Il 12 dicembre la Fiera del Disco di Rescaldina
di Marco Tagliabue
8 dicembre 2021
di Ronald Stancanelli
28 maggio 2020
BROOKE BENSON
I AM THE SUN
2019 autoprodotto
Brooke Benson è una singer songwriter californiana di Los Angeles. E’ uscito a fine anno scorso un album/EP di sette brani dal titolo I Am the Sun . Artista sempre attiva in campo sociale e le cui radici affondano nel lavoro teatrale si cimenta adesso nella veste cantautorale con questo breve album ove country e folk si fondono a afflati di tenue rap campagnolo, almeno questo si evidenzia dal brano iniziale che da il titolo al dischetto. Ma il trend prosegue imperterrito anche nel brano successivo, Go with the Flow, ove l’artista percorre le stesse linee vocal/musicali per esternare in questo modo un pò sincopato. ma onestamente anche piacevole le sue elucubrazioni e pensieri su quanto la, e ci circonda. In questo secondo pezzo in grandissima evidenza il violino di Chris Murphy. Andando avanti con l’ascolto ben sette brani su sette beneficiano di questa investitura un rappare countreggiante che alfine assurge anche a leggero tedio essendo i brani similmente uguali l’uno all’altro pur beneficiando di strumenti musicali un pò desueti nel genere come appunto violino, mandolino, archi che comunque in questo contesto ben si sposano coi classici basso, chitarra, batteria. Quello che in definitiva poi forse penalizza il tutto è il tono monocorde della voce che li accomuna tutti in modo esageratamente costante anche se nella traccia sei, I sing for You, la Benson canta per ben due volte per alcuni secondi ritornando subito dopo a fare il suo rap campagnolo più che urbano. I testi ovviamente sono a suo appannaggio e le musiche divise con Chris Murphy. Da quello che si evince in rete, avendo ricevuto il cd da recensire senza info o cartella stampa, scopriamo che l’artista è appunto impegnata socialmente e politicamente in una forma di spoken theatre intenso e tribale e quindi ovviamente penalizzata dall’ascoltatore di altra lingua, che equivarrebbe a proporre nel Mid West brani scarni e acustici del nostro primo Guccini !
Prodotto dalla Benson con il Murphy violinista di cui sopra, e anche autoprodotto senza alcuna casa discografica a sostegno, il lavoro si avvale di una copertina che a differenza dello stile rap alquanto attuale è completamente figlia … degli anni sessanta/settanta!
di Ronald Stancanelli
15 maggio 2020
IDA & LOUISE
SHOLTER LIDER PROUD POEMS
2019 Kakafon Records
Ida & Louise ovvero Ida Gillner e Louise Bisgaard Vase sono due giovani carine fanciulle svedesi che a differenza di coetanee che magari nelle passione musicali si butterebbero su sonorità moderne che ne so pop, rap, trip trap, trop poc, trop tant, vien voglia di scherzarci su , invece no, si fiondano con delicatezza e reverenza sulla musica yiddish. Prendendo spunti e testi da cinque poetesse rispondenti ai nomi di Celia Dropkin, Anna Margolin, Malka Heifetz Tussman, Kadya Molowsky e Rachel Korn, tutte nate nell’est Europa negli ultimi anni del diciannovesimo secolo e successivamente migrate una in Canada e quattro negli Stati Uniti, ove composero le loro poesie passando li le loro vite, nel periodo post bellico, momento quello alquanto fiorente per la cultura Yiddish. L’yiddish era il dialetto parlato dalla maggioranza degli ebrei che vivevano nella parte est europea e successivamente poi emigrati nel nuovo mondo. Discende dal tedesco ed è arricchito da elementi lessicali ebraici, neolatini e slavi. Ida and Louise si dichiarano fedelmente da sempre ispirate a Bertolt Brecht e i brani, tredici, che propongono nel loro album sono cantati sia appunto in yiddish che in inglese e nei loro testi si parla di emancipazione e desideri reconditi delle donne in generale. Detti testi sono come si suppone, tratti tutti da poesie delle cinque poetesse di cui sopra e messi in musica dalle due fanciulle svedesi che scopriamo compitare il tutto con una bravura e una classe invidiabili. L’album è stato registrato a Goteborg, entrambe le ragazze cantano e se Louise suona il piano, Ida si cimenta al sax soprano mentre solo in tre brani sono supportate dal cello di Fransesca Ter Berg. Non trattasi di album d’esordio poiché il loro debutto fu nel 2013 con il lavoro dal titolo Vilda Vide che era composto da brani a loro firma, bissato l’anno dopo da un EP di musiche e canzoni tradizionali yiddish. Al primo ascolto, è un disco non difficile ma neanche semplicissimo al quale accostarsi con pacata pazienza e interesse, l’ho trovato difficoltoso e irto di ostacoli, i brani in yiddish un po’ ostici, ma la bellezza intrinseca dell’album, le splendide voci delle musiciste e le armonie gentilmente accattivanti mi han portato ieri ad ascoltarlo e riascoltarlo per ben cinque volte; oggi che sto finendo e correggendo la recensione lo sto riascoltando ancora e nuovamente dette dolci armonie mi stanno riaffascinando. Forse a vent’anni lo avrei abbandonato al primo ascolto ma adesso che superati i sessanta, età per la quale qualcuno paventa impossibilità a uscir di casa ancora, causa coronavirus, pazienza e maggior dedizione mi han portato a valutare alfine questo disco per un piccolo gioiello di classe sopraffina. Prodotto dalla Gillner ha nel disegno della sua copertina un affastellato bianco e nero attorcigliato su se stesso alquanto indistinguibile ma che ben rappresenta le sofferenze del popolo ebreo ai tempi della seconda guerra mondiale. Ho seri dubbi si trovi facilmente nei nostri store, io l’ho ricevuto gentilmente per recensione quindi se interessati andate su www.idalouise.com
