Records/NIVA 2021)

Questo disco, per ora solo disponibile in download (ma in formato flac e wav, quindi non compresso come un mp3) è un disco molto importante, non solo perché è un bel disco, ma perché ha alle spalle una nobile causa, quella dei locali che sono rimasti chiusi a causa del covid-19 e degli artisti che non hanno potuto esibirsi. Ovviamente non ci riferiamo ai ricchi palchi delle star miliardarie, ma a quei palchi storici o sconosciuti che siano, dei locali piccoli o di medie dimensioni e di quegli artisti che li calcano. Il tutto fa capo al movimento denominato “Save our stages”, salvate i nostri palchi, di cui il promotore del disco è un alfiere. Si tratta di Charlie Overbey, rocker/songwriter californiano di cui abbiamo già scritto in questo sito: Overbey ha contattato alcuni amici, certi anche abbastanza celebri, qualcuno facente capo al suo stesso management, altri conosciuti suonando in giro per gli States, altri meno noti, ci sono texani, sudisti, californiani e ragazzi della East Coast, come a dire che la causa è un buona casa per tutti, indifferentemente dalla provenienza. Denominatore comune del disco è il fatto che ciascuno si è esibito da solo con la propria chitarra, in solitudine, regalando al progetto un brano inciso per l’occasione, magari un brano già affrontato in precedenza ma non in questa veste.
Overbey, che per lo stesso progetto lo scorso anno aveva registrato un singolo intitolato Ode To John Prine coinvolgendo colleghi come Steve Ferrone, Jimmy Vivino e LP, ha messo insieme un bel po’ di gente col risultato di rendere il disco virtuale particolarmente gustoso.
Si comincia con un’inusuale performance acustica di un grande amico di Overbey, quell’Eddie Spaghetti dei Supersuckers, gruppo per cui Overbey e il suo gruppo, i Broken Arrows, hanno spesso aperto i concerti. Spaghetti sfodera una bella versione di Barricade, composizione in precedenza registrata colcon la sua band d’appartenenza, a ruota c’è subito un altro notevole ospite, Marcus King, qui in versione solitaria con un bel brano dalle atmosfere jazz-blues intitolato Eye On The Sparrow.
Jim James dei My Morning Jacket non è da meno con la sua Leave It There che in versione full band era apparsa in origine su Circuital.
Molto brava e convincente Suzanne Santo, attrice e cantante che propone Save For Love incisa in precedenza con Gary Clark Jr., mentre il cantante dei Blacberry Smoke, Charlie Starr si mette a disposizione del progetto con Hangin On The Vine, mantenendo alto il livello di questa raccolta.
Il texano David Garza, ora di stanza a L.A. mette sul piatto la deliziosa Two Of A Kind, mentre Duane Betts, figlio del vecchio Dickey e chitarrista della Allman Betts Band, regala al disco Try So Hard.
È quindi la volta del padrone di casa, Charlie Overbey si cimenta in una delle migliori canzoni del progetto (che però al suo arco ha davvero molte frecce), The Hawk And The Sparrow è una folk ballad d’atmosfera western, cantata dal rocker californiano con voce ispirata e profonda mentre arpeggia sulla sua sei corde. Originario della Pennsylvania il cantautore Langhorne Slim è invece il performer di Blue Ain’t Bad Always, quasi una filastrocca d’altri tempi a cui segue il contributo del chitarrista blues Jimmy Vivino, la vibrante Shady Side Of The Street in cui il nostro sfodera una vocalità imparentata in qualche modo con quella ululante del vecchio compianto Howlin’ Wolf, al secolo Chester Burnett. Applausi anche in questo caso.
Particle Kid non è altri che uno dei Promise Of The Real, nella fattispecie J. Micah, fratello di Lukas Nelson e quindi a sua volta figlio del grande Willie: per il progetto di Overbey tira fuori un brano intitolato Take A Penny From The Fountain, che ricorda molto lo stile del suo mentore Neil Young (a chi fosse sfuggito i Promise Of The Real hanno accompagnato il canadese in un paio di dischi e nei rispettivi tour).
L’ex Red Hot Chili Peppers e Circle Jerks Zander Schloss è protagonista della breve Wish Upon A Star Or Find Another Dream che cede poi il passo ad un ispirato Jesse Malin che con The Favorite arricchisce ulteriormente la compilation. La brava Miranda Lee Richards, dalla longeva carriera cominciata ben vent’anni fa, oltre ad aver già duettato con Overbey nell’ultimo disco del songwriter, ha fatto stabilmente parte dei Broken Arrows come corista nei concerti del 2018/2019, ovvio quindi che abbia risposto prontamente all’appello dell’amico con una bella Blood In My Hands, e che dire del batterista cantautore Mike Stinson, di stanza ad Austin, conosciuto da Overbey quando entrambi facevano parte della scuderia della brava Shilah Morrow, titolare della Sin City Music (fondata anni fa insieme a Polly, la figlia di Gram Parsons)? Stinson esegue The Stuff Dreams Are Made For ma nel disco è presente anche un altro texano suo amico, quel Jesse Dayton (cantautore, attore, autore di un bel tributo a Kinky Friedman, nonché brevemente contitolare con Stinson di un gruppo chiamato Trio Grande) che qui regala agli ascoltatori la nuova composizione Old Ghost Drinkin’.
E sempre dal Texas arriva John Neilson con la sua Firecracker, piacevole folk song. Tra i meno noti c’è poi Chris Vos, a cui in scaletta segue Eleanore Whitmore, cantante e violinista nei newyorchesi Masterson, duo di un certo richiamo, sempre amici stretti di Charlie Overbey, presenti nel suo ultimo album ma titolari di una propria discografia; la Whitmore è qui protagonista di Time, ma nel disco non poteva mancare l’altra metà dei Masterson, il marito Chris Masterson con un’ottima composizione intitolata Collapsible Plans.
Il grintoso Sam Morrow si cimenta con Wicked Woman mentre il bassista di Shooter Jennings, Ted Russell Kamp – che con ben undici album a proprio nome ha una carriera autonoma – qui propone un brano intitolato Western Wind.
Pete Anderson è forse il più attempato tra i musicisti del disco ed è l’unico a non essere solo con la sua chitarra in questo disco, nel senso che oltre alla chitarra suona anche l’armonica: l’ex sparring partner di Dwight Yoakam si destreggia qui in un robusto blues intitolato Prophet For Profit che rimanda in qualche modo al John Mayall degli anni sessanta e che conferma ampiamente le sue doti come chitarrista.
La chiusura è affidata al cantautore hawaiano Kapali Long che con la bella e intima Homesick suggella un disco di buona fattura e notevole interesse.
Il disco è disponibile online tramite https://lonehawkrecords.bandcamp.com/.

Paolo Crazy Carnevale