Archivio di giugno 2018

MARY GAUTHIER – Rifles & Rosary Beads

di Paolo Crazy Carnevale

26 giugno 2018

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MARY GAUTHIER – Rifles & Rosary Beads (Appaloosa/IRD 2018)

Giù il cappello al cospetto di Mary Gauthier! Questo suo nuovo disco è davvero un piccolo grande capolavoro. E giù il cappello anche al cospetto della nostrana Appaloosa che ha saputo aggiudicarsi l’anteprima e l’esclusiva per pubblicare il disco rispetto all’uscita americana per la In The Black Records.

Il disco giunge a quattro anni dal suo predecessore ed è un lavoro molto sofferto ed intenso, nato da un’esperienza unica, quella di una sorta di workshop terapeutico di songwriting che la cantante di New Orleans (naturalizzata texana, ma già bostoniana in precedenza) ha tenuto per i reduci dalle campagne militari americane.

Il risultato è un disco con tante cose da dire, non ideologia da quattro soldi, non proclami politici, non canzoni di protesta: semplicemente quello che i militari coinvolti nell’operazione hanno provato sulla propria pelle, e, “last but not least” i sentimenti e le problematiche di chi i militari sta a casa ad aspettarli, mogli o mariti, e se li vede restituire talvolta interi, talvolta mutilati, talvolta avvolti in una bandiera (bellissima in questo senso la canzone The War After The War, dal titolo molto significativo, con il violino del “nostro” Michele Gazich che dialoga con la chitarra elettrica su un tema musicale molto azzeccato su cui la Gauthier canta ispiratissima).

Testi forti certo. Ma anche belle musiche, perché non è sui soli testi che si può reggere un disco, altrimenti sarebbe solo un libro di poesie. E questo “fucili e grani del rosario” comincia subito bene con la dolorosa Soldiering On, anch’essa col violino di Gazich in evidenza, Got Your Six risente molto delle atmosfere del cantautorato texano, una bella fusione di rock e musica acustica, con un riff molto teso. Still On The Ride è un altro bel testo, una ballata vagamente dylaniana, con la Gauthier che soffia in un’armonica sofferente, mentre la melodia è sostenuta dal piano di Danny Mitchell, da Gazich e da un mandolino che purtroppo suona un po’ lontano – unica pecca in una produzione riuscitissima. Bullet Holes In The Sky racconta di una cerimonia in cui i reduci vengono decorati e si muove su una struggente tessitura musicale che paga debito a Townes Van Zant, mentre la successiva Brothers è decisamente più rock e la title track (chitarra, voce, armonica e violino in particolare evidenza) è un enorme indice puntato su tutte quelle cose a cui i veterani sono costretti ad aggrapparsi per sopravvivere agli inferni in cui devono combattere, dalle preghiere alla morfina, quest’ultima protagonista anche di Morphine 1-2, ballata arpeggiata e delicata. It’s Her Love è un brano in punta di piedi sull’importanza di avere a casa un’amata che aspetta, Iraq è invece un’amara riflessione su chi sia il nemico reale, mentre nella conclusiva Stronger Together torna il tema del ritorno a casa già affrontato in The War After The War.

Villaguardia, vinile al parco

di admin

21 giugno 2018

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Si svolgerà il prossimo sabato 14 febbraio, presso il Parco Garibaldi a Villabuardia (CO), la prima edizione della Fiera del Vinile (ma anche del CD, DVD, e latro materiale suonante.

apertura ore 10.00 e chiusura ore 18.00.

INGRESSO LIBERO

Non mancate!

Domenica la prima edizione della Fiera del Disco di Sesto San Giovanni

di admin

13 giugno 2018

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Si svolgerà il prossimo 17 giugno la prima edizione della Fiera del Disco e del CD di Sesto S. Goiovanni, presso lo Spazio M.I.L dell’area Carroponte, in Via Granelli, 1.
Ingresso libero, dalle 10 alle 18.

