Archivio articoli per la categoria ‘Juke Box all'Idrogeno’

IN MORTE DI S.B. (Canzone per un amico immaginario)

di Marco Tagliabue

19 settembre 2016

Pensandoci bene è come se qualcuno mi avesse telefonato dicendomi: “Hai sentito? E’ morto Jim Morrison…”. Ed io, incredulo e sgomento: “Come? Jim Morrison?!? Ma scusa, e quella vasca da bagno a Parigi trentacinque anni fa? Quel blocco di granito al Pere Lachaise? Sei sicuro di quello che dici? Chi ti ha messo in testa una panzana del genere?” Strano destino quello di Syd Barrett: al pari di Jim Morrison era fantasma più o meno dal 1971, salvo qualche rarissima, mitizzata e del resto mai provata apparizione –prima fra tutte quella negli Abbey Road Studios di Londra della primavera del 1975, durante le sessions di registrazione di quel Wish You Were Here con il quale i suoi ex compagni stavano tentando un improbabile re-styling alle proprie vituperate coscienze- e adesso che qualcuno ci avverte che spiritello lo è diventato davvero, quasi stentiamo a crederci, come a dire che non si può morire una seconda volta.

Eppure sapevamo benissimo che, al contrario del Re Lucertola, da qualche parte, chissà dove, il suo cuore continuava a battere. Magari non la sua testa di bambino prigioniero in chissà quale corpo da uomo, ancora schiava degli eccessi giovanili o di una madre troppo autoritaria o di una qualsiasi delle migliaia di leggende che circolavano intorno al suo conto, irrimediabilmente perduta in qualche universo parallelo ma non comunicante, in cui le luci ed i colori erano ancora quelli della Swinging London e dei suoi sogni in technicolor, dell’Ufo Club e delle sue luci stroboscopiche, di una primavera mai sfociata in estate e dei suoi fiori appassiti troppo in fretta.

In fondo preferivamo pensarlo già morto, era più comodo pensarlo già morto: il pifferaio magico non si era fermato davanti alle porte del crepuscolo, aveva osato oltrepassarle e si era consegnato direttamente all’eternità senza togliere completamente il disturbo. Forse era stato semplicemente più furbo di chi aveva scelto di diventare leggenda riempiendosi di porcherie sino a soffocare nel proprio vomito o sparandosi direttamente un colpo in bocca senza passare dal via: il risultato, in effetti, gli aveva dato pienamente ragione. E se tutte le altre grandi icone giovanili degli anni sessanta, da Janis Joplin a Marylin Monroe, da Jim Morrison a Jimy Hendrix a Che Guevara, erano state costrette a lasciare questa Terra per consegnare alla Notte dei Tempi un’immagine per sempre bella, giovane e ruspante, il buon Syd era riuscito nello stesso intento strappando all’Altissimo una proroga non indifferente ai disegni che riguardavano il proprio percorso mortale. Solo il suo specchio, e magari il suo gatto e quella famosa mammetta un tantino oppressiva, sono stati testimoni del passare degli anni, dei capelli che si diradavano e s’incanutivano, del profilo che si allargava, della pelle che si raggrinziva…anzi c’è da scommettere che perfino lo specchio, ai suoi occhi, sia riuscito a mentirgli ed a consegnarli fino alla fine sempre la stessa immagine, quella di un giovane magro e dai lineamenti delicati, i capelli arruffati e lo sguardo perso chissà dove, che veste calzoni neri attillati e camicie sgargianti. L’immagine con la quale lo abbiamo ricordato in tutti questi anni durante i quali la sua leggenda non ha mai accennato a sbiadire, alimentata da torme di giovani artisti che lo continuano ad eleggere quale nume tutelare e da un aggettivo, “barrettiano”, che è ormai diventato di accezione comune per definire un determinato approccio alla canzone ed alla materia rock.

E non ci importava in fondo sapere che era ancora vivo, che quegli scatti appartenevano ad un’altra epoca, ad un’altra esistenza, e che magari adesso il buon Syd era un tranquillo signore di mezz’età che dava da mangiare ai suoi gatti o portava a spasso i propri cani, schiavo di una tranquilla vita medio borghese piuttosto che delle sue antiche allucinazioni, perduto nel traffico delle ore di punta o nei vialetti tutti uguali del parco piuttosto che nel labirinto senza uscita della propria mente malata. Perché Syd era già morto, era già leggenda, era già eternità e tutto il resto non contava. Che smacco però, a pensarci bene, immaginare che dove non sono riusciti LSD e acidi vari, dove non è riuscita una mente insana che da un momento all’altro poteva varcare la soglia di attenzione e sfociare nell’irreparabile, è arrivato uno sciocco, comunissimo e banalissimo diabete. Proprio vero che il Diavolo fa le pentole, ma non i coperchi.

Ma lasciatemi pensare, almeno, che quando, malato e invecchiato anzitempo, Syd ha compreso che nessuna delle sue punture quotidiane o dei quintali di porcherie –purtroppo legali- che era costretto a prendersi avrebbero potuto salvarlo, e che era venuto il momento, probabilmente tanto atteso, di sciogliere il patto con il Gran Cerimoniere, la sua stanza si sia popolata, per l’ultima volta, delle sue squinternate visioni, e che siano stati Uomini Vegetali, Elefanti Effervescenti e strane creature tentacolari a scortarlo nel suo viaggio più importante, mentre tutt’intorno la luce, da un fioco lume di candela, si trasformava in un bagliore accecante. Ora hai davvero iniziato a splendere, pazzo diamante.

da LFTS n.83

DAVID BOWIE – Intorno alla trilogia berlinese

di Marco Tagliabue

1 febbraio 2016

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Innanzitutto perché, ormai per consuetudine, continuare a parlare di trilogia, se è vero che solo “Low” e “Heroes” furono realizzati interamente a Berlino, se pure la gestazione del primo avvenne probabilmente ancora in terra francese, mentre “Lodger”, che è stilisticamente agli antipodi rispetto ai suoi predecessori, fu registrato e prodotto in Svizzera? (anche se, per amor di chiarezza, bisogna ammettere che è stato in parte concepito nella metropoli tedesca). Diciamo che è quantomeno un concetto di trilogia piuttosto allargato, al quale per convenzione ci accodiamo volentieri, per quanto, a voler essere precisi, l’essenza del Bowie berlinese è nei soli “Low” e “Heroes” e, restringendo ancor di più il campo d’azione, nelle seconde facciate dei due lavori, che ospitano le pulsioni più sperimentali, più ambientali (ovvero più influenzate dall’atmosfera in cui era calato) mai scaturite dalla penna del Duca Bianco. E poi perché continuare a pensare, per una fin troppo scontata associazione di idee, che sia stato Brian Eno a produrre la trilogia, quando in cabina di regia sedeva ben saldo il solito Tony Visconti? Il ruolo di Eno ebbe sicuramente grande valore, e soprattutto nelle composizioni più “berlinesi”, parte delle quali scaturirono anche dalla sua penna, ma si limitò, se così si può dire, oltre che ad una presenza fisica dietro le sue diavolerie elettroniche durante le sedute di registrazione, ad una sorta di eminenza grigia, di fonte ispirativa per i nuovi orizzonti che si andavano delineando nella mente di Bowie. La sua “Discreet Music” già aveva fatto parlare di sé, indicando che, anche nella musica pop, un nuovo mondo era possibile. Ed a Berlino il peso della storia si bilanciava perfettamente con le aspettative per il futuro.

“Low” (RCA, 1977) offre fin dalla copertina un profilo arcigno, quasi militaresco di un Bowie pensoso, corrucciato, cappuccio sulle spalle e bavero alzato, contro un cielo arancio vivo che sembra destinato ad infuocarsi da un momento all’altro. Inutile dire che Ziggy Stardust pare sepolto sotto due metri di terra. Un album spaccato a metà, con due facciate diverse come il giorno e la notte. Ma anche il giorno è di quelli senza sole, con le nuvole basse cariche di pioggia sempre in procinto di scoppiare. Uno di quei giorni nervosi e frenetici, pulsanti e schizofrenici. Un giorno in cui tutto sembra precipitare senza scampo verso un epilogo che non era stato messo in conto. Speed Of Life è il brano strumentale che apre l’album: un ponte perfetto fra il vecchio, che è una frase allegra dei fiati sintetizzati ripetuta a mo di fanfara, ed il nuovo, rappresentato dagli intermittenti tetri fondali di tastiere che introducono ad una nuova dimensione, glaciale e marziale al tempo stesso. Breaking Glass è un brano breve, spigoloso e psicotico, non dissimile dalla successiva What In The World, che ospita la voce di Iggy Pop, nella quale una struttura più tradizionale è scossa da ritmi sussultanti e scomposti, mentre chitarre, organo Farfisa e sintetizzatori sembrano prendere direzioni diverse in una sorta di pluralismo cacofonico. Sound And Vision, singolo di successo in Inghilterra, è il brano pop dell’album, ma non sfugge ai canoni, ovvero alla mancanza di canoni, di un lavoro che fa di coraggio e disinvoltura il suo asse portante. Una lunga intro strumentale fra le linee guida della chitarra, una frase del sassofono e qualche svisata sintetica, che sfocia in strani cori e nei celebri contrappunti vocali di un canto che è per metà parlato. Il canto è un caldo recitativo anche nella successiva Always Crashing In The Same Car, una base avvolgente anche se in buona parte sintetica, con la spina dorsale delle chitarre trattate di Eno che lascia il posto ad un vero e proprio assolo nel finale del brano. Be My Wife è un brano semplice, diretto, su un ritmo pulsante e spigoloso ricco di soluzioni chitarristiche. Il cerchio si chiude sul primo lato con un altro episodio senza parole, A New Career In A New Town, in cui strumenti tradizionali e sintetici si fondono in fluide trame ipnotiche che stendono un ponte fra la sensibilità pop dei brani precedenti e le atmosfere ambient nelle quali ci si sprofonderà girando il disco. Nella seconda parte la mano di Eno si fa più pesante e Berlino diventa una presenza palpabile, incombente, implacabile, anche se la prima, memorabile traccia è intitolata a Warszawa. Imponente e dolcissima, marziale ma di una tristezza infinita, condita da incredibili vocalizzi che paiono urla di dolore destinate a rimanere inascoltate, è musica troppo grande per essere definita ambient: è l’idea di un mondo sconosciuto nascosto da una cortina d’acciaio, il battito di un cuore pulsante coperto da uno strato di ghiaccio. Inestimabile la sua influenza sulle generazioni successive: basti pensare che il suo titolo ispirò il nome della prima incarnazione dei Joy Division, i Warsaw. Art Decade sono ancora tetri fondali sintetici, disperati rantoli e riverberi spaziali: pur non possedendo la maestosità del brano che la precede, ne amplifica il senso di frustrazione e disperazione, e se ne va senza lasciare alcuna speranza. In Weeping Wall Bowie fa tutto da solo creando una sorta di mini sinfonia post industriale, fra tetre tessiture sintetiche, in un movimento solcato da dilanianti effetti chitarristici, che le pulsazioni minimali dei sintetizzatori scandiscono come un metronomo impazzito. Subterraneans chiude l’album con uno strumentale cupo, imponente, disperato, che si sviluppa fra glaciali melodie sintetiche, strane litanie vocali e malinconiche frasi di sassofono profonde e tenebrose, quasi a rappresentare una sorta di calore umano, un anelito di respiro in mezzo a tanto tormento. Un’atmosfera surreale da “Blade Runner” prima di “Blade Runner” che lascia un dubbio irrisolto sulla natura del vincitore, uomo o macchina che sia. Ma forse, a vincere, è semplicemente Berlino.