di Ronald Stancanelli
5 maggio 2020
BARBARA BERGIN
BLOOD RED MOON
LITTLE WHITE HEN Records 2020
La cantautrice Barbara Bergin in primis è un chirurgo ortopedico di non primo pelo, nel senso che non è giovanissima ma nessuno vieta a nessuno di fare musica quando il cuore ti porta a volerlo fare. E’ inoltre una grande appassionata di cavalli e conseguentemente di musica folk, fatto che si vede bellamente dalla bella copertina in bianco e nero ove la si vede sorridente appoggiata alla sella sul dorso appunto di un cavallo. Dalla natia New York si è trasferita ad Austin Texas ove è stato partorito questo Blood Red Moon piacevole album ove le sensazioni country e folk si fondono assieme e l’artista a tratti ricorda la grande Mary Mc Caslin autrice negli anni settanta ottanta di splendidi album tutt’ora sempreverdi. Certo la fanciulla o meglio signora non si inventa nulla, da sfogo alla sua passione avendo dalla sua una discreta bravura, sicuramente stimoli enormi , e la fortuna di essere coadiuvata da eminenti nomi come Merel Bregante che se non erro era ai tempi nel giro di Loggins & Messina e la Dirt Band, sicuramente comunque pascolava da quelle parti, oltre ad avvalersi del pianista T Jarrod Bonta e del chitarrista Rich Brotherton per parlare di musicisti dei quali avevamo gia sentito parlare. Ma non disdegniamo la presenza del bassista David Carroll e della produttrice del disco, la nota Jane Gillman che pure si presta a donare i suoi servigi suonando dulcimer e mandolino. Disco palesemente orientato sul versante country folk ma che oltre alla piacevole voce della sua autrice consta anche di pezzi più movimentati come l’ottima ballata country rock Three Eggs in my Apron. A proposito di Eggs, nella copertina cartonata apribile in tre parti del dischetto la Bergin non disdegna citazioni al modo americano di fare colazioni abbondanti e intense. Sublime e ben tornita la ballata Low Water Bridge e molto molto carina l’appalacchiana country song Let’s Get On Up che sa di prateria, di vecchi film western e di immagini color seppia del passato. Prende le corde dolcemente sentimentali dell’ascoltatore la sweet ballad Captain of the Robert E. Lee condita da un pacato accordion. Non la prima ovviamente a titolare una canzone a Robert E Lee , andando con la memoria rammentiamo una splendida analoga track di Tom Russell. Dodici accattivanti brani per 42 minuti decisamente rilassanti e piacevoli. Buon esordio per la Little White Hen Records. Curatissima la confezione con tutti i testi impaginati uno per uno e riferimenti a tutti i musicisti che hanno collaborato. Su www.BarbaraBerginMusic.com potete se incuriositi trovare nozioni e note ulteriori oltre a vari filmati su youtube . Da non sottovalutare questo acustica chirurga cavallerizza cantautrice che in un paio di brani suona anche la chitarra.
di Paolo Crazy Carnevale
30 aprile 2020
Jono Manson – Silver Moon (Appaloosa/IRD 2020)
Sono trascorsi quattro anni dall’ultima produzione di Jono a proprio nome, il che non vuol dire naturalmente che il nostro se ne sia stato con le mani in mano tutto questo tempo, ci sono state produzioni per altri artisti (i nostrani Gang su tutti), ci sono stati tour (l’ultimo dalle nostre parti con John Popper dei Blues Traveller meno di un anno fa) e naturalmente c’è stato il tempo di mettere insieme uno dei suoi lavori migliori, il secondo su label Appaloosa. Silver Moon è uscito proprio poco prima della pandemia, cosa che non aiuta, tutti coloro che si sono trovati con dischi in uscita in questo periodo hanno dovuto fare i conti con i negozi chiusi e con l’impossibilità di fare una promozione adeguata.
Un peccato, perché il disco di Jono merita di essere tenuto in considerazione. Il rocker/songwriter di stanza in Nuovo Messico, a Taos per la precisione, dove trascorse i suoi ultimi anni il trapper Kit Carson.
Per il nuovo disco Jono ha messo insieme una bella serie di composizioni e si è dato da fare nel coinvolgere un sacco di colleghi e amici per farsi dare una mano. Innanzitutto diciamo che il disco comunque reggerebbe bene anche senza guest star, perché la bontà del materiale e le doti di Jono in sede di produzione sono ormai ben assodate, certo che sentire far capolino tra le tracce la voce di Joan Osborne o la slide di Warren Haynes non può che far piacere. Silver Moon si regge comunque soprattutto sul solido suono creato da Jono (chitarre elettriche ed acustiche, banjo e naturalmente voce), dai fidi Jason Crosby (organo e piano), Ronnie Johnson (basso), John Graboff (ogni genere di chitarra) e Paul Pearcy (batteria). Senza dimenticare le harmony vocals di Hillary Smith e Myrrhine Rosemary.