LATE FOR THE SKY è presente con il nuovo numero!
INTERVENITE NUMEROSI!!

AA.VV. – When The Wind Blows/The Songs Of Townes Van Zandt

di Paolo Crazy Carnevale

13 giugno 2018

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Autori Vari – When The Wind Blows/The Songs Of Townes Van Zandt (Appaloosa/IRD 2018)

Quello di Andrea Parodi per Townes Van Zandt e molto più che un pallino, è rispetto, amore, passione, non si potrebbe spiegare altrimenti il fatto che da quattrodici anni Andrea sia il motore di un festival dedicato al cantautore texano in cui vengono ospitati solisti e gruppi italiani e stranieri. Ad ulteriore testimonianza di questa devozione, il promoter/cantautore/produttore ha messo insieme un bel doppio CD dedicato alle canzoni dell’indimenticabile Townes.
Trentadue canzoni, mica poco, un’autentica messe di suoni che ci permette di riascoltare classici totali e perle meno ascoltate del patrimonio musicale di Van Zandt.

Non deve essere stato difficile per Parodi coinvolgere tutti gli artisti presenti nel disco, sono tutti amici, gente con cui ha calcato i palchi lui stesso, come spalla, come accompagnatore, o artisti per cui ha organizzato tour nella nostra penisola nel corso degli ultimi anni, molti sono anche musicisti della scuderia Appaloosa, mai così attiva e provvida di belle novità come in questi primi mesi dell’anno.

Certo, quando si chiamano a raccolta tanti e tali artisti il rischio è che ci siano delle cover più riuscite ed altre meno, che ciascuno si approcci al materiale con diversa attitudine: probabilmente un CD singolo sarebbe stato sufficiente a raccogliere le cose migliori, ma Parodi non ha saputo (ma perché no, anche voluto) decidere di scartare qualcosa facendo così torto a qualcuno.

Questo gustoso tributo si apre subito bene con la rilettura da parte di Jaime Michaels (con Jono Manson in cabina di regia) di Snowing On Raton e si mantiene su ottimi standard con Heavenly Houseboat Blues riletta da Luke Bulla e Paolo Ercoli. Grande Terry Allen (prodotto anche lui da Manson) alle prese con una sferragliante White Frieghtliner, meno d’effetto la versione di If I Needed You cantata da Joe Ely in solitudine, non è brutta per carità, ma forse da Joe ci si poteva attendere qualche guizzo in più. Carina la proposta di Chris Jagger che propone Ain’t Leavin’ Your Love (anche se l’impressione, già evidente nei recenti concerti italiani, è che se non fosse fratello di Mick, questo Jagger non se lo filerebbe giustamente nessuno).

Non brilla neppure il brano proposto da Jono Manson, che in questo disco viene fuori meglio come produttore che come interprete, bella invece la versione di Marie del canuto Gurf Morlix, lo stesso vale per Flyin’ Shoes che nelle mani di Rado Lorkovic diventa un’intensa ballata pianistica. E che dire della magistrale Still Lookin’ For You di Thom Chacon, a conferma di quanto di buono si è già detto di questo artista a proposito dei suoi recenti concerti e del suo ultimo disco solista. Grande anche la versione di Loretta ad opera di James Maddock, così come la Waiting Around To Die di Michael McDermott, che ha il vantaggio (si fa per dire) di aver sperimentato personalmente i demoni che attanagliavano Van Zandt. Scrappy Newcomb (lo ricordate nei Loose Diamonds?) accompagna molto bene alla chitarra Slaid Cleaves in una bella Colorado Bound mentre il buon Parodi (anche lui con Manson in regia) fa sua Tecumseh Valley, sua in tutti i sensi traducendola in italiano e rendendola in maniera molto intensa, ambientandola in Sardegna senza perdere, pur avendo una voce molto distante dalla drammaticità di quella di Townes, un filo dell’intensità del brano originale. Paul Sachs rifà Pancho & Lefty un brano con cui è difficile sbagliare, però i paragoni con cui confrontarsi sono davvero troppi per farne una versione da ricordare, bella sorpresa invece Jack Trooper, il figlio di Greg, che affronta con lo zampino di Jono Manson, Our Mother The Mountain.