“Heroes” (RCA, 1977) è il tentativo di restituire “Low”, di cui ricalca in buona parte gli schemi, con un volto più umano, già a partire dalla posa plastica nel leggendario scatto di copertina. Ancora una facciata di canzoni ed una quasi interamente strumentale, ma un’atmosfera sicuramente meno opprimente, meno claustrofobica, meno schizoide, come se Berlino, che aveva ammantato con la sua ingombrante presenza l’intero lavoro precedente, fosse ormai metabolizzata, somatizzata, interiorizzata, quasi addomesticata, e la sua ombra lunga spezzata da qualche raggio di luce. Beauty And The Beast è all’apparenza un brano semplice e leggero, con quei coretti frivoli, nonostante una solida base ritmica quasi funk e le incredibili parti di chitarra nelle quali gli strumenti vengono filtrati, trattati, effettati fin quasi a risultare irriconoscibili. Joe The Lion segue energica e pulsante sulla stessa linea interrotta dalla fine del brano precedente, con il quale ha in comune anche un’infinità di trame chitarristiche scardinate e processate. Della disperata maestosità della title-track, per la quale ci piace ricordare l’incredibile trattamento riservato da Robert Fripp alla chitarra, non c’è poi bisogno di dire molto: ognuno la conosce e la ama a suo modo, mentre è più interessante notare come il brano successivo, Sons of The Silent Age, lento, rilassato ed atmosferico, operi quasi da camera di decompressione, a lenire l’effetto di un brano potente quale Heroes piuttosto che provare a reiterarlo. La prima facciata si chiude con Black Out, un brano concitante e febbrile, molto ricco a livello strumentale, nel quale Bowie si muove a suo agio fra i dissacranti coretti di Tony Visconti. V-2 Schneider, in omaggio a Florian Schneider dei Kraftwerk, è il brano strumentale che inaugura l’altro lato del disco, con un tema portante comunque molto lontano dalla cupa maestosità della seconda parte di “Low”. Mentre i sintetizzatori scandiscono trame ritmiche circolari, il sassofono di Bowie lancia strane frasi in apparenza disallineate e la sua voce robotica ripete a tratti la stessa frase sconnessa. Le tensioni si allentano in una struttura più aperta e giocosa. Sense Of Doubt, però, riporta tutto ad una dimensione scarna e spettrale con uno strumentale tetro, solcato da gelidi venti sintetici, in cui la tecnologia sembra cercare un compromesso con il silenzio. Moss Garden, che insieme alla successiva Neukolin si sviluppa senza soluzione di continuità dal brano precedente, quasi a costituire un’unica suite divisa in tre movimenti, è un altro ambient cupo, che sembra portare ad una stazione successiva il discorso iniziato appena prima. Solo un morbido tappeto sintetico solcato dai disperati arpeggi del koto, uno strumento tradizionale giapponese a 13 corde, mentre in lontananza, a tratti, sembra quasi di udire il latrato di un cane, forse l’unica forma di vita alla deriva in un oceano di solitudine che sembra non lasciare scampo. Neukolin, allora, chiude questo trittico oscuro squarciando la disperazione con qualche scoppio di sax, le frasi distorte della chitarra e le consuete tessiture sintetiche. Ma la scelta, questa volta, è quella di destinare all’epilogo una nota di speranza, quasi a risollevare una situazione che sembrava senza via d’uscita. E allora ecco The Secret Life Of Arabia, una canzone “normale”, vagamente orientaleggiante, fra le più leggere incise da Bowie in quegli anni, che chiama un raggio di sole, forse inutile, certamente incongruo rispetto al clima generato, ma da accettare come scelta di luce, desiderio di normalità.

E di normalità, in “Lodger” (RCA, 1979), ce n’è fin troppa. Un disco che, diciamolo francamente, non vale la metà dei due lavori precedenti, magari non tanto per demerito suo quanto per il valore intrinseco dei suoi contendenti, e di fronte al quale, per il discorso che ci interessa, non è neppure il caso di spendere troppe parole. Diciamo che Berlino, prima ancora di sparire sotto la suola delle sue scarpe era già venuta meno negli orizzonti artistici di Bowie, e che anche un’altra magia, quella scaturita da e con Brian Eno, era ormai in procinto di svuotarsi. Per quanto, paradossalmente, “Lodger” sia il capitolo della trilogia in cui il peso specifico di Eno è forse, a livello strumentale e compositivo, il più evidente, è difficile scrollarsi di dosso la sensazione che il risultato finale sia l’esito di un compromesso, e nemmeno troppo riuscito, fra i due. Ecco allora, accanto ai brani dalla struttura più canonica (Fantastic Voyage, Move On, Red Sails, Repetition), la via terzomondista di African Night Flight, spasmodica, poliritmica ed a più voci, non troppo lontana da ciò che avveniva dall’altra parte dell’oceano in casa Talking Heads ad opera dello stesso mentore; ecco la danza orientaleggiante di Yassasin (Turkish For: Long Live) condotta dal violino dell’ex High Tide Simon House, presente in molti brani dell’album, ed ecco ancora, fra gli episodi migliori del disco, la chiusura affidata a Red Money, un brano chitarristico, pulsante, con una struttura solida che trema sotto le incursioni delle sei corde. In mezzo, poi, qualche brano insipido e ballabile (DJ, Look Back In Anger) che già prefigura il Bowie che verrà: quello ancora dignitoso di “Scary Monsters” ma, soprattutto, quello sciatto e insulso di “Let’s Dance”.

da LFTS n.103

GEORGE BRASSENS – Le banlieue, i carruggi e la periferia del mondo

di Marco Tagliabue

26 dicembre 2015

Eppure non danneggio nessuno
Seguendo la mia strada di uomo tranquillo
Ma alle persone per bene non piace che
Si segua una strada diversa dalla loro…
No, alle persone perbene non piace che
Si segua una strada diversa dalla loro…

(George Brassens – La Mauvaise Reputation)

Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
Con il suo marchio speciale di speciale disperazione
E tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
Per consegnare alla morte una goccia di splendore
Di umanità, di verità

Ricorda Signore questi servi disobbedienti
Alle leggi del branco
Non dimenticare il loro volto
Che dopo tanto sbandare
E’ appena giusto che la fortuna li aiuti
Come una svista
Come un’anomalia
Come una distrazione
Come un dovere

(Fabrizio De André – Smisurata Preghiera)

Vorrei ringraziare George Brassens per averci dato Fabrizio De André, e poiché sulle canzoni di Fabrizio in molti abbiamo plasmato la nostra coscienza, cullato il nostro pensiero, affinato la nostra visione della vita e delle cose della vita, vorrei poter dire a Brassens che siamo davvero in tanti a custodire dentro di noi, più o meno consapevolmente, una piccola parte di lui. Non so se la cosa potrebbe fargli piacere: per un anarchico schivo ed individualista come lui, che ha sempre voluto coltivare il proprio pensiero in una sfera privata, intima, personale, questa dimensione in fondo pubblica, condivisa, collettiva, rischierebbe di suonare, anzi di stonare, come una tromba della celebrità. E, di fronte allo spettro di questa associazione sotterranea, anche se forse solo di idee, nel suo nome e nella sua “dottrina” , rischierebbe di chiosare come in quella sorta di “Avvelenata” ante litteram che è, appunto, “Les trompettes de la renommée”, chiedendo di essere lasciato in pace con le sue canzoni, di essere ascoltato solo attraverso di esse, alla larga dalla luce dei riflettori, dai titoli dei giornali, dalle vetrine sfavillanti che richiedono sempre la prostituta di turno. “Non ho il physique du role per stare in copertina/e non sono il manichino che può stare in vetrina/e non sono certo avvezzo a snodarmi i coglioni/se non per le mie donne se non per i dottori/Non è che per specchiarmi tra i fogli dei giornali/possa strimpellar note con i miei genitali/né somigliare a chi li porta come un suo blasone/nel modo in cui il prete porta il santo in processione/…/Avendo ormai sfogliato le mille e una ricetta/per diventare un bravo abituè della gazzetta/non sprecherò più il fiato per dar voce ai tromboni della celebrità/ma tornerò alle mie canzoni/Per chi le vuol sentire ne conosco una morra/sennò posso rimetterle dentro la mia chitarra/ma non pagherò il prezzo che si deve alla gloria/e tratterò l’alloro come fosse cicoria!” (trad. A.Buoninfante). E’ stato lui stesso, del resto, a metterci a parte del pericolo insito in ogni forma di associazionismo, di appartenenza a questa o quella schiera, foss’anche per la causa più giusta, quella più nobile, più condivisibile. Lo ha fatto nel modo a lui più consono, mettendo in musica i suoi versi, nella celebre “Ballade des gens qui sont nés quelque part”, la ballata della gente che è di qualche parte (“Mio Dio come staremmo bene sulla terra/se non s’incontrasse questa gente oscena/sempre inopportuna e del tutto indegna/Quelli di quel posto, di quella certa schiera/Mio Dio sarebbe bello in ogni circostanza/se non avessi fatto la razza irritante/che è la prova, infine, della tua inesistenza/gli imbecilli allegri che son di qualche parte/gli imbecilli che son di qualche città!” trad. A.Belli) e lo ha fatto, in maniera molto più netta, con una dichiarazione che non lascia il campo a dubbi o fraintendimenti e che rappresenta perfettamente, al tempo stesso, il senso più profondo del suo spirito anarchico. “Mi piace il pensiero solitario, detesto il gregge, ma questo non ha niente a che vedere con i necessari sforzi collettivi. Se ho bisogno di amici che mi aiutino a spostare una pietra, li chiamo. Non siamo stronzi se ci uniamo per trarre in salvo degli uomini sepolti in una miniera. Ma rifiuto il gruppo o la setta irreggimentata, e nessuno riuscirà a convincermi che si pensa meglio quando mille persone urlano tutte la stessa cosa. Quando ci si riunisce per pensare e dettare regole di comportamento, la setta non è lontana. (…) Il mio individualismo di anarchico è una lotta per pensare liberamente, non voglio che un gruppo mi detti legge. La mia legge, me la faccio da me. Siamo il risultato di quanto ci è stato dato, di quanto vediamo e sentiamo. Non posso pensare da solo, ma non voglio abdicare davanti al pensiero di un gruppo e neppure di un maestro.” (Brassens di N.Svampa/M.Mascioli, Muzzio, Padova 1991, pag.293). Ogni associazione, in fondo, è figlia di un credo comune, e non c’è niente di più pericoloso, di più fuorviante, di più effimero di un’ideologia, qualunque essa sia. Brassens su questo punto non ammette repliche: non c’è alcuna causa, per quanto giusta possa essere, per la quale valga la pena di morire, perché le idee cambiano (spesso il giorno dopo) ma la vita è una sola. E poi bisogna essere vivi per difendere la propria ragione, non serve a nulla portarsela nella tomba. Lo afferma senza tema di smentita, con la consueta, pungente ironia ne “Le deux oncles” (I due zii): “Tu, fido a Garibaldi e tu, fido al Borbone/udite questa mia modesta confessione/Le vostre verità e controverità/sono ormai snobbate dall’umanità/Ed a dispetto di quei grandi anniversari/che si commemorano all’ombra degli ossari/di tutti i martiri e gli eroi di quelle lotte/la gente ormai, mi si perdoni, se ne fotte/…/Non c’è una sola idea, miei cari, lo confesso/non una sola che giustifichi un decesso/Tutti coloro che hanno idee restino vivi/crepino invece quelli che ne sono privi” (trad.F.Amodei). Ed è, naturalmente, anche il tema centrale della classica “Mourir pour des idées” (Morire per delle idee), che conosciamo tutti grazie alla versione che ne fece Fabrizio De André: “Approfittando di non essere fragilissimi di cuore/andiamo all’altro mondo bighellonando un poco/perché forzando il passo succede che si muore/per delle idee che non hanno più corso il giorno dopo/Ora se c’è una cosa amara, desolante/è quella di capire all’ultimo momento/che l’idea giusta era un’altra, un altro il movimento/Moriamo per delle idee, va bè, ma di morte lenta” (trad.F.De André).