Il disco comincia bene con il brano che lo apre, un’orecchiabile e piacevole Home Again To You, seguita dall’altrettanto azzeccata Only A Dream in cui troviamo anche la voce del compagno di scuderia James Maddock. È evidente che con la title track, in cui è ospite Haynes (per altro presente anche in altri dischi di Manson), il disco decolli definitivamente, una bella canzone, ben ordita e con un gusto southern inevitabile, conferito dall’intervento di Warren. In Loved Me Into Loving Again ci mette sul piatto il duetto con Joan Osborne, decisamente riuscito, la canzone sembra costruita appositamente per il duetto, non solo, oltre al botta e risposta tra Jono e Joan, c’è la terza voce, quella della sezione fiati che s’inserisce con sapienza, e di meno non ci si poteva aspettare da un produttore dall’orecchio fino come il titolare. I Have A Heart è una canzone breve caratterizzata dall’inconfondibile suono dell’ospite chitarrista Eric Ambel, poi c’è la lenta I Believe, dalla melodia che ricorda vagamente quella del traditional Shenandoah. I’m A Pig, sono un ingordo, non un maiale come verrebbe da pensare, è rock allo stato brado, con la chitarra di Eric Shenkman, un brano dal testo ironico, rispetto agli altri del disco che sono più tipicamente canzoni d’amore. La chitarra del brano successivo, Shooter, è quella di Paolo Bonfanti, già collaboratore in passato di Jono (i due hanno anche un disco cointestato risalente al 2003). The Christian Thing è una bella riflessione sul cristianesimo visto da un non cristiano, con le voci di Terry Allen e Eliza Gilkyson che danno una bella mano cantando una strofa ciascuno e un bel sottofondo di pedal steel a cui provvede John Grabhoff, la melodia è debitrice di qualcosa alla dylaniana Titanic, ma Dylan si sa, è di per sé debitore (e creditore) nei confronti di tutti… Rock’n’roll alla Stones invece per Face The Music dal testo amaro sulla vita e gli stravizi di certe rockstar, col pianoforte indiavolato di Jason Crosby e la chitarra di Eric McFadden.
Everything That’s Old (Again Is New) è una lenta canzone riflessiva, mentre Every Once In A While, già ascoltata nel recente tour italiano, è una canzone guidata dalla slide di Jay Boy Adams che trae lo spunto dalla gatta dei vicini portata via da un rapace e che poi si evolve in una serie di altre considerazioni sul fatto di poter avere una seconda possibilità nella vita per sistemare le cose.
Il finale, The Wrong Angel, è un ironico blues swingato col sound dell’organo in evidenza ed una storia tragicomica, nel miglior stile di Manson.
di Paolo Baiotti
29 ottobre 2019
BLIND LEMON JAZZ
AFTER HOURS
Ofeh Records 2019
Blind Lemon Jazz è uno dei progetti di James Bayfield, conosciuto con lo pseudonimo Blind Lemon Pledge, cantautore blues/roots americano che in passato ha lavorato in altri settori audiovisivi. Per questa operazione l’artista ha chiamato un quartetto di musicisti jazz: la cantante Marisa Malvino dotata di una voce calda, espressiva e languida, l’eccellente pianista Ben Flint, il bassista Peter Grenell e il batterista Joe Kelner. Dal canto suo James ha composto, arrangiato (con Flint) e prodotto tutti i brani, ricavandosi uno spazio limitato come strumentista.
Se nei precedenti sette album incisi in carriera aveva alternano blues elettrico e acustico, folk/roots, blues-rock e New Orleans jazz, con questo nuovo quartetto di artisti della Bay Area siamo in puro ambito jazz, con atmosfere da piano bar, rilassate e raffinate che ricalcano il suono della Harlem degli anni trenta e quaranta, pur trattandosi di brani autografi. After Hours è un disco sofisticato e bluesato che comprende 13 brani da night club fumoso (se ancora ne esistono), eseguiti da musicisti preparati e competenti.
Piano e voce sono in primo piano nel soul-jazz How Can I Still Love You, nella swingata Rich People In Love, nel blues If Beale Street Was A Woman che ricalca Black Coffee (hit di Sarah Vaughan e Ella Fitzgerald), nella raffinata title track, in You Can’t Get There From Here spruzzata di umori gospel, nella ballata Moon Over Memphis, in Lights Out dedicata a San Francisco. La sezione ritmica mantiene un profilo discreto, pur fornendo una base essenziale al suono, mentre James organizza dietro le quinte, lasciando spazio alla sua voce e chitarra in Blue Heartbreak che chiude il disco.
After Hours è un tentativo, tutto sommato riuscito, di ricordare un periodo e un’atmosfera, con nuove composizioni che non possono che suonare derivative.