Ma non è tutto, il tributo ospita anche altri nomi, dai Session Americana agli Orphan Brigade, passando per Malcolm Holcombe, Bocephus King, Chris Buhails, Richard Lindgren e Tim Grimm, qualcuno più interessante, qualche altro molto più nella normalità, se di normalità si può parlare trattandosi delle canzoni di Townes Van Zandt..

ARCHIE LEE HOOKER AND THE COAST TO COAST BLUES BAND – Chilling

di Paolo Crazy Carnevale

5 giugno 2018

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ARCHIE LEE HOOKER AND THE COAST TO COAST BLUES BAND – Chilling (Dixiefrog/IRD 2018)

Il blues… una musica che mi ha sempre affascinato e a più riprese continua a farlo, anche se non è il genere che ascolto in prevalenza. Quanti bluesmen ci sono in giro che non abbiamo mai ascoltato e a cui invece varrebbe la pena di porgere l’orecchio? Molti, sicuramente, anche se va da sé, quelli storici ormai sono passati a miglior vita, intendo quelli delle origini, quelli che cantavano e suonavano per il puro piacere di intrattenere la gente in un juke joint del delta dopo il lavoro nei campi o più avanti nei bassifondi di Chicago dopo un turno in fabbrica. Il blues nero, quello propriamente detto, si è evoluto poi in qualcos’altro, a livello concettuale, mentre a livello musicale lo hanno sicuramente salvato i bianchi, sia per quanto riguarda il farlo, sia il fruirne. La musica dei neri ora è un’altra, ma qualche nero di vecchia data che lo fa ancora come si deve è tutt’ora in circolazione, magari con più seguito più in Europa che in America, ma i risultati non deludono.

È il caso di questo anziano signore il cui nome non può non richiamare alla memoria quello del suo più celebre zio John Lee o quello del cugino Earl: Archie Lee l’arte l’ha appresa direttamente dall’illustre progenitore e si sente, il suo blues è la continuazione, adattata ai giorni nostri, del folk blues di John Lee, elettrificato a dovere grazie ad un combo di pallidi rampolli europei che gli forniscono un’adeguata base, solida quando deve essere solida, discreta quando il modello originale si fa spazio con più prepotenza.

Archie non è certo un giovanotto, ha la sua età e lo si capisce dalla foto di copertina, la voce richiama molto quella di Hooker senior, ha la stessa tonalità bassa e profonda, la stessa abilità nel “mormorare” o “biascicare” il blues, e fin dal titolo questo disco realizzato in Belgio è un omaggio a lui, ma senza tralasciare altre influenze, più sudiste (ascoltate Tennessee Blues per rendervi conto di quanto il brano sia vicino allo stile musicale di tale Warren Haynes), dovute magari alle fonti d’ispirazione dei suoi accompagnatori: il chitarrista brasiliano Fred Barreto, il bassista francese Nicolas Fageot, il batterista lussemburghese Yves Ditsch e il tastierista Matt Santos, che si occupa anche dell’armonica. La formazione dopo una serie di successi mietuti esibendosi nei maggiori festival europei, ha debuttato nel 2016 e replica ora con questo disco decisamente accattivante, una delle cose migliori ascoltate ultimamente in ambito blues, omaggio dichiarato al John Lee che lo scorso anno avrebbe compiuto cent’anni.

