Archivio di marzo 2015

Fra pochi giorni la Fiera del Disco di Varese

di admin

18 marzo 2015

Pub. Varese Late marzo copia

 

Si avvicina l’appuntamento con la Fiera del Disco di Varese che, come è ormai tradizione, ospita anche la Fiera del Fumetto.

Anche Late sarà presente con il suo stand, quindi vi aspettiamo numerosi!

TESLA MANAF – A Man’s Realtionship With His Fragile Area/It’s All Yours

di Paolo Crazy Carnevale

11 marzo 2015

tesla manaf

 

 

TESLA MANAF

 A Man’s Realtionship With His Fragile Area/It’s All Yours

(Moonjune 2015)

 

Nel DNA del promettente chitarrista indonesiano Tesla Manaf  – l’Indonesia è tra i territori di caccia preferiti da questa iperattiva label newyorkese – vengono comunemente indicati soggetti come Django Reinhardt, Segovia, Pat Metheny. Probabilmente c’è del vero, ma dall’ascolto di questo recentissimo “due in uno” che la Moonjune ha pubblicato ad inizio anno emerge particolarmente l’influenza dell’ultimo dei tre. Il dischetto racchiude due progetti ben distinti e ben differenti tra loro, nella prima parte – registrata nel 2014 –, suonata in quartetto con l’uso di una sezione ritmica tradizionale e di strumenti a fiato tipici del suo paese, Tesla Manaf va ad esplorare territori musicali di ispirazione jazz fusion rilassata in cui spiccano brani come Moving Side e soprattutto Chin Up, il brano più lungo e coinvolgente di questo “primo tempo”.

La seconda parte, o se vogliamo il secondo disco, risale al 2011 e vede Manaf alle prese con un ensemble più vasto che fa uso di tastiere, sezione ritmica, flauti, percussioni indonesiane, sax e varie voci. Tutti e sei i brani che la compongono sono come i sei movimenti di un’unica suite che da poi il nome al progetto. Musicalmente siamo su un pianeta diverso ma comprimario della prima parte, qui jazz e fusion si rifanno a modelli che ricordano maggiormente gli anni ottanta di  questi generi, o i tardi settanta, con quelle sonorità un po’ latin jazz e afro che andavano allora di moda, con la differenza che qui le implicazioni etniche sono ad appannaggio dell’ensemble Mahagotra Ganesha che provvede alle voci e agli strumenti tradizionali.

MARK WINGFIELD – Proof Of Light

di Paolo Crazy Carnevale

7 marzo 2015

mark wingfield

 

 

 

MARK WINGFIELD

Proof Of Light

(Moonjune Records 2015)

  

Il 17 febbraio scorso la Moonjune ha dato alle stampe questo disco, il settantunesimo del suo catalogo, annunciando di essere orgogliosa di poter avere nella propria scuderia un chitarrista del calibro di Wingfield.

Il chitarrista britannico è sicuramente uno dei nomi più interessanti per quanto riguarda il panorama della chitarra jazz e della composizione ed il fatto che vada citando tra le proprie influenze la musica asiatica e quella africana va a chiudere il cerchio, visto che l’etichetta di Leonardo Pavkovic è da sempre proiettata verso la scoperta ed il lancio di musicisti provenienti da aree del pianeta che non sono quelle tipiche della musica occidentale. Se il genere musicale è incondizionatamente jazz del terzo millennio, in questo disco di Wingfield emergono come in altre pubblicazioni analoghe evidenti richiami alla fusion e a quel prog rock che tanto caro è a Pavkovic (il nome della label è un chiaro omaggio ai suoi amati Soft Machine) e a fare da ulteriore trait d’union nel disco c’è la presenza del bassista Yaron Stavi, che ha suonato con Robert Wyatt, Phil Manzanera e David Gilmour. Alla batteria siede invece Asaf Sirkis, dal tocco per così dire heavy jazz, che ha in curriculum collaborazioni con John Abercrombie e Larry Coryell.