De André conobbe Brassens nel 1956 grazie a due 78 giri donatigli dal padre, di ritorno da uno dei numerosi viaggi di lavoro in Francia. Fu amore a prima vista, illuminazione artistica e politica. Gli scarti dell’umanità, gli stessi che popolavano le borgate romane di Pasolini, i carruggi del centro storico di Genova ove Fabrizio amava perdersi per ritrovare sé stesso, le banlieue parigine che facevano da sfondo ai protagonisti delle canzoni di Brassens e, più in generale, tutte le periferie del mondo, si facevano depositari di quei valori di purezza, di sincerità, di lealtà, di autenticità, che riponevano in loro le uniche ipotesi, o speranze, di riscatto politico e morale di quella stessa società che li aveva impietosamente messi da parte. Fu amore assoluto, quasi ultraterreno. Nel 1969, durante una breve vacanza a Parigi, De André preferì non assistere ai concerti che proprio in quei giorni il Maestro teneva all’Olympia per paura di scoprire un’immagine diversa da quella mitizzata, di trovare un uomo in carne e ossa sulle assi di quel palco e non un bellissimo dio greco, con la chitarra al posto della cetra: “Non ho mai voluto incontrare Brassens personalmente per mia debolezza. Era un mito e avevo paura che diventasse una persona. Se fosse crollato, mi sarebbe crollato il mondo. Volevo che restasse un mito”. De André ci consegna Brassens attraverso sei canzoni disseminate nei suoi primi dischi, “Marcia nuziale”, “Il gorilla”, “Nell’acqua di chiara fontana”, “Le passanti”, “Morire per delle idee” e “Delitto di paese”, tradotte fedelmente nel testo e nella musica, più una settima, “La morte”, che riprende il tema musicale da “Le verger du roi Louis” pur esibendo un testo estraneo a quello del brano originale. Per molti di noi, in Italia, George Brassens si è sviluppato da questo piccolo embrione, anche se la sua musa ispiratrice è innegabile in tante altre canzoni di Faber, da “Il testamento”, che non fa certo mistero di guardare all’omonimo brano del Maestro, a “Bocca di rosa” ed “Il pescatore”, che traggono linfa da “Brave Margot” e “La mauvaise reputation”, ed alla stessa “Guerra di Piero”, il cui tema centrale si potrebbe tranquillamente riassumere in questa strofa tratta da “Le deux oncles”: “Prima di metter nel mirino un tuo nemico/guarda se non riesci a fartene un amico/e non pensare che sia un atto da codardi/rinviare un colpo di fucile a un po’ più tardi” (trad. F.Amodei). Un vero e proprio maestro di pensiero che il cantautore genovese trattava, come si conviene, alla stregua di una materia filosofica: “Per me ascoltare Brassens equivaleva a leggere Socrate: insegnava come comportarsi o, al minimo, come non comportarsi. Insegnava ai borghesi un rispetto cui non erano abituati” .

E se non può certo destare scalpore la comunione di pensiero fra allievo e maestro, hanno viceversa i contorni dell’incredibile i punti di contatto fra la poetica del francese e quella, più o meno coeva, dell’epopea borgatara di Pasolini, tanto che verrebbe da chiedersi se non ci sia stato in qualche modo un interscambio culturale fra i due o, quantomeno, se fossero a conoscenza l’uno dell’altro. E’ il popolo, quello che affolla l’ultimo gradino della scala sociale, il protagonista della “commedia umana” dei due, quel popolo deriso, calpestato, messo da parte dalla vita e dai suoi discutibili protagonisti, quel popolo che si affanna per stare a galla, con mezzi leciti o illeciti, e nel quale, tuttavia, sono riposte le uniche speranze di salvezza. Di una salvezza tutta terrena, s’intende, del cui fallimento siamo testimoni noi e la nostra attuale società, quella società che nel frattempo ha sviluppato armi di sottomissione, di mercificazione, di omologazione e, diciamolo, di distruzione di massa, che Brassens e Pasolini potevano immaginare solo in parte e delle quali, comunque, non avrebbero mai potuto intuire la portata. Il popolo, lo stesso che affolla le canzoni di Brassens e le pagine di Pasolini, sono quei personaggi che di fronte ad una vita che li relega ai suoi margini, riescono sempre a trovare, con un misto di coraggio, furbizia e sregolatezza, il sistema per prendersi una piccola rivincita nei suoi confronti, per cogliere l’istante che il destino ti riserva quando meno te lo aspetti e viverlo fino in fondo per quanto piccolo esso sia. Personaggi scaltri, giocosi, goderecci, incuranti delle regole, della morale e dell’ordine costituito, come la protagonista de “L’orage” (Il temporale) che, per la paura dei tuoni, si rifugia nel letto del suo vicino quando il marito, venditore di parafulmini, è costretto ad uscire per lavoro, o come la vedova ancora calda, calda in tutti i sensi, de “La fessée” (Lo sculaccione), che non perde tempo e si consola proprio di fronte alla salma del marito, oppure ancora la tenera “Maitresse d’école” (La maestra di scuola), allontanata a causa dei metodi troppo libertini nonostante l’indubbio effetto positivo sul rendimento scolastico dei propri studenti. Del resto, una volta compresi i meccanismi che regolano la vita ed il rispetto e la considerazione del prossimo, non si può certo biasimare il povero “Orphelin” (L’orfanello), che si bea della propria condizione e di tutti i vantaggi che può trarre dalla commiserazione degli altri (“Non è una cosa strampalata/fare una lista dettagliata/di ogni favore domandato/che gli viene accordato/Traendone un gran vantaggio/certi orfanelli che coraggio/rimpiangono che di genitori/ne possono perdere due soli” trad. S.Pagano). Ma il popolo è anche il protagonista di quell’assurda guerra fra poveri nello splendido affresco sociale di “L’épave” (Il relitto umano), in cui un ubriaco, gettato inerte in mezzo alla strada, viene depredato dai passanti di tutti i suoi miseri abiti fino a rimanere completamente nudo. Solo una prostituta, mossa a pietà di lui e rossa di vergogna alla visione dei suoi genitali (“lei che, ogni sera poi, ne vede una dozzina”), si risolve a chiamare un gendarme che, con inaspettata compassione, ne copre le nudità con il suo mantello. Il popolo sono, naturalmente, anche ladri, puttane ed assassini, i veri, chiacchierati protagonisti di tanti brani di Brassens e De André. Ma il cattivo, quello vero, non esiste, ed allo stesso modo in cui una possibilità di redenzione nel brano appena citato viene offerta anche ad un poliziotto, un simbolo del potere, un rappresentante di quell’ordine costituito sempre deriso ed osteggiato, la medesima chance, ed a maggior ragione, è dovuta agli assassini pentiti di “L’assassinat” (Delitto di paese) i quali, dopo un orrendo delitto, riescono a conquistare il paradiso con qualche lacrima sincera poco prima di finire sulla forca. L’occhio del poeta guarda a loro, a tutti i reietti, senza supponenza o mistificazione, senza comprensione o pretesa di giudizio: è solo un immenso senso di umanità a guidarne la penna ed il pensiero, insieme alla speranza che anche per loro ci sia un’ancora di salvezza. E, accanto a questo sentimento, anche la certezza che esista, in ogni caso, una giustizia sociale, terrena, in grado di sovvertire le ingiustizie degli uomini e, soprattutto, quelle del potere, come ben sa il “giovane giudice con la toga” protagonista di “Le gorille” (Il gorilla), costretto a soddisfare l’appetito sessuale del bestione fuoriuscito dalla gabbia piangendo “come un vitello” e gridando ‘mamma’ “come quel tale cui il giorno prima, come ad un pollo, con una sentenza un po’ originale aveva fatto tagliare il collo”. Questo non significa, naturalmente, che tutti i torti verranno riparati sulla terra, né tanto meno che in ogni caso sia poi destinata a subentrare la giustizia divina. La vita è fuggente e beffarda, tanto beffarda da negarti il tuo desiderio più grande proprio quando l’avevi a portata di mano, come avviene al protagonista di “Le nombril des femmes d’agents” (L’ombelico della moglie d’un agente), un vecchietto la cui ardente voluttà, scoprire quella parte nel corpo della consorte di un poliziotto, gli viene negata dalla morte un attimo prima della sospirata visione. Inutile, allora, farsi troppi scrupoli pensando all’incertezza del futuro: meglio vivere il presente in ogni sua sfumatura, coglierne ogni attimo come se potesse essere l’ultimo. Nulla dura in eterno, si supera qualsiasi delusione, qualsiasi sconfitta, ma ciò che alla fine fa sentire veramente il suo peso sono le parole non dette, le azioni mancate, i fiori non colti. Le occasioni perdute che, nel turbinio della vita, vengono dimenticate in fretta e sostituite ogni volta da emozioni più recenti, ritornano in mente nei momenti di solitudine, di vuoto, di malinconia, e fanno sentire tutto il loro peso: si pensa, inevitabilmente, che sarebbe bastato un soffio per far prendere alla vita una direzione diversa, si pensa a ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. “Ma se la vita smette di aiutarti/è più difficile dimenticarti/di quelle felicità intraviste/dei baci che non si è osato dare/delle occasioni lasciate ad aspettare/degli occhi mai più rivisti/Allora nei momenti di solitudine/quando il rimpianto diventa abitudine/una maniera di viversi insieme/si piangono le labbra assenti/di tutte le belle passanti/che non siamo riusciti a trattenere” (“Les passantes”- Le passanti, trad. F. De André). Tutto, allora, fuorché il rimpianto: l’errore piuttosto, ma non la rinuncia. Il pericolo maggiore è l’assuefazione al destino degli umili, ad una sorte che non lascia scampo: l’accettazione passiva della sventura come di un dato non modificabile, di una strada già segnata, al pari di quella del “Pauvre Martin” (Tristo Martino) che, dopo una vita di lavoro e privazioni, lo conduce invariabilmente a scavarsi la propria fossa. “Scavò lui stesso la propria tomba/per non doverlo domandar/e si calò senza parlare/per non volerci disturbar”. Il palcoscenico di una così variegata commedia umana è esclusivamente terreno, come terrena è l’unica possibilità di redenzione, per l’intera società, affidata alle mani degli umili. Brassens affronta i temi della religione e della chiesa cattolica con il consueto piglio ironico, con quel gusto per lo sberleffo che non risparmia nemmeno i testi sacri: “Ha dato la sua vita vabbé ma il suo zelo/aveva una portata da settimo cielo/ed il dolore era di certo attenuato/perché in tutte le chiese e le cattedrali/sopra i santi i papi ed i cardinali/il suo ritratto un giorno avrebbe dominato/Con il suo sacrificio salvò tutti quanti/ma al punto in cui noi siamo direi in fin dei conti/che il povero messia non ha avuto successo/il gioco, si usa dire, valeva la candela/e un mucchio di cretini e di gente di chiesa/per una causa simile farebbe lo stesso” (“L’antéchrist” – L’anticristo, trad.A.Belli). Mentre la Chiesa, con i suoi dogmi, le sue leggi, le sue regole immutate ed immutabili, è bersaglio quasi scontato delle frecce avvelenate del Nostro, la Chiesa che alimenta il senso di colpa insito nell’animo umano per preservare da ciò che è peccato secondo la sua dottrina (“La légende de la nonne” – La leggenda della suora), la Chiesa che impone ai suoi ministri sacrifici inutili ed ormai fuori del tempo (“La religieuse” – La religiosa), più complesso si fa il discorso riguardo alla vita eterna. Ammesso e non concesso che ci sia una vita dopo la morte, e che, a conti fatti, la vicenda ultraterrena non possa esser peggiore di quella l’ha preceduta, Brassens rivendica il diritto di perseguire la salvezza secondo una propria morale, lontano dalle ipocrisie e dagli stravolgimenti della fede: una morale che, fosse pure nel peccato, ha ben saldi quei principi, quei valori che differenziano l’uomo dall’animale, e che magari non sono altrettanto definiti sotto le volte ambigue di una fede esibita soltanto come un biglietto da visita: “E se l’eterno esiste, vede che in fondo anch’io/non mi comporto peggio di chi ha fede in Dio” (“Le Mécréant” – Il miscredente, trad.N.Svampa). Sono in fondo le stesse parole che urla Tito, il ladrone, dalla sua croce accanto a quella di Gesù, e che rappresentano il sigillo del suo Testamento nel ritratto che ne fece De André ne “La buona novella”. Maestro e allievo si incontrano ancora una volta per chiudere un cerchio che avremmo potuto ampliare a piacere.