Se da un lato ci sono brani nella norma come 90 Days o Love Ain’t No Playing Thing, dall’altro svettano perle come la menzionata Tennesse Blues in cui la chitarra e l’organo elargiscono prodezze spettacolari. E che dire della robusta title track? Nel disco i brani veri e propri si alternano con quattro tracce che fungono da narrazione, ma sempre senza perdere il contatto col modello originale, anzi, si potrebbe dire che si tratta di vere e proprie composizioni, come nel caso della rurale The Roots Of Our Family, in cui Archie Lee sfodera lo stile canoro di famiglia e con una base di armonica incanta l’ascoltatore, o di Don’t Tell Mama e Don’t Forget Where You Are From in cui racconta la storia della famiglia per metà discendente dei nativi americani e per metà dagli schiavi portati dal continente nero dai negrieri. Altro capolavoro è poi la versione di Moanin’ the Blues in bilico tra psichedelia e blues acustico, magnificamente accompagnata dalla Coast To Coast Blues Band. Ottime sono poi anche Blues Shoes e I’ve Got Reasons.

Gli umori sudisti si rifanno vivi in Your Eyes mentre da applausi sono sicuramente l’acustica Jockey Blues e la Bright Light Big City lavorata splendidamente a suon di slide.

MARCO DE ANNUNTIIS – Juke Box all’Idroscalo

di Paolo Baiotti

3 giugno 2018

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MARCO DE ANNUNTIIS
JUKEBOX ALL’IDROSCALO
Cinedelic/Interbeat 2018

Ironico, dissacrante, irriverente, distaccato, fuori dal tempo, snob, un po’ cazzaro, stradaiolo, poetico, vintage…sono alcuni aggettivi che mi sono venuti in mente ascoltando Jukebox All’Idroscalo, esordio di Marco De Annuntiis (e nome del suo precedente gruppo), cantautore romano, per la precisione di Ostia, pubblicato curiosamente dalla Cinedelic, label specializzata in lavori legati al cinema e dalla Interbeat del produttore Luigi Piergiovanni. Un disco atipico nel panorama cantautorale italiano, molto attento anche agli aspetti musicali legati a una sensibilità nei confronti di un suono anni sessanta (l’organo Farfisa ne è l’emblema) con qualche incursione negli anni ottanta e un’attenzione particolare per la chitarre affidate a Andrea Cuoco, ad eccezione del primo brano, Jukebox, traduzione aggiornata e modernizzata di Le Claqueur De Doigts di Serge Gainsbourg, che Marco indica come suo maestro di vita, un intellettuale vero che faceva finta di essere un coatto di strada, uno snob al contrario, arrangiata con il farfisa in primo piano, la chitarra nervosa di Johnny Dal Basso e un ritmo che sarebbe piaciuto ai B-52’s. Come De André é un’ironica (e coraggiosa) presa in giro di chi ha reso il grande cantautore un’icona pop fermandosi spesso ad uno sguardo superficiale dei suoi testi (con un accenno al riff di Psycho Killer dei Talking Heads), la divertente e autobiografica Dandy di Città si ispira musicalmente alla new wave degli anni ottanta, mentre Conigli Dappertutto è immersa in un’atmosfera byrdsiana con la chitarra suonata dallo stesso autore. Blues Della Renault contiene nel testo vari richiami al film Amore Tossico di Claudio Caligari, con un arrangiamento rock-blues duro e incisivo, Borderline è un ironico duetto con Ilenia Volpe (voce alla Loredana Berté). Nel finale spiccano la nervosa Vita Privata di Sherlock Holmes con il violino di Cristina Romagni e l’autobiografica Io, Io, Io e Gli Altri, altro riferimento cinematografico (allora non è un caso che incida per la Cinedelic), titolo di una commedia del ’66 di Alessandro Blasetti per un brano dall’andamento drammatico. Un esordio da non trascurare che richiama il passato anche nella copertina, tra macchina da scrivere Olivetti, registratore a bobine, sigarette Gitanes, Punt & Mes, Fernet Branca, whisky J&B e vermouth Martini.