di Paolo Baiotti
20 maggio 2018
GROUND LEVEL FALCONS
THE NEW WILDERNESS Vol. 1
GOLDEN BEAGLE 2017
Primo album realizzato dalla band dopo una pausa di cinque anni dall’omonimo esordio, The New Wilderness giunge in un momento particolare, contemporaneamente all’addio del fondatore e chitarrista Adrian Armitage. I GLF si formano ad Edmonton in Canada nel 2011, dall’unione di membri di due gruppi indie locali: Vox Humana e Whitewall, guidati dal cantante Matt Gardiner, anima della formazione e principale compositore. Nel 2014 e 2015 il gruppo pubblica due Ep’s, The Revealor Side A & Side B, ottenendo interesse e passaggi radio in molti paesi europei. Nel 2017 viene inciso il nuovo album da Gardiner con la supervisione per il missaggio di Stew Kirkwood, mentre Armitage lascia la band. Il sostituto Brent Whitford viene trovato morto in agosto a causa di una grave forma di diabete…una tragedia per il quartetto che decide di ridursi per il momento a terzetto, ma dopo la serata di presentazione del nuovo disco anche il bassista Greg Kolodychuk decide di lasciare per motivi famigliari. Pertanto al momento la band è ridotta a un duo con Gardiner e il batterista Brendan Kobayashi, ma è alla ricerca di nuovi membri, mentre il disco sta funzionando piuttosto bene in Europa e in Australia. Ispirati da artisti canadesi come Neil Young, Matthew Good e The Tragically Hip i Ground Level Falcons non nascondono influssi grunge di Pearl Jam e Nirvana e di rock alternativo vicino allo stoner (Queen Of The Stone Age e un pizzico di Rem). The New Wilderness è un disco vario con momenti interessanti, come la pulsante opener Memory Man e l’accoppiata che chiude il primo lato formata da Bring It Up During The Nighttime e Why You’re Telling A Lie influenzate dai Rem specialmente nell’uso della voce debitrice di Michael Stipe e dallo stoner nelle parti strumentali con interessanti cambi di ritmo e atmosfera, creando un tipo di rock alternativo molto interessante e attuale. Until I Post It è un altro brano di rock mosso e robusto, più morbido e ipnotico nelle parti cantate, con una chitarra aspra e distorta, How’s The Weather Up There? una ballata sognante, ma sempre con chitarre abrasive, The Wedding Upheaval un aspro hard rock. Le ultime due tracce, I Meant To e Miles Away rappresentano i primi contributi compositivi di Adrian e Greg.
di Paolo Baiotti
7 maggio 2018
GIACOMO SCUDELLARI
LO STRETTO NECESSARIO
Brutture Moderne/Audioglobe 2018
Lo Stretto Necessario è il lavoro di debutto sulla lunga distanza di Giacomo Scudellari, cantautore romagnolo di Ravenna, classe 1986, prodotto da Francesco Giampaoli (Sacri Cuori, Classica Orchestra Afrobeat). Nella presentazione del disco viene contrapposta l’evidente derivazione del modo di cantare di Giacomo dai classici cantautori degli anni settanta con la differente scelta dei testi che vogliono celebrare “il gusto onesto della Gioia con la g maiuscola in nove canzoni positive e vitali, senza tonalità minori, capaci di scavare in profondità non rimanendo scioccamente in superficie”. L’ironia e la leggerezza dei testi è affiancata da scelte musicali personali che sono logiche rispetto ai musicisti che collaborano al disco: oltre a Giampaoli al basso, Diego Sapignoli (batteria) e Christian Ravaglioli (pianoforte, mellotron, fisarmonica, launeddas), tutti provenienti dai Sacri Cuori, gruppo romagnolo che si caratterizza per scelte strumentali che mischiano folk tradizionale, psichedelica, blues e suggestioni cinematografiche (colonne sonore) con un gusto raffinato, molto apprezzati anche all’estero. A loro si uniscono la chitarra acustica di Mario Bovi, i fiati di Enrico Farnedi, l’elettrica di Stefano Pilia e le tastiere di Nicola Peruch. Tra influenze caraibiche, percussioni africane, ascendenze cinematografiche (l’opera di Morricone è uno dei capisaldi dei Sacri Cuori), cori un po’ sconnessi, Scudellari ci accompagna allegramente, a partire dal Cantico Della Sambuca, profumato di calypso, seguito da Morirò In Una Taverna (che mi ricorda Francesco De Gregori) rallegrata da fiati che profumano di Louisiana. Un Mese In Provenza è una ballata tradizionale anche nell’accompagnamento acustico, nel quale si distingue una raffinata fisarmonica, ma che nella seconda parte inserisce altri strumenti e percussioni, A Poter Scegliere un brano dall’andamento marziale con tracce di elettronica. La traccia più significativa mi sembra quella centrale del disco, La Luna Ha Sempre Ragione, ballata intensa arrangiata con gusto ed evidenti richiami ai fiati morriconiani. La seconda parte dell’album convince meno, tra il country un po’ deboluccio di Chiedi e Ti Darò (filastrocca che richiama Volta La Carta di De André), le influenze centroamericane di Cose Che Sai e caraibiche di Addio Alla Tristeza, fino alla conclusiva Lo Stretto Necessario, traccia intimista con un testo di qualità. La copertina colorata di Davide Salvemini riflette le vibrazioni e la vitalità del disco, un esordio degno di attenzione.
di admin
9 settembre 2016
I più accaniti vinyl hunter si ritroveranno a San Vittore Olona (MI) il prossimo 25 settembre, per la quarta edizione della Fiera del Disco, del CD e del DVD usato e da collezione, che si svolgerà presso il Centro Sportivo Malerba, in via A Grandi, angolo via XXIV Maggio.
l’orario è dalle 10.00 alle 18,30.
L’ingresso è GRATUITO.
vi aspettiamo!
di Paolo Crazy Carnevale
20 maggio 2015
YAGULL – Kai (Moonjune Records 2015)
Il progetto musicale di Sasha Markovic, chitarrista e autore serbo, trapiantato nella Grande Mela, giunge al suo secondo capitolo, dopo la parentesi che l’artista aveva dedicato alla sua side band chiamata Sours, e per questo secondo capitolo il progetto cambia forma, si allarga: al fianco di Markovic non ci sono più i musicisti che con i loro archi avevano aiutato a definire il concetto di “post rock da camera”, la nuova partner musicale è la pianista giapponese Kana Kamitsubo, proveniente da studi classici e ora anche moglie di Markovic.