Brassens è stato, in definitiva, l’inventore in Europa della figura del cantautore impegnato, quindi un padre non solo per De André, ma per generazioni di artisti di differente cultura ed estrazione. E’ colui che ha tracciato, nel nostro continente, di quel percorso umano, culturale e politico che, dall’altra parte dell’oceano, conduce da Woody Guthrie a Bob Dylan ed ai moltissimi figli che il menestrello di Duluth ha sparso per il mondo. E’ un capostipite, insomma, e probabilmente l’unica figura che meriti di essergli accostata è quella, appunto, del pioniere americano che metteva in guardia i fascisti dalle cannonate della sua chitarra. Brassens non fece nulla per farsi amare ed accettare dai suoi contemporanei. Le sue canzoni erano scarne, solo una chitarra, occasionalmente doppiata, ed un contrabbasso, qualche volta uno sbuffo di kazoo, alcuni cori sparsi qua e là, niente altro: un ascolto difficile, uniforme, “monotono”, che certo non andava incontro al gusto di un pubblico che si era appena lasciato una guerra alle spalle, che voleva vivere, divertirsi, cavalcare la rinascita, godere lo sviluppo senza pensare ad altro. Allo stesso modo le copertine originali dei suoi dischi erano molto simili e potevano generare confusione: foto in bianco e nero dell’artista ed immagini ravvicinate di parti della chitarra classica, spesso colte durante le fasi della sua lavorazione, quasi si trattasse di scatti rubati ad un liutaio. A coloro che superavano questi ostacoli e si accostavano alle sue parole, poteva andare anche peggio: sbattuti in faccia, senza pietà, c’erano quei temi scottanti che la grande maggioranza degli ascoltatori avrebbe preferito non sentire. Parole scabrose non tanto per il loro contenuto, quanto perché obbligavano il pubblico a pensare, ad affrontare situazioni di cui tutti erano a conoscenza ma che ognuno avrebbe preferito continuare a fare finta di ignorare, a tenere per sè. In questo modo non era più possibile. Brassens non soltanto non canta in coro l’inno nazionale, ma, in uno dei suoi brani più famosi, si ritrae come il pornografo del grammofono, il mascalzone della canzone, ovvero il cantore dei margini, delle oscenità che offendono il comune senso del pudore di chi, quelle oscenità, preferisce continuare a rincorrerle nel proprio focolare domestico al riparo da sguardi indiscreti. Quegli occhi che spiano e, impietosamente, rivelano al mondo quello che la cattiva coscienza dei borghesi non vorrebbe mai sentirsi dire e, per di più, con un linguaggio che allinea raffinata poesia ed eccentrico turpiloquio, sono come una telecamera puntata verso un’intimità che vorrebbe rimanere inviolata, sono una ghigliottina puntata sulla logica ipocrita di vizi privati e pubbliche virtù. “I benpensanti ed i bigotti, credono certo soddisfatti/che sarò preda al mio trapasso di satanasso/ma voglia il grande Manitù, che se ne intende un po’ di più/accogliere con un sorriso nel suo paradiso/questo pornografo del tuo grammofono/questo mascalzone della canzone” (“Le pornographe” – Il pornografo, trad. P.Capodacqua e E.D’Amato).

Paradossalmente, ma non troppo, Brassens e De André, oltre ad essere accomunati nello stesso destino di una morte prematura nel segno del solito male incurabile, dovranno subire post-mortem anche l’onta peggiore, quella di essere rivendicati come propri paladini anche da coloro i quali, in vita, furono i loro bersagli prediletti, coloro della cui considerazione avrebbero fatto volentieri a meno. Ma, tant’è, anche questo è un segno della potenza della loro Arte, che ha ormai abbattuto ogni confine per diventare un patrimonio di tutti, forse di troppi.
“George Brassens ci ha fatto uno scherzo. E’ partito per un viaggio. Alcuni dicono che è morto. Morto? Ma cosa significa morto? Come se Brassens, Prevert, Brel, potessero morire! (Yves Montand).

da LFTS n.107

New York Rock Art

di Marco Tagliabue

20 ottobre 2015

Guardare avanti è sempre stata una loro prerogativa. I Talking Heads debuttano nell’anno zero del punk rock con un album dal titolo inequivocabile. Ascoltando ’77 (Sire, 1977) è difficile però inquadrare la band di David Byrne sul carrozzone di Ramones & Co. e, soprattutto, immaginare quei quattro ragazzi pettinati e ben vestiti sulle assi del CBGB’s, veterani e protagonisti di una rivoluzione davvero poco silenziosa. Le loro canzoni pescano dalla tradizione americana, flirtano con il pop più scanzonato ma, soprattutto, cercano un contatto inedito con la musica nera ed, in special modo, con quella più danzabile. Il riuscitissimo esordio stempera la sua quarantina scarsa di minuti in una serie di confetti psicotici e minimali confezionati con gusto e competenza. Un gusto, si direbbe, superiore che sposa basi ritmiche nervose sconfinanti sovente in vera e propria isteria, punzecchiature di chitarra in salsa quasi funky, melodie oblique e accattivanti ed una voce, quella del leader, stranita ed imbambolata, fredda e distaccata ma, neanche a farlo apposta, perfettamente funzionale. Loves Come To Town, New feeling e, soprattutto, Psycho Killer sono già dei piccoli casi in città.

Quando Babbo Natale bussa alla loro porta sotto le mentite spoglie di Brian Eno, i Talking Heads allargano di fatto la formazione a cinque elementi con il nuovo membro occulto e si preparano al grande salto. Il primo atto del trittico che li consegnerà ai libri di storia, More Songs About Buildings And Food (Sire, 1978), registrato interamente a Nassau con la supervisione dell’ex Roxy Music, elimina certe asprezze dell’esordio a favore di una maggiore coesione di fondo e, soprattutto, di una completa sottomissione al fattore ritmico, verso il quale sembrano convergere tutti gli strumenti. Sarà la cover di Take Me To The River di Al Green a scalare le charts. Con il successivo Fear Of Music (Sire, 1979), cui fa da fortunato apripista il singolo Life During Wartime, la sezione ritmica, sempre più incalzante, comincia a respirare vapori etnici ed a filtrare un numero crescente di interferenze elettroniche. La strada è ormai spianata per il capolavoro. Remain In Lights (Sire, 1980), a quasi venticinque anni dalla pubblicazione, è opera sfuggente, imprevedibile, imprendibile: ammicca da un futuro imprecisato, da un domani misterioso. A noi, poveri mortali, solo l’illusione di toccarlo con un dito per scoprire che, invece, con il passare del tempo, le distanze si accentuano anziché attenuarsi. Forse perché nulla suona ancora così moderno. Sonorità terzomondiste, africane ed asiatiche in testa, si sposano alle ritmiche funky dei neri americani ed al rock dei visi pallidi in un complesso gioco di stratificazioni officiato dal Gran Sacerdote e dalle sue manipolazioni elettroniche. Oriente ed occidente si scoprono infine neanche troppo lontani, le nevrosi metropolitane ed i morsi della fame sono due facce della stessa medaglia: la globalizzazione incomincia da qui ed a nessuno passa per la testa di protestare. My Life In The Bush Of Ghosts (Sire, 1981), naturale appendice di Remain In Lights a firma della coppia Eno/Byrne, sposa elettronica, musica etnica e campioni vocali razziati per l’etere in un cut up di inaudita suggestione in cui musica bianca e nera annullano le distanze nello stesso palpito emozionale. Il futuro non è mai parso così a portata di mano.

Se depuriamo il suono dei Talking Heads dalle componenti etniche e dalle cadenze funky, lasciando immutata la sua ritmica incalzante; se esaltiamo quelle componenti minimalistiche presenti soprattutto nel primo album e sostituiamo il loro pigmalione con un altro santone della New York alternativa, il compositore d’avanguardia colta Philip Glass, arriviamo in un batter d’occhio alla corte dei Polyrock. Il gruppo, che nasce nel 1979 per iniziativa di Billy Robertson, rimane con tutta probabilità la migliore espressione di una stagione breve ma intensissima della musica newyorkese, quella della cosiddetta minimal wave, che tenta un improbabile accostamento fra minimalismo e rock elettronico di tendenza. I Polyrock dell’omonimo debutto (RCA, 1980) consegnano alla storia quello che rimane probabilmente il pezzo più pregiato dell’intera corrente: un miracolo d’equilibrio fra sperimentazione e B’52s, qualcosa di unico e travolgente nella discografia di quegli anni. Le canzoni si rivestono di ritmi frenetici, di effetti psichedelici, di un chitarrismo nervoso ed irriverente, di tappeti armonici schematici e ripetitivi, di un canto nevrastenico e pulsante. Il Sacro ed il Profano si prendono per mano e provano a fare due passi insieme: la musica colta mostra qualche smania commerciale in un equilibrio instabile ma perfetto, che già nel successivo Changing Hearts (RCA, 1981) comincerà a tendere pericolosamente, ma ancora molto piacevolmente, in direzione del mercato.

Sono ritmi, per loro stessa definizione, decisamente pazzi anche quelli dei giovanissimi Feelies, leggendaria e misconosciuta formazione di punta della new wave newyorkese di quegli anni. Il loro Crazy Rhythms (Stiff, 1980), stende sul tappeto dei ritmi frenetici e sincopati della batteria di Anton Fier gli arzigogolati dialoghi chitarristici fra gli strumenti di Glenn Mercer e Bill Million, che recuperano il suono delle proprie radici folk (Byrds in testa) per immergerlo nelle vasche ricolme d’acido di Television, Wire e Velvet Underground. Prendete ad esempio The Boy With Perpetual Nervousness, brano d’apertura e manifesto programmatico dell’intero album: la batteria secca e ipnotica, scomposta in una sorta di tribalismo metropolitano; le chitarre affilate in eccitanti arabeschi sonori: limpide, frenetiche, poi nevrasteniche fino a lambire la schizofrenia; la voce fredda e distaccata a mezza strada fra recitativo e declamatorio. Un incedere lento ma inesorabile, imperioso nella sua scarna semplicità: non una strofa né un ritornello, non una nota in più o fuori posto, tutto sembra collimare alla perfezione in senso quasi geometrico. Si potrebbe quasi parlare di math-rock se l’orologio della Storia non fosse ancora così indietro…

Approfittiamo della presenza della batteria di Anton Fier, spina dorsale e cuore pulsante del sound dei Feelies, con brevi ma gloriosi trascorsi anche nei Pere Ubu, per toccare qualche realtà di confine in cui lo stesso è più o meno coinvolto.
Anton è parte della prima e più celebre formazione dei Lounge Lizards di John Lurie, sorta di ensemble mutante che annovera per l’occasione, oltre al sassofono pungente del leader ed alla batteria del nostro, la chitarra di Arto Lindsay, il basso di Steve Piccolo e le tastiere di Evan Lurie. Lounge Lizards (EG, 1981) deve la propria magia alla severa contrapposizione fra una sezione ritmica di ordinata impostazione jazz e l’Armata Brancaleone di chitarra e tastiere, dissonante, anarchica, atonale e un po’ stracciona. Dal conflitto continuo e dissacrante fra queste due anime si sviluppano intere praterie per il sax di John Lurie, protagonista di intrepide cavalcate che si intersecano con maestria nelle intemperanze sottostanti. Persi per strada Lindsay e Piccolo, e di lì a poco anche il buon Fier, il sound della band tenderà, attraverso i continui rimaneggiamenti della formazione, a disciplinare le proprie componenti in direzione di una jazz-fusion sempre più di maniera a scapito, naturalmente, di fantasia e creatività.

Per Anton Fier, da sempre comprimario di lusso, verrà anche il momento di provare l’ebbrezza del leader con i Golden Palominos, una sorta di supergruppo nel quale il protagonista riuscirà a mediare personalità forti e contrastanti quali quelle, ad esempio, di Arto Lindsay, Fred Frith, John Zorn, Bill Laswell. Anche qui la magia dura giusto lo spazio di un album, al massimo due, prima che Fier, afflitto anche da problemi di alcolismo, perda progressivamente la sua funzione di collante e l’ensemble, senza una personalità di spicco, si riduca ad un’accozzaglia di virtuosismi senza coesione, direzione, unità di fondo e d’intenti. Ma intanto godiamoci The Golden Palominos (Celluloid, 1983) ed il suo baccanale di umori e sapori, di ritmi e cacofonie, di intemperanze e distorsioni saldamente legate dal tribalismo esagitato delle percussioni del leader. Anche se crossover è un termine che sarebbe stato d’attualità soltanto molto tempo dopo, ed in ben diversi ambiti, davvero non c’è altro modo per definire l’audacia di queste jam sessions in cui si mischiano, come se nulla fosse, vapori etnici, funk, jazz e rock’n’roll in un insieme nervoso ma perfettamente coeso.

Visto che ne abbiamo seguite le gesta fin quasi dalla culla e che ce lo siamo ritrovati tra i piedi in più di un’occasione, non possiamo almeno non citare gli Ambitious Lovers di Arto Lindsay e quella che rimane, probabilmente, la loro opera più rappresentativa, Envy (Eg-jam, 1984). Con una formazione composta, fra gli altri, da quattro musicisti brasiliani, il nostro si diverte a gettare scompiglio nei locali in della New York alternativa, con una fusion latina dissonante e dissacrante.
Ne ci possiamo dimenticare, prima di abbandonare definitivamente questi arditi territori di frontiera, dei Material di Bill Laswell. I due progetti denominati Temporary Music (Elektra, 1979 e 1981) allineano ad una solida base funk-rock elementi di elettronica e sperimentalismo colto, ma è con il successivo Memory Serves (Elektra, 1981) che il sound prende forma e sostanza (grazie anche alla presenza di Fred Frith) nella direzione di una fusion tagliente ed incisiva che incorpora, senza problemi apparenti, umori jazz e tensioni funky, prima che con il seguente One Down (Elektra, 1982) sia avviata una conversione irreversibile verso una sorta di disco music di classe.