Il trio appare affiatato e la musica – naturalmente tutta strumentale – non si regge solo sulla chitarra del titolare ma lascia spazio anche ai due accompagnatori, debitamente accreditati sul fronte della copertina, come co-protagonisti. “Il suono della chitarra è intrigante” recitano le note interne scritte da Anil Prasad (della rivista musicale Innerviews) “e la scrittura di Wingfield è in primis condotta dalle sue dita”.

MAGGIE BJORKLUND – Shaken

di Francesco Caltagirone

3 marzo 2015

bjorklund

 

MAGGIE BJORKLUND

Shaken

Bloodshot Records

 

E’ da tempo in atto un processo di completa globalizzazione musicale, se questa musicista danese di Copenhagen propone un album che potrebbe essere nato in California o a Seattle o in qualsiasi sobborgo britannico. Secondo album per una compositrice, cantante e musicista che suona quale strumento principe, ma in maniera del tutto diversa da quella che siamo soliti ascoltare, la pedal steel guitar. In più, la Biorklund ha saputo attorniarsi di artisti importanti sulla nuova scena europea e non, come Mark Lanegan, John Burns e John Convertino dei Calexico, John Auer dei Posies, tanto per citare qualche nome.

Nel nuovo album, accanto a questa carismatica autrice, troviamo, fra gli altri, Jim Barr (Portishead), John Parish, già collaboratore di P.J. Harvey e Sparklehorse e Kurt Wagner dei Lambchop. La personalità di Maggie Bjorklund è comunque del tutto autosufficiente. Lo dimostrano in un album che ha l’unico limite nella durata di soli 38 minuti, tutte e undici le tracce, fra strumentali e brani cantati, nei quali si aggiunge l’eloquente violoncello di Barb Hunter. La pedal steel non si muove certo in territori country, ma disegna guizzi inquieti e tormentati, suoni dilatati e musiche concentriche, fra voci che provengono dall’al di qua, chitarre affilate, suoni storti e pur melodici che ti riportano per itinerari sotterranei ai Velvet Underground, alla psichedelia, con allargamenti alla musica americana “tout court”.

Maggie ha una voce quasi distaccata, filiforme quanto densa, qualche volta spezzata e trasparente, vestale di un suono sofferto che appartiene forse a una bohème scandinava, mostrata agli occhi dell’occidente. Un album color indaco, a vicolo chiuso, nel quale avviene una sorta di cristallizzazione della sofferenza, per una musica che proviene dal dolore condiviso e da una solitudine forse improvvisa. Qualche pensiero non può non correre a Nico e a Marianne Faithfull. Non avremo scoperto l’uso della ruota nel constatare, ancora una volta, che la più sublime delle poesie proviene forse dall’angoscia e dalla rarefazione dei rapporti interpersonali. L’anomalia nell’uso della pedal steel investe i brani con un’eleganza e una profondità davvero rare. Restano impressi, al primo contatto, brani come l’iniziale Dark Side Of The Heart, l’ossessiva e martellante Bottom Of The Well, a mostrare cosa contiene il fondo del pozzo, gli accordi acustici “straniati” di The Road Of Samarkand, lo splendido dialogo canoro insieme a Kurt Wagner di Fro Fro Heart, la mestizia di  The Unlucky. I suoni qualche volta si distendono e le melodie allargano i propri confini alla ricerca di una striscia di luce. E’ musica che si presta a commentare immagini reali come in Name In The Sand, o nell’affanno di Missing At Sea. Grandioso il pezzo intitolato Amador, per un motivo tracciato dalla steel che è come una tenaglia, uno strumentale che è un pezzo guida e mostra tutto l’estro della ragazza danese.

Una prova eccellente, oltre ogni possibile frontiera, a mostrare un temperamento e un’attitudine artistica fuori dal comune. Una musicista che compone come se scolpisse.