Il concetto non è cambiato di molto, l’idea di base rimane la stessa, una manciata di composizioni strumentali originali che si dipanano tra momenti più intimi e straordinari crescendo, solo che duettare con la chitarra c’è il piano al posto degli archi. E accanto alle composizioni originali, come nel primo disco accreditato a Yagull, troviamo anche due cover di rock degli anni settanta rivisitate alla perfezione nello stile Yagull, dopo Black Sabbath e Cream, stavolta a finire nel repertorio di Markovich ci sono i Free (Wishing Well) e i Deep Purple (Burn). Ma ci sono anche un sacco di ospiti a dare una mano in studio, a rendere il tessuto di questo disco ancor più bello, ospiti provenienti dalla scuderia Moonjune come il chitarrista indonesiano Dewa Budjana, il batterista Marko Djordjevic, il chitarrista Beledo e ancora l’armonica di Jackson Kincheloe e molti altri.
Notevoli sono sicuramente i due brani ripescati e rivisitati dal disco d’esordio di Yagull, la possente Dark i cui nuovi abiti sono un autentica sciccheria con il piano e la chitarra che si alternano nell’essere protagonisti e Sound Of M resa preziosa dall’armonica di Kincheloe. Ma a parte le rivisitazioni e le cover, a brillare in questo CD sono i brani nuovi di zecca, dall’iniziale North (che con East dal disco precedente potrebbe costituire una sorta di quartetto le cui terza e quarta parte sono ancora da incidere o comporre) alla breve Z-Parrow, in odore di irish folk anche per via delle suggestioni del flauto di Lori Reddy, alla title track dedicata al figlio dei due titolari.
Ma i pilastri del disco sono senza dubbio Blossom, il brano con Dewa Budjana, Omniprism dalle numerose invenzioni strumentali e l’eccelsa Mio, dal tessuto sonoro che incrocia atmosfere d’ispirazione iberica e evidenti richiami alla musica balcanica che evidentemente troneggia nel dna di Markovic.
di Marco Tagliabue
2 maggio 2015
Per salutare il ritorno del Pop Group con un disco di inediti, il recentissimo Citizen Zombie, a trentacinque anni di distanza da For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder, andiamo a ripescare un vecchio articolo sul gruppo di Mark Stewart scritto in tempi piuttosto bui…
Parla, illumina queste catene/Parole come azzurri cristalli/Rompiamo la barriera del suono/Rubiamo la velocità alla luce. Seppelliamo il sole e beviamo /Beviamoci la notte. Ti prego non vendere i tuoi sogni. Parla, illumina queste catene/Dipingi un nuovo suono/Inventa un colore nuovo/Afferra, afferra, afferra un pensiero/Lacrime di polvere, disperse dall’aria. Ti prego non vendere i tuoi sogni/Non vivere nei sogni di qualcun’altro. (Don’t Sell Your Dreams-1979)
Per molto tempo il Pop Group è stato solamente un sogno. Un miraggio da rincorrere a prezzi assassini, buono per i pazzi ed i collezionisti, che è un po’ come dire la stessa cosa. Spasmodicamente attratti dal quel piccolo e misterioso culto che da sempre circonda la band, in tanti ne siamo stati irrimediabilmente respinti, vittime dei cronici problemi di reperibilità di quelle irraggiungibili opere, quasi si fosse voluto sancire una sorta di “numero chiuso” da parte dei gelosi custodi del mito. Eppure Y è uno dei dischi più radicali, innovativi, importanti ed influenti degli ultimi 25 anni di musica rock. E dei più belli, naturalmente. Una recente (e purtroppo incompleta) ristampa in digitale della scarna discografia del gruppo ha reso solo parziale giustizia a questa drammatica nefandezza: si tratta ancora una volta di materiale pubblicato in un numero limitato copie e di non facilissima reperibilità, ma tanto basta per consentirci di spendere qualche parola su questa incredibile esperienza senza il rischio o il timore di suscitare, in coloro che ne cercassero un contatto tardivo, la bellicosa reazione per un interesse stimolato sulla carta e negato dai fatti…
Ognuno ha il suo prezzo/Ed anche tu imparerai/Ad accettare la menzogna. Aggressione/ Competizione/ Ambizione/Fascismo consumista. Il Capitalismo è la più barbara di tutte le religioni/ I centri commerciali sono le nostre nuove cattedrali/Le nostre automobili sono martiri per la causa. Siamo tutti prostitute. I nostri figli si rivolteranno contro di noi/Perché noi siamo gli unici da biasimare/Siamo gli unici da condannare. Ci daranno un nome nuovo/Ci chiameranno ipocriti, ipocriti, ipocriti. (We are all prostitutes-1980).
Il Pop Group è anche rabbia, furia e rancore. Lo stesso sentimento che ispira la blank generation sfrondato da quel nichilismo autodistruttivo tanto caro ai fratellini punk: al posto del no future fine a se stesso che tutto accomoda e tutto risolve in mera ed impotente accettazione dello status quo, il furore iconoclasta di chi non vuole sottacere i crimini sui quali è stata edificata la civiltà dei consumi e la condivisione, forse ingenua e contraddittoria ma certo genuina, del dolore che si cela dietro ogni sorriso negato. La sincera passione, insomma, di chi vuole esibire la propria diversità non come scudo per proteggersi dal mondo ma come ariete per sfondarlo.
Stomaco testa e genitali/Soffocati fino a perdere conoscenza/Acqua ghiacciata sparata nelle orecchie/Borse di plastica strette intorno alla testa/Scagliati contro il muro/…/Colpiti sul viso/Stretti per i polsi/Alzati per le orecchie/Bruciati con le sigarette/Presi a calci sui denti/Poi gettati esanimi sul pavimento/Ed infine calpestati. (Amnesty Report-1980).