Sono gli anni, lo ricordiamo, in cui Laurie Anderson imperversa nei salotti più o meno alternativi della città con il pluridecorato Big Science (WB, 1982), trasposizione su disco di uno spettacolo multimediale cui la Anderson lavora fin dal 1979, nel quale avanguardia e pop scoprono il matrimonio perfetto per mezzo di un uso dell’elettronica estremamente personale, fatto di atmosfere sospese, suoni sintetizzati, voci filtrate. Una lunga trance nella quale la tecnologia, fredda e distaccata, scopre di avere un cuore umano del quale nessuno sospettava. Sarà un successo milionario.

Un successo che, in tali termini, non avrebbe mai premiato una personalità come quella di Glenn Branca che, a conti fatti, ha esercitato un’influenza assoluta e determinante per innumerevoli esperienze su entrambe le sponde dell’oceano, dai Sonic Youth, figliocci riconosciuti, a certo noise degli anni novanta; dallo shoegazing (My Bloody Valentine in testa) a certe frange –quelle di impostazione più chitarristica come i Mogway- del famigerato post-rock.
Dopo le esperienze con Static e Theoretical Girls e prima di una lunga serie di sinfonie chitarristiche progressivamente numerate, Branca trova con The Ascension (99 Records, 1980) il suo personale capolavoro e con i drones chitarristici ivi contenuti, in cui stratificazioni e sovrapposizioni si susseguono con piglio quasi minimalista in un crescendo lento ed imperioso, in una marea lenta ma inesorabile, il banco di prova per mille, e ben più fortunate, esperienze successive.

Glenn Branca è anche il mentore delle Y Pants, un trio femminile legato ai circoli della New York negativa più per coincidenza spazio temporale che per effettiva affinità artistica. Vale comunque la pena di cercare il loro Beat It Down (Neutral, 1982) in cui, nella totale assenza di chitarre, la band di Barbara Ass tesse su uno scarno canovaccio funk intemperanze etniche di varia foggia e colore, ma di vago sentore afro-asiatico, percorse da un canto stranito ed allucinato. Legioni di rock band al femminile ne avrebbero mandato a memoria gli insegnamenti.

Non possiamo concludere questo viaggio attraverso il suono della New York Arty a cavallo fra gli ultimi scampoli della new wave/no wave ed i primi vagiti dell’indie/alternative rock senza passare per i Sonic Youth che, oltre ad essere la più importante ed influente band americana degli anni ottanta, costituiscono di fatto il perfetto anello di congiunzione fra i due fermenti. E’ inutile dilungarsi troppo sulla seminale band di Thurston Moore e Lee Ranaldo: lo abbiamo già fatto in un passato abbastanza prossimo (LFTS #67) e non ci sembra una buona idea, anche per rispetto del lettore, ritornare su concetti già sviscerati in precedenza. Ci corre solamente l’obbligo di segnalare, per rimanere in tema con il nostro discorso, il timido esordio del Sonic Youth e.p. (Neutral, 1982), disco molto strutturato ed ordinato, in totale contrapposizione rispetto alle coeve e distruttive performances dal vivo, figlio probabilmente di un gruppo i cui membri non si conoscono ancora abbastanza. Le tessiture chitarristiche che sarebbero diventate il marchio di fabbrica della band si sviluppano in un ambiente asettico ed un po’ troppo levigato, mostrando senza alcun timore tutto il loro debito di riconoscenza verso le sinfonie di Glenn Branca. Andrà decisamente meglio con il successivo Confusion Is Sex (Neutral, 1983), che mantiene perfettamente fede al titolo mostrando, per la prima volta, il vero volto della band. Un disco sporco ed emozionale, snervante ed alienato, che rappresenta l’incubo della metropoli in una psiche devastata: un sound sconnesso e disperato che si sviluppa attraverso fitti tribalismi percussivi e snervanti trame chitarristiche, fra gemiti, singhiozzi, sussurri ed urla. Claustrofobia allo stato puro. Con Bad Moon Rising (Homestead, 1985) i Sonic Youth trovano un punto di convergenza fra le atmosfere dei due primi dischi ed il capolavoro della loro primavera. L’anarchia sonora diventa coscienza controllata, l’Apocalisse cede il passo ad un timido risveglio: è l’alba di un futuro luminoso. Il resto è ormai Storia.

da LFTS n. 73

CCCP FEDELI ALLA LINEA – Carpi e Berlino: Fra la via Emilia e l’Est

di Marco Tagliabue

12 settembre 2015

“Ma Berlino è una città che ti mette, spietatamente, e nello stesso istante, di fronte a te stesso e di fronte alla follia degli uomini, della guerra, delle divisioni e degli schieramenti politici. Una città in cui puoi ritrovarti, se ti sei perso, o perderti completamente, se lo vuoi, nell’abbandono languido, venato di tristezza e malinconia che essa ti offre; è una città fatta di cose concrete, di rapporti umani ‘pesanti’ e non frivoli, poiché anche la sua frivolezza nasconde quella particolare pensosità che noi chiamiamo ‘nordica’. E’ una città culturalmente vivace, aperta, spericolata. E’ una città in cui puoi andare anche a fondo, soprattutto quando già alle due del pomeriggio il cielo è buio come la notte, la pioggia acida non ti lascia scampo, gli amici non rispondono più alle insistenze dei tuoi sentimenti. E, allora, in questo caso, il tuo cuore batterà con lo stesso impulso infelice di una città che è stata la capitale del mondo e che la storia sembra condannare allo svanimento; vedrai la gloria e la rovina, il successo e la disperazione, fino ad abbandonarti nelle acque untuose della Sprea e allora conoscerai, pienamente, tutto il languore e tutta la saggezza di questa città; accarezzerai i rami frondosi dei salici che l’acqua trascina e ti ritroverai magicamente un uomo nuovo.”(Pier Vittorio Tondelli, 1985, da “Berlino” in “Un weekend post moderno” ediz. Bompiani, 1990)

-Siete stati i primi a lanciare in Italia la linea del filosovietismo.
-Noi abbiamo fatto solo l’inizio. Il resto l’ha fatto l’URSS.
-Vorrei conoscere questo inizio.
-Eravamo stanchi di tutto questo vivere all’americana, di mode americane e cose del genere. Credi di vivere in America, ma è ovvio che non è vero. Noi ci sentiamo europei dall’intelligenza più piena all’ignoranza più bestiale.
-Europei d’accordo, ma perché lo schieramento dell’Est? Non basterebbe europei e basta?
-Scegliamo l’Est non tanto per ragioni politiche, quanto etiche ed estetiche. All’effimero occidentale, preferiamo il duraturo; alla plastica, l’acciaio. Alle discoteche preferiamo i mausolei, alla break dance il cambio della guardia. Che futuro per un’Europa che non può ammettere che Pankow, Varsavia, Praga, sono città europee a tutti gli effetti? E allora ‘Live in Pankow’, ‘Live in Mosca’…
-‘Live in Ost Berlin’…
-A Berlino, la dolcezza del vivere esce a un livello puro: la violenza più grande, la dolcezza più estrema. I punk e i turchi. Kreuzberg, quartiere abitato prevalentemente da turchi, è il cuore della nuova Europa.
-Vuoi dire che questa vostra idea dell’Europa passa attraverso l’Islam?
-Dovresti essere a Berlino per capire. A Berlino, sei un turco a tutti gli effetti: mangi turco, puzzi turco, sei circondato da turchi, abiti in mezzo a loro. Le culture arabe e asiatiche sono quelle a noi più vicine, e la cultura europea si scontra, e si incontra, con queste due civiltà, da sempre. Questo è il nostro retroterra culturale e fisico. Noi facciamo quindi del punk filosovietico.
(Pier Vittorio Tondelli, 1984, Intervista ai CCCP, da “Punk falce e martello” in “Un weekend post moderno” ediz. Bompiani, 1990)

Si fossero incontrati nella loro Reggio Emilia, magari, Massimo Zamboni e Giovanni Lindo Ferretti non si sarebbero guardati neanche in faccia. Sarebbero scivolati via, in silenzio, nella reciproca indifferenza, prigionieri del turbine dei propri pensieri, gli stessi, e del giogo ancora incerto delle loro esistenze silenziose, destinate a correre su binari paralleli per non dire su un’unica rotaia: quella del Trans Orient Express, naturalmente. Ma Berlino era il luogo dove tutto poteva e doveva accadere. Il luogo dove le occasioni di incontro si moltiplicavano ed i destini, inesorabilmente, si incrociavano. E allora poteva anche accadere che, stranieri a casa propria, ci si scoprisse figli della stessa utopia nel grembo di un Paese straniero. Berlino erano le Università che attiravano giovani da tutto il mondo: una fauna variegata e multicolore nella quale chi cercava una solida ipoteca per il proprio futuro si mescolava, amabilmente, a chi cercava una scusa per prolungare più a lungo possibile il proprio passato. Erano centinaia di birrerie a buon mercato che chiudevano alle cinque del mattino, proprio quando partiva la prima corsa della metropolitana, e sulle banchine i fumi dell’alcool di chi non aveva ancora finito la propria notte si mischiavano agli aromi di caffè di coloro che avevano già iniziato la propria giornata. Erano decine di mercatini dove qualsiasi cosa, lecita o illecita, veniva via per poco, da quel paio d’anfibi che sembrava avessero fatto davvero la seconda guerra mondiale, allo sguardo sornione della tipa che, per un attimo, ti aveva illuso che guardasse solo te. Berlino erano anche centinaia di case occupate, gli squat che nascondevano i reietti e gli ultimi punk insieme a chi, non per scelta ma per necessità, era costretto ad abdicare da una vita normale. E, si manifestasse più o meno fisicamente la sua presenza, Berlino era soprattutto il fantasma incombente di quel muro assurdo, “tragica barriera fra un mondo che si finge libero e un altro che si finge felice, fra un mondo che offre la ricchezza e un altro che offre la mancanza di povertà”, per dirla ancora con Tondelli. Una città che custodiva gelosamente i vizi e le contraddizioni di due civiltà che si spiavano ma non si parlavano, che si temevano pur pensando ciascuna di essere la più forte, e che rappresentavano sullo stesso palcoscenico la tragedia che divideva in due l’Europa, che spezzava il mondo a metà.

La gestazione dei CCCP Fedeli alla Linea, il gruppo italiano più importante degli anni ottanta ed uno dei maggiori di sempre, avviene nel quartiere turco di Kreuzberg, Berlino Ovest, nel 1982, grazie all’incontro, che la Storia vorrebbe casuale, fra Massimo Zamboni e Giovanni Lindo Ferretti, entrambi da Reggio Emilia e provincia. Questo è il big ben nelle loro stesse parole: “Agli inizi degli anni ottanta la voglia di vivere di un gruppo di persone si trasforma in un progetto di carattere culturale. Centro di produzione e residenza Reggio Emilia, orizzonte geografico e culturale quel pezzo di mondo che comprende l’Europa, l’URSS, il Nord Africa, l’Oriente vicino e quello lontano. Con problemi morali ed economici, con differenze ed affinità, soli, perché nostro referente non è mai stato il mondo musicale con i suoi miti e riti, ma il mondo reale con le sue crisi e speranze”. E se Carpi, anche in virtù di quell’autostrada meravigliosa che se “hai soldi e tempo in una giornata intera e anche meno esci sul Mare del Nord, diciamo Amsterdam, tutto senza fare una sola curva”, è la periferia estrema di Berlino, l’enigmatica metropoli tedesca non è solo l’avamposto occidentale dell’Impero del Male che si cela oltre cortina: è l’incarnazione perfetta dell’ideale socio politico culturale di Zamboni, Ferretti e soci, l’embrione del mondo che verrà. Il comunismo e la presenza palpabile dell’Unione Sovietica da una parte, la cultura islamica dei turchi di Kreuzberg e delle moltitudini di immigrati asiatici dall’altra. In mezzo, loro, i giovani punk, frangia estrema di un movimento altrove già morto e sepolto. Due idee diverse di Oriente (ma sarebbe meglio dire di non-Occidente) che, per i Fedeli alla Linea, sono le facce della stessa medaglia, le coordinate geografiche di una personalissima isola del tesoro. Punk filosovietico e musica melodica emiliana, allora, Live In Pankow e Islam Punk. “Berlino è fra le città occidentali la più islamica, sono più di duecentomila gli immigrati turchi che vi lavorano e vi abitano. Turchi e punk sono l’estetica e l’etica che ci interessa di West-Berlin, Istanbul è anche un pezzo di Kreuzberg e Kreuzberg è il cuore della nuova Europa”. Una simbiosi talmente perfetta da preludere allo stesso, inevitabile destino. Le macerie del muro di Berlino avrebbero travolto, e sotterrato, anche i CCCP, insieme a quell’ideale, certo un po’ ingenuo e romantico, ma indubbiamente sincero, che, molti anni dopo, sarebbe stato in buona parte rinnegato anche dal suo principale artefice nella tana del lupo, la tribuna televisiva di un compiaciuto panzer governativo. Un Ferretti ormai fin troppo Lindo, quella volta, da Ferrara, avrebbe fatto cadere il muro un’altra volta, e con esiti ben peggiori.

E allora, meglio un altro passo indietro: “Che futuro per un’Europa sempre più in disparte, tenuta come avamposto dall’ingratitudine di un impero da lei stessa generato e favorito? Quando si è in prima linea diventa necessità vitale fare di tutte le frontiere un muro. Di qua il bene, discutibile, però bene. Di là il male, non discutibile, perché male. Un paraocchi troppo ristretto limita la vista anche nelle vicinanze, così i muri invisibili che separano tra loro i tedeschi dell’Ovest sono più alti di quello, visibile, che separa Berlino da Pankow. Ed è una presunzione da miseri a farci supporre che Berlino Est sia al di là di un muro, quando, al contrario, è Berlino Ovest ad esserne contenuta”.
Fedeli alla linea e la linea non c’è.

da LFTS n.103

POST ROCK E DINTORNI – Il Versante Strumentale

di Marco Tagliabue

28 giugno 2015

Le Origini

E’ curioso annotare come fra gli (inconsapevoli) ispiratori di quell’estetica rock (recupero della psichedelia, della scuola di Canterbury e del krautrock; riesumazione di certi virtuosismi strumentali sotterrati dal punk; abbattimento degli schemi tradizionali della canzone a favore di una dilatazione della struttura e di una rinnovata libertà di sperimentare) che, forse per non scomodare i fantasmi ingombranti di un passato troppo…progressivo, si è furbescamente ascritta alla galassia post, ci siano le emanazioni di due gruppi seminali della scena psichedelica dei tardi anni ottanta, i Loop e gli Spacemen 3.
Gli Experimental Audio Research di Sonic Boom (Spacemen 3), Kevin Martin (God), Kevin Shields (My Bloody Valentine) e Eddie Prevost (A.M.M.) sono, più che altro, un vero e proprio supergruppo che, facendo proprie le intuizioni già sviluppate dai tardi Spacemen 3 di Dreamweapon (1990), elabora una serie di esperimenti (l’appellativo di album è forse un tantino improprio…) inquadrabili nell’ambito minimal-isolazionista più estremo: strumenti trattati e tesi fino a diventare un sottilissimo filo che si aggroviglia nei meandri della psiche; sibili e rumori, alte e basse frequenze, suoni scarnificati ed essenziali ai limiti dell’udibile. Non è più ambient e non è semplice elettronica: forse è davvero l’ultima frontiera della psichedelia.
Includere anche i Main di Robert Hampson (Loop) in questa trattazione sul rock senza parole potrebbe sembrare a prima vista un paradosso, ma l’utilizzo che essi fanno della voce, considerata al pari di qualsiasi altro strumento ed, a questo scopo, registrata ad un volume pari, se non addirittura inferiore, come parte di un corpus unico e indistinguibile, ci pare possa giustificare ampiamente la scelta. Dopo un inizio ancora nel segno dei gloriosi trascorsi (gli ep Hydra-Calm e Dry Stone Feed del 1992), i Main elaborano un sound sfrondato da ogni componente rock tradizionalmente intesa, in cui scompare del tutto la batteria e anche l’altra strumentazione, chitarra in testa, perde ogni connotazione ritmica a favore di una chiara matrice isolazionista di derivazione psichedelica ben rappresentata dai lavori della maturità: i due Firmament ep (1993 e 1994), gli album Motion Pool (1994) e Hertz (1996).
Fra i gruppi che gravitano intorno alla Too Pure, gloriosa label di tendenza in tutta la prima metà degli anni novanta per quella scena ancora poco allineata che sta a metà fra rock ed elettronica, con radici ben piantate nei fermenti migliori della new wave britannica dei primi anni ottanta ed in certe derivazioni kraute del decennio precedente, i primi a raccogliere l’eredità spirituale di Main ed E.A.R. ed a trasformarla, a loro volta, in testimone per le generazioni successive, sono i Seefeel di Mark Clifford. Nel breve volgere di una carriera repentina ma dispensatrice di semi importanti, attraverso i due album ufficiali su Warp, Quique (1994) e Soccour (1995), la band porta a compimento quel processo di appiattimento e stravolgimento di ogni significato ritmico di cui abbiamo appena celebrato i pionieri, spostando progressivamente l’asse delle proprie reiterate geometrie verso un’elettronica che ha anche Brian Eno o i My Bloody Valentine fra i propri numi tutelari. Il tutto, e qui sta la vera novità del progetto, senza dimenticare né rinnegare le proprie radici e la propria strumentazione rock, considerando anzi come la cosa più naturale del mondo l’evoluzione del concetto di canzone in un mantra ossessivo di chiara matrice elettronica.

L’asse Luisville/Chicago

Durante la sua lunga ed avventurosa traversata oceanica, quel modello compositivo che abbiamo testé celebrato come il progenitore di una nuova estetica del rock, si svuota progressivamente di ogni componente elettronica attraverso il recupero della tradizionale triade strumentale ed il ripristino di una struttura più vicina, almeno nelle sue connotazioni ritmiche, alla forma canzone. E se Albione getta il seme è l’asse Luisville/Chicago a far proliferare la pianta ed a raccoglierne i frutti, arricchendone il gusto di nuovi ed allettanti sapori. La crescente attenzione dei media, da poco orfani del grande carrozzone grunge e del suo attore principale, fa il resto in pochissimo tempo provvedendo allo sdoganamento ufficiale del post rock, alla sua esatta definizione stilistica ed alla sua completa affermazione commerciale. Dobbiamo ad onor del vero ammettere che tutto era cominciato a Luisville nel 1991, con i mai troppo incensati (da morti, naturalmente…) Slint di Spiderland, ma allora il mondo era davvero in tutt’altre faccende affacendato ed a nessuno, ma proprio nessuno, passò per la mente di spendere due parole per una delle pietre miliari della nostra epoca, condannando il quartetto ad un oblio profondo ma, per fortuna, non definitivo. A ben vedere è già tutto nei due dischi di questa band (l’altro è il predecessore Tweez del 1989): la metamorfosi dell’hard core in lunghe composizioni dalle strutture più instabili e dilatate che non sono più hard core ma non sono nemmeno rock; partiture quasi sempre strumentali o comunque cantate, magari solo parlate, in assoluto spregio alla tradizione; strutture ritmiche ora nervose, incostanti, incoerenti, ora lente, catatoniche, avvolgenti; chitarre pulite, affilate ma gentili. Sembra che tutto proceda per caso, ma tutto funziona (casualmente?) a meraviglia: uno spirito anarchico perfettamente premeditato.
E se gli Slint, anche dall’alto della loro importanza, rientrano solo marginalmente del nostro discorso, che riguarda il versante puramente strumentale, ci rimettiamo prontamente in carreggiata senza spostarci troppo dedicando un pensiero agli Aerial M, forse il più importante fra i progetti post mortem del chitarrista della band David Pajo. Nell’ottimo debutto omonimo, pubblicato dalla Drag City nel 1998, lo spirito del gruppo madre rivive attraverso sottili arabeschi di chitarra, linee semplici, pulite e sottili che si rincorrono e s’intersecano senza posa, dall’alto di una purezza che non ha bisogno di nessun altro orpello per rivelare appieno la sua magia. Accordi ipnotici e circolari che sposano minimalismo e tradizione folk in un insieme unico e di raro fascino.
Ciò che è stato negato, in termini di popolarità e riscontri commerciali ai padri riconosciuti Slint, è stato elargito a piene mani dal solito destino beffardo ai chicagoani Tortoise, i veri campioni, a livello mediatico, del movimento: un primato conquistato a suon di copertine, interviste e copie vendute che nessuno è riuscito in seguito a mettere in discussione. Curiosamente, ma non troppo, sono gli stessi Tortoise i primi a non riconoscersi in minima parte nell’etichetta –il post rock- che la stampa specializzata gli ha cucito a doppio filo (sentimento del resto comune alla quasi totalità dei gruppi coinvolti, più o meno a loro insaputa, nell’effimero movimento), ma è altresì innegabile che il combo incarna alla perfezione tutte le caratteristiche che hanno costituito il famigerato cliché: musica esclusivamente strumentale, innanzitutto, poi grandi qualità tecniche e interscambiabilità dei ruoli; composizioni più o meno lunghe strutturate in maniera che non ricalca neanche lontanamente gli stilemi della canzone tradizionale, aperte all’elettronica ed a mille contaminazioni diverse, dal jazz al dub, dal minimalismo al krautrock, dal progressive alla new wave, dalla psichedelia all’ambient… L’esplosione a livello planetario dei Tortoise avviene con il secondo album del 1996, quel Millions Now Living Will Never Die, disco dell’anno per gli argutissimi critici di The Wire, che oggi è considerato, magari a torto, il disco capitale dell’intero movimento. L’omonimo debutto di un paio di anni prima passa, invece, del tutto inosservato anche se racchiude già in sé tutti gli elementi fondanti del nuovo suono e, soprattutto, li elabora alla perfezione con impensabile maturità stilistica e compositiva: è da ritenersi, di fatto, ancora più importante del fortunato successore. Ma, è inutile negarlo, ce lo siamo comprati tutti dopo Millions, stregati da quei cinque pezzi che hanno rivelato al mondo il nome dei Tortoise. La monumentale Djed, innanzitutto, una lunga suite (una suite! Da quanto tempo non se ne vedeva una?) che incrocia buona parte dello scibile rock strizzando l’occhio anche a certe sonorità, pensiamo al trip-hop ad esempio, all’epoca molto in voga, e poi giù fino alla chiusura maestosa, solenne e misteriosa di Along The Banks Of Rivers, un incantesimo che lascia a bocca aperta. La magia purtroppo non sarà più tale già a partire dal successivo TNT (1998), influenzato più direttamente dal jazz, che comincia a conoscere momenti di stanca che saranno ancora più evidenti nei ritmi nervosi, tutti spigoli, di Standards (2000) e nelle linee melliflue e circolari, ma piuttosto inconcludenti, del recentissimo It’s All Around You (2004). Prima di abbandonare la dimora dei Tortoise solo un cenno per il progetto collaterale degli Isotope 217, sorta di appendice jazz al gruppo madre con un paio di album interessanti alle spalle, The Instable Molecule (1997) e Hodah (1999).
Spostandoci verso Luisville siamo costretti a schivare, per restare in tema con il nostro discorso, i grandissimi June Of 44, che della voce fanno uso largo e pure un tantino irriverente, ma, prendendo in prestito il loro ultra eclettico batterista Doug Scharin, figura davvero fondamentale dell’intera scena con le bacchette in una miriade di progetti, uno più interessante dell’altro, ci fermiamo un attimo dalle parti degli Him. Il debutto del 1995, Egg, resta probabilmente il loro lavoro più interessante: una cascata di ritmi che mischia, come fosse la cosa più naturale del mondo, elementi etnici, influenze jazz, psichedelia e reminiscenze della new wave più anarchica e visionaria, linee dub, voci sconnesse e chissà che altro ancora. Nei lavori successivi avrebbe preso progressivamente piede uno spirito legato alla world music ed a sonorità più calde e levigate ma mai meno che dignitose. Se pur di diversa collocazione geografica, ma di indubitabile unitarietà stilistica, meritano a questo punto una citazione anche gli Ui, i cui destini si sono del resto in più di un’occasione incrociati con quelli dei testé menzionati Him. Nella formazione degli Ui, già attiva dai primissimi anni novanta, qualcuno ha voluto riscontrare dei Tortoise ante litteram ed, in effetti, tale accostamento non è poi così ardito come appare a prima vista. Il trio newyorkese era del resto inizialmente un quartetto, e che quartetto!: due bassisti, un Dj ed un batterista e, naturalmente, la voglia di fare a pezzi la tradizione rock. Gli inizi, l’e.p. The Two Sided del 1993, sono in nome di un sound grezzo, che ha chiare radici funky ma contiene anche elementi di dub e di jazz, molto vicino a quello dei Primus migliori. Nei due lavori successivi sulla lunga distanza, Sidelong (1996) e Lifelike (1998), il processo di maturazione della band sembra seguire da vicino la parabola dei Tortoise ed il loro progressivo avvicinamento a sonorità sempre più contaminate con il jazz: il loro nume tutelare diventa il Miles Davis di In A Silent Way e Bitches Brew e, come confermerebbe il maligno, in qualche occasione sembrano addirittura surclassare i cugini più ricchi e famosi.
L’ultimo pensiero, prima di abbandonare definitivamente questo ambito geografico, è per i Rachel’s e per le loro partiture romantiche e fantasiose, molto più vicine alla musica classica che al rock d’ogni tempo, pre o post che sia. Ma, come farne loro una colpa?, si sono ritrovati in un particolare momento in un determinato luogo, hanno composto musica piuttosto lontana dal comune sentire ed, allora, eccoli qui! La loro storia continua fino ai nostri giorni, ma ci soffermeremo solo sui tre album che hanno rivelato a chi ha avuto orecchie abbastanza fini per captarne i segnali, il genio e l’originalità di questo strano ensemble. Il debutto di Handwriting (1995) ed il successivo Music For Egon Schiele (1996) sono dei piccoli capolavori di lirico intimismo, due tavolozze di colori autunnali che evocano ricordi, malinconie, nostalgie e piccoli drammi: una miriade di sensazioni personali altrimenti inconfessabili, specie a se stessi. Il terzo album, The Sea And The Bells (1996), allarga gli elementi della formazione e, di conseguenza, amplia le componenti del sound con timide incursioni rumoriste, percussioni e tentazioni minimaliste. Ma l’autunno rimane la stagione predominante e la notte continua a custodire, insieme al nostro sonno, queste piccole e misteriose storie di grandi sentimenti.