Ma Pop Group vuol dire soprattutto coraggio. Il coraggio di scuotere le coscienze e di rivoltarle come calzini appesi al sole, il coraggio di far male, di menare fendenti e coltellate, di produrre ematomi e lasciare ferite sanguinanti. Il coraggio di parole incontrovertibili e di uno degli assalti sonori più urticanti che ci sia mai stato dato di udire: una incredibile miscela di punk, funk, dub, free-jazz e noise dalle tinte inequivocabilmente new-wave ma distante anni luce da ogni esperienza collaterale o pregressa. Accostarsi per la prima volta alla sua pressione devastante è un po’ come sottoporsi ad una violentissima centrifuga: un moto liberatorio capace di provocare non solo stordimento e confusione ma anche una profonda, completa, rigenerazione. Una delle poche esperienze artistiche davvero in grado di creare una nuova prospettiva.
…/Non moriremo insieme nel deserto/Scapperemo dagli uomini di preghiera/Urleremo di gioia come nella Rivoluzione Francese/E ci faremo beffe della ghigliottina. Cammineremo verso il mare selvaggio/E’ l’unica direzione per noi due. Disapprovando la vita intorno a loro/Hanno creato un mondo su misura/Sei il mio ultimo desiderio prima del plotone di esecuzione/Ma i proiettili non possono scalfire il mare. Ci nasconderemo nel mare selvaggio/E’ l’unica direzione per noi due. Perché gli eroi devono sempre morire in battaglia?/Prendi il violino/Siamo esuli. (Savage Sea-1979).
E mi piacerebbe poter dire che si intravede una luce in fondo al tunnel, ma non c’è speranza nella guerra del Pop Group: la salvezza è altrove, non in questo mondo che reclama un sacrificio dopo l’altro e che potrà rinascere soltanto dalle sue ceneri, siano esse le selvagge tribù antropomorfe della copertina di Y o l’innocenza perduta del celebre bacio terzomondista di For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?
Una domanda destinata a rimanere senza risposta come, del resto, la maggior parte dei quesiti posti dalla band. Ma è più onorevole la sconfitta di un ritiro, anche se questa rappresenta, innanzitutto, il crudele fallimento dei sogni e delle illusioni dei vent’anni.
Già, perché Mark Stewart, Gareth Sager, Bruce Smith, John Waddington e Simon Underwood non hanno nemmeno vent’anni quando, nei primi mesi del 1978, decidono di passare dai banchi di una anonima High-School di Bristol alle trincee del loro personalissimo campo di battaglia. Il nome che si scelgono, The Pop Group, è spiazzante nella sua perversa semplicità: non esiste, con tutta probabilità, niente di più lontano dalla musica pop, nella comune accezione del termine, dell’incredibile assalto sonoro perpetrato dal gruppo…
Con un ventaglio di ispirazioni trasversali che abbraccia le suggestioni letterarie di Rimbaud e Burroughs e quelle musicali di Ornette Coleman, Last Poets, James Brown, Can, John Cage, Archie Sheep, King Tubby e, perché no?, di quell’altro Pop(ular) Group che erano gli Area di Demetrio Stratos, i nostri, dopo un breve tour estivo di supporto ai Pere Ubu, si accasano presso la Radarscope Records all’inizio del 1979 e pubblicano, nel giro di pochi mesi, il 7” di debutto She Is Beyond Good And Evil/3:38.
Opera per certi versi fuorviante e contraddittoria, il singolo è la perfetta esemplificazione delle due anime che dipingono la primavera del gruppo e rappresenta, in qualunque modo lo si voglia considerare, un ideale passaggio di testimone fra le influenze wave opportunamente filtrate della title-track, tipiche dei primi esperimenti sonori dei cinque, ed il superamento di ogni confine stilistico che caratterizza la b-side e l’intera produzione successiva della band.
Se She Is Beyond Good And Evil (probabilmente il brano più conosciuto ed abbordabile del Pop Group) è una traccia dubbeggiante dalle forti connotazioni new-wave ottimamente costruita intorno alla voce magnetica di Mark Stewart, la vera sorpresa arriva con 3:38 (titolo dettato, è inutile dirlo, dalla durata del brano), un incredibile strumentale a metà strada fra i Can ed i This Heat, che si pone come autentico crocevia con le suggestioni sonore che ci attenderanno, di li a poco, nel mirabolante album d’esordio del gruppo. (Davvero inspiegabile a questo proposito la mancata inclusione di 3:38 in ogni successiva ristampa del materiale della band, come appare discutibile, del resto, l’inserimento di She Is beyond Good And Evil nella release del 1997 di Y: un “allacciamento” quantomeno un po’ forzato).
…/Ma a chi credere/Quando sei vittima di una nazione di assassini/Devo credere a me stesso? Mi sento come un vagabondo in gabbia/Fiori in Mosca/I perdenti si prendono tutto/Siamo qui per andarcene/Tutti gli amanti tradiscono… (Thief Of Fire-1979)
Y vede la luce dopo una manciata di settimane. In copertina il primitivismo esasperato di una selvaggia tribù africana a rappresentare il punto di ripartenza di un immaginario (e forse auspicato) day after o, allo stesso modo, il punto di arrivo dei deliri di onnipotenza della contemporanea civiltà dei consumi. All’interno un poster con i testi ed un collage esplicito di immagini militanti dalle varie parti calde del mondo: Cambogia, Vietnam, Irlanda… Nei solchi un senso di rabbia, disperazione e frustrazione ai limiti della capacità di sopportazione, una serie ininterrotta di scene spaventose e sanguinarie, una tensione emotiva ai limiti dell’inumano…
Accompagnare la puntina a fine corsa è un’esperienza catartica e sconvolgente, un vero e proprio esercizio di auto flagellazione: un ascolto attivo può essere davvero tutto questo, ma ciò che rimane non è arrendevolezza o depressione, bensì uno spirito nuovo ed una nuova visione, una sensibilità diversa ed un diverso modo di sentire, un insperato vigore ed uno sguardo capace di andare oltre, attraverso la notte dei propri pensieri, nelle smisurate profondità dell’io.