Kranky Records

Nessuna label al pari della Kranky di Chicago può rivendicare un ruolo di assoluta centralità nello sviluppo di quell’arzigogolata galassia di suoni che, per consolidata prassi, si suole archiviare nel gran calderone del post-rock. E, per meglio circoscrivere i confini che delimitano, almeno nelle sue linee di fondo, quello stile inconfondibile ormai consegnato agli annali a simbolo del cosiddetto “suono Kranky”, diremo che tale comun denominatore riunisce quelle correnti di matrice psichedelica (di una psichedelia prevalentemente eterea e spaziale), che pescano in ugual modo dal krautrock dei grandi corrieri cosmici (Tangerine Dream in testa) come dalla tradizione acustica folk e cantautorale, dall’elettronica colta come dal rock chitarristico, dalla musica per aeroporti di Brian Eno come dai ritmi della catena di montaggio dei Throbbing Gristle.
La scintilla che fece divampare l’incendio fu uno strano 7” degli allora sconosciutissimi Labradford: era la primavera del 1993 e quell’oggettino che spuntava dalle cataste di demo negli uffici di Joel Leoschke e Bruce Adams alla Cargo Distributions di Chicago ebbe il merito di dischiudere ai due le porte di un universo del tutto nuovo e di dare la spinta decisiva ai loro sogni ricorrenti di fondare un’etichetta propria. La Kranky (da “cranky”: sgangherato) nasce così, un po’ per noia ed un po’ per scommessa, ed allo stesso modo, nel novembre di quell’anno, negli scaffali dei negozi specializzati fa la sua comparsa la prima pubblicazione ufficiale della label. Prazision, album di debutto dei Labradford, è ancora oggi musica per palati forti. Lontano dalle fragili e melanconiche tessiture armoniche che ne avrebbero caratterizzato i capitoli successivi, il disco esibisce una serie di contrappunti di stampo isolazionista fra chitarra e sintetizzatore, appena sporcati da qualche lieve tentazione rumorista, fedeli alla tradizione dei corrieri cosmici tedeschi e dei loro più recenti emuli in Terra d’Albione (Spacemen 3, Main). Con il successivo A Stable Reference (1995) il suono della band smussa un po’ di asperità per approdare con l’omonimo terzo album del 1996 ad una sorta di malinconica musica ambientale per anime erranti. Una tentazione che sarà ancora più forte nei due album successivi, Mi Media Naranja (1997) e E Luxo So (1999), in cui la musica sembra tendere progressivamente verso la perfezione del silenzio in un insieme quasi immateriale che dona, secondo gli stati d’animo dell’ascoltatore, grandi suggestioni o grandi sbadigli.
In comproprietà con la label canadese Constellation, altra etichetta simbolo di questi suoni di frontiera (mentale), che meriterebbe ben altra trattazione rispetto alla citazione che le stiamo sbrigativamente elargendo, l’ensamble mutante dei Godspeed You Black Emperor! (ora Godspeed You! Black Emperor, e scusate la finezza!) è un altro dei fiori all’occhiello di casa Kranky. Il debutto sulla lunga distanza del 1998, dall’indecifrabile titolo di F#a#oo, rimane un ottimo esempio di musica senza tempo per ampie distese fisiche o mentali. La formazione aperta (almeno una decina di elementi!) dei GYBE! ci serve un piccolo prodigio di difficile catalogazione: un sound esclusivamente strumentale che pesca in ugual misura da Ennio Morricone e da Angelo Badalamenti, dai Pink Floyd di Atom Heart Mother e dai Popol Vuh di In Der Garden Pharaos. Come sempre in questi casi, l’unico consiglio davvero utile è quello di lasciarsi andare e…ascoltare per credere. Il percorso sarebbe giunto a definitivo compimento, dopo l’interlocutorio e.p. Slow Riot For The New Zero Kanada del 1999, con il mastodontico Lift Your Skinny Fists Like Antennas To Heaven (2000) ed avrebbe conosciuto inediti sviluppi chitarristici, sotto forma di vere e proprie esplosioni di psichedelia estatica e violenta al tempo stesso, nel 2002 con Yanqui U.X.O. I primi ad essere traumatizzati da una virata così brusca sarebbero stati gli stessi componenti della formazione, che avrebbero variato la propria ragione sociale con l’ormai mitico cambio di collocazione del punto esclamativo…
Gli Stars Of The Lid di The Ballasted Orchestra (1996) e, soprattutto, di Per Aspera Ad Astra (1998), costituiscono l’ideale anello di congiunzione fra la galassia post-rock e le profondità infinite degli spazi siderali che ospitavano i corpi celesti alla deriva dei Tangerine Dream di Zeit, senza dimenticare, naturalmente, un Brian Eno indiscusso nume tutelare. Lunghe e sottili rifrazioni cosmiche, appena percettibili dall’orecchio umano, che riecheggiano senza sosta nel vuoto assoluto dell’Universo: gli ultimi, disturbati segnali radio prima di abbandonarsi definitivamente al Nulla Eterno, vita o morte che sia.

Altri (assolati) lidi

Per scoprire le radici degli Scenic di Bruce Licher dobbiamo fare un passo indietro verso la gloriosa trance dei Savage Republic di Ceremonial, ma poiché ci teniamo ad essere fedeli alla nostra intenzione di parlare solo di musiche senza voce, o di musiche in cui anche la voce è musica al pari di qualsiasi altro strumento, sbrighiamo frettolosamente il nostro tributo con una doverosa citazione.
Gli Scenic si rivelano nel 1995, dopo il singolo The Kelso Run, con il debutto capolavoro di Incident At Cima, raccolta di musiche desertiche di grandissimo impatto visivo con radici ben piantate nella psichedelia storica di ambo i lati dell’Atlantico. Con il successivo Acquatica (1996), titolo decisamente fuorviante perché l’unica sabbia che continua ad essere protagonista non è certo quella di una spiaggia assolata, il sound si arricchisce, oltre che nel minutaggio, per l’introduzione di una strumentazione più ricca che in precedenza, con fiati, synth e strumenti etnici. Poi cala il silenzio e quando tutti, ma proprio tutti, sembrano essersene dimenticati, gli Scenic tornano all’alba del 2002 con un altro grande disco, l’album The Acid Gospel Experience, che sviluppa le coordinate già fissate in precedenza in composizioni di ampio respiro ed immutato fascino.
Se abbiamo trovato una Terra Santa, l’asse Luisville/Chicago, e una madre, la Kranky Records, manca solo una figura paterna per la felicità del pargolo al quale abbiamo intitolato queste pagine. E se in molti hanno recuperato addirittura il compianto John Fahey per appiccicargli l’etichetta di padre del post-rock, il merito, più che a certe ispirate pagine dei Gastr Del Sol, va soprattutto ai Cul De Sac di Glenn Jones ed alla collaborazione con il decano dei chitarristi folk per la stesura dell’album capolavoro The Epiphany Of Glenn Jones. In questi solchi le due anime si incontrano in una zona franca in cui il blues di Fahey si fonde con vapori ambient, viene sfregiato dai lampi del synth, si frantuma sotto la pressione irregolare di selve di percussioni tribali, esplode in turbinose distorsioni psichedeliche senza negarsi sparute linee d’ombra in cui pare recuperare uno spirito più tradizionale non esente da qualche elemento di disturbo. Prima di giungere al capolavoro, i Cul De Sac si erano segnalati per l’ottimo debutto di Ecim (1992) e per il successore China Gate (1996), lavori in cui il recupero del krautrock più eversivo si sposa a melodie orientaleggianti sfregiate da digressioni psichedeliche, elaborazioni elettroniche ed accenni di rumorismo.
Per chiudere il cerchio riattraversiamo l’Atlantico in direzione delle lande dalle quali era partito il nostro viaggio: questa volta però approdiamo un po’ più a nord, dalle parti di Glasgow. I Mogwai rappresentano, insieme ai Tortoise, il gruppo di punta dell’intero cartellone, almeno in termini di visibilità sui media e riscontri commerciali. Che ciò sia meritato o meno è annosa questione che lasciamo ai critici di rango o a chi, beato lui!, non ha pensieri più importanti quando chiude gli occhi in attesa di prendere sonno. Ten Rapid (1997), pur essendo una semplice raccolta dei primi singoli, ha la qualità giuste e la giusta dignità per essere considerato, a tutti gli effetti, vero e proprio album. E se è inevitabile il paragone con realtà contemporanee quali i Tortoise o i June Of 44, un ascolto più attento di quelle trame chitarristiche geometriche, di quelle lente progressioni alternate a scatti repentini, di quelle sottili movenze ipnotiche nel loro senso di distanza, rivela, in un gruppo capace di mostrare con la stessa accortezza tutti i suoi muscoli e tutta la propria dolcezza, un più ricercato gusto melodico ed una naturale attitudine psichedelica che riescono a scomodare perfino i primi Pink Floyd. Nell’ottobre dello stesso anno vede finalmente la luce Mogwai Young Team, il vero e proprio debutto della band scozzese. Nel brano di apertura del disco, Yes! I Am A Long Way From Home, una voce femminile, avvolta da una morbida poesia chitarristica in delicato crescendo, avverte che “la musica è più grande delle parole e più ampia delle immagini” e, con tale rigorosa dichiarazione di intenti, il gruppo si premura di regalarci un’opera al di fuori ed al di sopra del tempo, dei generi, delle mode. Ci sono tutti gli ingredienti di trenta e passa anni di dottrina rock in Young Team: gli anni ’60 di Velvet e Pink Floyd, i tardi ’70 dei Joy Division, gli anni ’80 dell’asse Spacemen 3-My Bloody Valentine-Sonic Youth, gli albori dei ’90 degli Slint…ma si fa prima ed è più giusto dire che ci sono i Mogwai. Un’opera prima di una maturità quasi inaudita che fa strage di cuori un po’ dovunque: impossibile del resto non rimanere ammaliati da questi paesaggi mentali immaginari, da quei voli ora tranquilli ora affannati oltre le quattro mura della propria dimora e del proprio pensiero cui è costretto l’ignaro ascoltatore. Epico è forse l’aggettivo migliore per un suono che vive di esplosioni violente e limpidi fraseggi, di dolcissime oasi di meditazione e dilanianti inferni di rumore, e che ha il suo punto di non ritorno nei sedici misteriosi minuti di Mogwai Fear Satan, in cui si rincorrono magicamente limpide progressioni chitarristiche e la dolcissima melodia di un flauto celestiale. Il successivo Come On Die Young (1999) apre la strada verso una sorta di normalizzazione del suono: spariscono quasi completamente gli elementi di disturbo, i ritmi rallentano e le atmosfere si fanno più ovattate: è un sottile senso di malinconia, assieme a sempre più evidenti reminiscenze floydiane, a pervadere inesorabilmente l’ascoltatore man mano che il tempo scandisce le dodici tracce del disco. Ma la novità principale è probabilmente l’introduzione del cantato nella title track: una chiara indicazione per il seguito di Rock Action, nei negozi alla fine dell’aprile 2001, equamente diviso fra canzoni, per la prima volta nel senso tradizionale del termine, con facili melodie, suoni carezzevoli e, soprattutto, la voce e lunghe composizioni strumentali nelle quali è immediatamente riconoscibile l’ormai classica matrice del gruppo. Il senso di disorientamento che pervade l’ascoltatore sarà in parte lenito dal successivo Happy Songs For Happy People (2003), quella che rimane ad oggi l’ultima prova del gruppo sulla lunga distanza, che segna un ritorno alle composizioni strumentali ed alle atmosfere sospese di Come On Die Young.