Y è anche una messe furibonda di ritmi sconnessi e forsennati, di sussurri ed urla strazianti: pochi i momenti di respiro o abbandono, molteplici quelli di estasi e delirio. Funk innanzitutto, ma anche jazz, avanguardia, musica tribale e folk urbano in un caos sonoro all’insegna dello sperimentalismo e di una calcolata improvvisazione: un magma disarticolato aperto alle mille possibilità vocali di un Mark Stewart in forma come non mai.
Due i brani portanti dell’album: l’iniziale Thief Of Fire, un funky corposo che riesce a dare spazio
anche ad un inserto avant e ad una coda dalle forti tinte free-jazz, e la lunga We Are Time, oltre sette minuti di assalto alla corteccia cerebrale con ogni strumento al meglio delle sue possibilità e, su tutto, la voce di Mark che ti buca la pelle.
…/Nessuno schema da seguire/Nessuna paura del domani/…/Domeremo la velocità del cambiamento/L’eternità sarà nostra. Il tempo è con te/Splende attraverso i tuoi occhi/Uccideremo la parola/Le menzogne in caratteri neri/Menzogne menzogne menzogne/Il tuo mondo è costruito sulle menzogne. (We Are Time-1979).
Ma c’è spazio anche per atmosfere più ardite prossime alla sperimentazione (Blood Money, Words Disobey Me, The Boys From Brazil), per insperati momenti di respiro (Snow Girl) ai limiti dell’intimismo più disperato (Savage Sea), per la fine anarchia jazz di Don’t Call Me Pain e per il drammatico finale di Don’t Sell Your Dreams, in cui la tensione si fa davvero insostenibile mentre Mark implora straziante il suo tragico refrain. Quando la rabbia si placa e subentra il silenzio, la fine del disco giunge davvero come una liberazione.
…/Abbiamo paura di ciò che non possiamo comprendere/Soldati soldati soldati/Marciano attraverso i tuoi occhi/Bruciano le tue dita nell’oscurità/Non chiamarmi dolore/Il mio nome è mistero/Questa è l’epoca delle possibilità/O almeno così dicono. (Don’t Call Me Pain-1979)
Poco dopo la pubblicazione di Y cominciano ad apparire le prime crepe: Mark Stewart, in disaccordo con gli altri, saluta tutti e se ne va, mentre la Radarscope Records, di fatto una figlia illegittima del colosso Warner, sente la terra bruciare sotto i piedi e preferisce dare il benservito al gruppo, che definire scomodo è puro eufemismo…
Mentre la diaspora in seno alla band viene prontamente risanata dal manager Dick O’Dell, che mette sul piatto della bilancia la creazione della etichetta personale Y Records a maggior garanzia della totale indipendenza del gruppo, si fa avanti la Rough Trade offrendo la propria disponibilità per la distribuzione del materiale prodotto dalla nascente label.
Prima del grande passo c’è comunque tempo per la pubblicazione, sempre su Rough Trade, dello storico 7” We Are All Prostitutes/Amnesty International Report in cui, per la prima volta, appare il nuovo bassista Danny Katsis al posto del dimissionario Simon Underwood. Il primo brano è un assalto al vetriolo con evidenti connotazioni funky in cui rabbia e pessimismo si uniscono in un desolato abbraccio, mentre, ancora una volta, la vera sorpresa arriva dal lato b. In Amnesty International Report On British Army Torture Of Irish Prisoners (questo il titolo completo della traccia), Mark Stewart non fa altro che enunciare stralci del citato rapporto con una rabbia feroce che trova ideale compendio nel violento free-jazz-noise di fondo. (Una versione del brano più prossima alla forma-canzone è presente nel disco postumo di out-takes We Are Time).
Ad un altro 7” tocca l’ingrato compito di inaugurare il catalogo della neonata Y Records. Si tratta di uno split con le Slits, il più importante gruppo punk all-female con l’alto patrocinio di Mr. John Lydon, e da il via ad una collaborazione che proseguirà nei primi mesi del 1980 con una tournee europea che toccherà anche il nostro Paese. Il brano dei nostri, intitolato Where There Is A Will There Is A Way, è un altro tiratissimo funk antimilitarista ai limiti dell’isteria.
Solo una domanda/Per quanto tempo dovremo tollerare gli stermini di massa? La tolleranza è la maschera dell’apatia/L’assuefazione è una pratica quotidiana/C’è l’inferno di un mare di soldi prodotto dalle guerre/Com’è patetica la nostra apatia di fronte alla miseria degli altri/La nostra inazione di fronte al loro assassinio o alla loro schiavitù è un crimine violento. C’è la colpa e c’è l’azione/Tutto quello che chiediamo per noi è un tranquillo Eden personale/…/Nella nostra ignoranza la gente viene uccisa/Nella nostra decadenza la gente muore/…/ (For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?-1980)
For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?, opera inequivocabile fin dal titolo, esce nei primi mesi del 1980 su Y Records a rappresentare, dopo così breve tempo, una sorta di testamento politico e artistico della band, ormai giunta al capolinea della sua fugace corsa.
Più secco, diretto, esplicito e uniforme sia sotto il profilo musicale che sul versante dei contenuti, l’album conserva solo una morbida scia della vivida magia del suo nobile predecessore, del quale sembrano venire in buona parte meno l’originalissima vena creativa e le drammatiche atmosfere surrealiste.
Ciò che fin dalle prime note sembra irrimediabilmente perduto è proprio ciò che rendeva grande, unico ed irripetibile il precedente Y, vale a dire quel pathos a tratti insostenibile, quel senso di angoscia opprimente, quell’aspettativa di una catastrofe imminente che facevano di ogni ascolto un’esperienza diversa, contrastante ma ad ogni modo liberatoria.
Confezionato in uno splendido packaging militante che comprende, oltre alla magnifica copertina, quattro fogli di controinformazione su alcuni dei temi scottanti del cosiddetto mondo civile, il lavoro sacrifica la poesia a favore della politica e abbandona le infinite suggestioni sonore del passato per percorrere i binari di un massiccio funky a 360 gradi.
Si tratta di un album più fisico che cerebrale insomma e non sarebbe certo un sacrilegio immaginarlo quale danzereccia colonna sonora per una festa davvero in ove, oltre che con le gambe, si ballasse per una volta anche con la testa.
…/Nelle miniere in Bolivia/Nelle fabbriche in Sudafrica/Nelle strade in Indonesia/Sfruttamento, cupidigia/Nutriamo gli affamati. Più di 10.000 uomini, donne e bambini/Muoiono di fame tutti i giorni/La causa principale della fame e della povertà/E’ l’avidità organizzata della razza umana/Nutriamo gli affamati. Nei campi in Cambogia/Nelle baraccopoli in India/Nelle prigioni in Argentina/Sfruttamento della manodopera a basso costo. Lo sfruttamento è la violenza carnale sul Terzo Mondo/I banchieri occidentali decidono chi deve vivere e chi deve morire./…/ (Feed The Hungry-1980)
Un impressionante uno-due: Forces Of Oppression, un funky tiratissimo con incredibili inserti di chitarra ed una voce sguaiata e filtrata dai toni a tratti waitsiani, e Feed The Hungry, un accattivante reggae/dub, costituiscono invariabilmente l’asse portante di un album che ha ulteriori punti di forza nel caos primordiale di One Out Of Many e Communicate, nei toni stemperati in odor di Giamaica di There Are No Spectators e nell’esplicito inno all’esproprio a ritmo di fanfara di Rob A Bank.
C’è solo il tempo di pubblicare, a bocce ormai ferme, il disco di out-takes ed alternate-version We Are Time (1981), che comprende materiale tratto da vecchi demo, registrazioni inedite dal vivo (Genius Or Lunatic, Spanish Inquisition) e in studio (Kiss The Book, Sense Of Purpose, Trap, Amnesty Report mk. II) oltre a versioni in presa diretta di vecchi classici (We Are Time, Thief Of Fire) spesso penalizzate da una qualità di registrazione poco più che amatoriale, perché il torrente in piena del Pop Group rompa definitivamente gli argini a favore di un sorprendente numero di emissari diversi.
Dei quali ci basterà solamente ricordare i Pig Bag del già dimissionario Simon Underwood, titolari di un effimero successo nel nome del singolo Papa’s Got A Brand New Bag, i Maximun Joy di John Waddington e Danny Katsis, fautori di un approccio più easy al funky abrasivo del gruppo madre, e, soprattutto, i Maffia di Mark Stewart ed i Rip Rig & Panic di Gareth Sager e Bruce Smith, i più abili a raccogliere ed a portare più a lungo nel tempo lo scomodo ma inebriante testimone lasciato dal Pop Group.
Non ci sono spettatori/Devi partecipare che ti piaccia o no/Non ci sono spettatori/Sei responsabile che ti piaccia o no/Nessuno è neutrale, nessuno è innocente e nessuno sarà dimenticato/La fuga dalla realtà non equivale alla libertà/…/Certi uomini vedono le cose come sono e si chiedono perché?/Io sogno le cose come non sono mai state e mi chiedo perché no?/…/Solo tu puoi essere il tuo liberatore/ Solo tu. (There Are No Spectators-1980)
Il Pop Group consisteva nel fatto di crescere collettivamente in pubblico: terminato il periodo della crescita non avevamo più ragione di esistere. Ogni gruppo ha un periodo di vita limitato: abbiamo fatto bene a non oltrepassarlo. (Mark Stewart)
da LFTS n.59
di Marco Tagliabue
12 aprile 2012
Cosa spinge gente come noi, più vicina alla pensione che alla maturità (quella scolastica, naturalmente, perchè per l’altra non abbiamo più speranza), a gongolare per ogni pacco quadrato che ci arriva (preferibilmente di nascosto) da ogni parte del mondo? Il disco introvabile? Forse…(ma quanti dischi introvabili ci sono?)… Il prezzo stracciato? Difficile… La sindrome di Babbo Natale? Certo, certissimo, anzi probabile…
Ah…ci mancava anche internet…
Dedicata a Blek, Crazy, Roberto, Daniele, Ettore e a tutti gli altri giocherelloni…sarebbe bello se ognuno ci desse la sua risposta…
di Marco Tagliabue
24 agosto 2010
www.lettersofnote.com/2009/09/i-leave-it-in-your-capable-hands.html
Un carteggio interessante fra Mick Jagger ed Andy Warhol a proposito di una copertina destinata a passare alla storia…questa, naturalmente…