da LFTS n.74

The Pop Group: La Cognizione del Dolore

di Marco Tagliabue

2 maggio 2015

Per salutare il ritorno del Pop Group con un disco di inediti, il recentissimo Citizen Zombie, a trentacinque anni di distanza da For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder, andiamo a ripescare un vecchio articolo sul gruppo di Mark Stewart scritto in tempi piuttosto bui…

Parla, illumina queste catene/Parole come azzurri cristalli/Rompiamo la barriera del suono/Rubiamo la velocità alla luce.   Seppelliamo il sole e beviamo /Beviamoci la notte.  Ti prego non vendere i tuoi sogni.  Parla, illumina queste catene/Dipingi un nuovo suono/Inventa un colore nuovo/Afferra, afferra, afferra un pensiero/Lacrime di polvere, disperse dall’aria. Ti prego non vendere i tuoi sogni/Non vivere nei sogni di qualcun’altro. (Don’t Sell Your Dreams-1979)

Per molto tempo il Pop Group è stato solamente un sogno. Un miraggio da rincorrere a prezzi assassini, buono per i pazzi ed i collezionisti, che è un po’ come dire la stessa cosa.  Spasmodicamente attratti dal quel piccolo e misterioso culto che da sempre circonda la band, in tanti ne siamo stati irrimediabilmente respinti, vittime dei cronici problemi di reperibilità di quelle irraggiungibili opere, quasi si fosse voluto sancire una sorta di “numero chiuso” da parte dei gelosi custodi del mito.  Eppure Y è uno dei dischi più radicali, innovativi, importanti ed influenti degli ultimi 25 anni di musica rock.  E dei più belli, naturalmente. Una recente (e purtroppo incompleta) ristampa in digitale della scarna discografia del gruppo ha reso solo parziale giustizia  a questa drammatica nefandezza: si tratta ancora una volta di materiale pubblicato in un numero limitato copie e di non facilissima reperibilità, ma tanto basta  per consentirci di spendere qualche parola su questa incredibile esperienza senza il rischio o il timore di suscitare, in coloro che ne cercassero un contatto tardivo, la bellicosa reazione per un interesse stimolato sulla carta e negato dai fatti…

Ognuno ha il suo prezzo/Ed anche tu imparerai/Ad accettare la menzogna. Aggressione/ Competizione/ Ambizione/Fascismo consumista. Il Capitalismo è la più barbara di tutte le religioni/ I centri commerciali sono le nostre nuove cattedrali/Le nostre automobili sono martiri per la   causa. Siamo tutti prostitute. I nostri figli si rivolteranno contro di noi/Perché noi siamo gli unici da biasimare/Siamo gli unici da condannare. Ci daranno un nome nuovo/Ci chiameranno ipocriti, ipocriti, ipocriti. (We are all prostitutes-1980).

Il Pop Group è anche rabbia, furia  e rancore.  Lo stesso sentimento che ispira la blank generation sfrondato  da  quel nichilismo autodistruttivo tanto caro ai fratellini punk:  al posto del no future fine a se stesso che tutto accomoda e tutto risolve in mera ed impotente accettazione dello status quo, il furore iconoclasta di chi non vuole sottacere i crimini  sui quali è stata edificata la civiltà dei consumi e la condivisione, forse ingenua e contraddittoria ma certo genuina, del dolore che si cela dietro ogni sorriso negato.  La sincera passione, insomma, di chi vuole esibire la propria diversità non come scudo per  proteggersi dal mondo ma come ariete per sfondarlo.

Stomaco testa e genitali/Soffocati fino a perdere conoscenza/Acqua ghiacciata sparata nelle orecchie/Borse di plastica strette intorno alla testa/Scagliati contro il muro/…/Colpiti sul viso/Stretti per i polsi/Alzati per le orecchie/Bruciati con le sigarette/Presi a calci sui denti/Poi gettati esanimi sul pavimento/Ed infine calpestati. (Amnesty Report-1980).

Ma Pop Group vuol dire soprattutto coraggio. Il coraggio di scuotere le coscienze e di rivoltarle come calzini appesi al sole, il coraggio di far male, di menare fendenti e coltellate, di produrre ematomi e lasciare ferite sanguinanti. Il coraggio di parole incontrovertibili e di uno degli assalti sonori più urticanti che ci sia mai stato dato di udire: una incredibile miscela di punk, funk, dub, free-jazz e noise dalle tinte inequivocabilmente new-wave ma distante anni luce da ogni esperienza collaterale o pregressa.  Accostarsi per la prima volta alla sua pressione devastante è un po’ come sottoporsi ad una violentissima centrifuga: un moto liberatorio capace di provocare non solo stordimento e confusione  ma anche una profonda, completa,  rigenerazione.  Una delle poche esperienze artistiche davvero in grado di creare una nuova  prospettiva.

…/Non moriremo insieme nel deserto/Scapperemo dagli uomini di preghiera/Urleremo di gioia come nella Rivoluzione Francese/E ci faremo beffe della ghigliottina. Cammineremo verso il mare selvaggio/E’ l’unica direzione per noi due. Disapprovando la vita intorno a loro/Hanno creato un mondo su misura/Sei il mio ultimo desiderio prima del plotone di esecuzione/Ma i proiettili non possono scalfire il mare. Ci nasconderemo nel mare selvaggio/E’ l’unica direzione per noi due. Perché gli eroi devono sempre morire in battaglia?/Prendi il violino/Siamo esuli. (Savage Sea-1979).

E mi piacerebbe poter dire che si intravede una luce in fondo al tunnel, ma non c’è speranza nella guerra del Pop Group:  la salvezza è altrove, non in questo mondo che reclama  un sacrificio dopo l’altro e che potrà rinascere soltanto dalle sue ceneri, siano esse le selvagge tribù antropomorfe della copertina di Y o l’innocenza perduta del celebre bacio terzomondista di For  How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?

Una domanda destinata a rimanere senza risposta come, del resto, la maggior parte dei quesiti posti dalla band. Ma è più onorevole la sconfitta di un ritiro, anche se questa rappresenta, innanzitutto, il crudele fallimento dei sogni e delle illusioni dei  vent’anni.

Già, perché Mark Stewart, Gareth Sager, Bruce Smith, John Waddington e Simon Underwood non hanno nemmeno vent’anni quando, nei primi mesi del 1978, decidono di passare dai banchi di una anonima High-School  di Bristol alle trincee del loro personalissimo campo di battaglia. Il nome che si scelgono,  The Pop Group, è spiazzante nella sua perversa semplicità: non esiste, con tutta probabilità, niente di più lontano dalla musica pop, nella comune accezione del termine, dell’incredibile assalto sonoro perpetrato dal gruppo…

Con un ventaglio di ispirazioni trasversali che abbraccia le suggestioni letterarie di Rimbaud  e Burroughs e quelle musicali di Ornette Coleman, Last Poets, James Brown, Can, John Cage, Archie Sheep, King Tubby e, perché no?, di quell’altro Pop(ular) Group che erano gli Area di Demetrio Stratos,  i nostri, dopo un breve tour estivo di supporto ai Pere Ubu, si accasano presso la Radarscope Records all’inizio del 1979 e pubblicano, nel giro di pochi mesi, il 7” di debutto She Is Beyond Good And Evil/3:38.

Opera per certi versi fuorviante e contraddittoria, il singolo è la perfetta esemplificazione   delle due anime che dipingono la primavera del  gruppo e rappresenta, in qualunque modo lo si voglia considerare, un ideale passaggio di testimone fra le influenze wave  opportunamente filtrate della title-track, tipiche dei primi esperimenti sonori dei cinque,  ed il superamento di ogni  confine stilistico  che caratterizza la b-side e  l’intera produzione successiva della band.

Se She Is Beyond Good And Evil (probabilmente il brano più conosciuto ed abbordabile del Pop Group) è una traccia dubbeggiante dalle forti connotazioni new-wave ottimamente costruita intorno alla voce magnetica di Mark Stewart, la vera sorpresa arriva con 3:38  (titolo dettato, è inutile dirlo, dalla durata del brano), un incredibile strumentale a metà strada fra i Can ed i This Heat, che si pone come autentico crocevia con le suggestioni sonore che ci attenderanno, di li a poco, nel mirabolante album d’esordio del gruppo. (Davvero inspiegabile a questo proposito la mancata inclusione di 3:38 in ogni successiva ristampa del materiale della band, come appare discutibile, del resto,  l’inserimento di She Is beyond Good And Evil nella release del  1997 di Y: un “allacciamento”  quantomeno un po’ forzato).

…/Ma a chi credere/Quando sei vittima di una nazione di assassini/Devo credere a me stesso? Mi sento come un vagabondo in gabbia/Fiori in Mosca/I perdenti si prendono tutto/Siamo qui per andarcene/Tutti gli amanti tradiscono… (Thief Of Fire-1979)

Y vede la luce dopo una manciata di settimane.  In copertina il primitivismo esasperato di una selvaggia tribù africana a rappresentare il punto di ripartenza di un immaginario (e forse auspicato) day after o, allo stesso modo, il punto di arrivo dei deliri di onnipotenza della contemporanea civiltà dei consumi.  All’interno un poster con i testi ed un collage esplicito di immagini militanti dalle varie parti calde del mondo: Cambogia, Vietnam, Irlanda…  Nei solchi un senso di rabbia, disperazione e frustrazione ai limiti della capacità di sopportazione, una serie ininterrotta di scene spaventose e sanguinarie, una tensione emotiva ai limiti dell’inumano…

Accompagnare la puntina a fine corsa è un’esperienza catartica e sconvolgente, un vero e proprio esercizio di auto flagellazione: un ascolto attivo può essere davvero tutto questo, ma ciò che rimane non è arrendevolezza o depressione, bensì uno spirito nuovo ed una nuova visione, una sensibilità diversa ed un diverso modo di sentire, un insperato vigore ed uno sguardo capace di andare oltre, attraverso la notte dei  propri  pensieri, nelle smisurate profondità dell’io.

Y è anche una messe furibonda di ritmi sconnessi e forsennati, di sussurri ed urla strazianti: pochi i momenti di respiro o abbandono, molteplici quelli di estasi e delirio.  Funk innanzitutto, ma anche jazz, avanguardia, musica tribale e folk urbano in un  caos sonoro all’insegna dello sperimentalismo e di una calcolata improvvisazione: un magma disarticolato aperto alle mille possibilità vocali di un Mark Stewart in forma come non mai.

Due i brani portanti dell’album: l’iniziale Thief Of Fire, un funky corposo che  riesce a dare  spazio

anche ad un inserto avant e ad una coda dalle forti tinte free-jazz,  e la lunga We Are Time, oltre sette minuti di assalto alla corteccia cerebrale con ogni strumento al meglio delle sue possibilità e, su tutto, la voce di Mark che ti buca la pelle.

…/Nessuno schema da seguire/Nessuna paura del domani/…/Domeremo la velocità del cambiamento/L’eternità sarà nostra. Il tempo è con te/Splende attraverso i tuoi occhi/Uccideremo la parola/Le menzogne in caratteri neri/Menzogne menzogne menzogne/Il tuo mondo è costruito sulle menzogne. (We Are Time-1979).

Ma c’è spazio anche per atmosfere più ardite prossime alla sperimentazione (Blood Money, Words Disobey Me, The Boys From Brazil), per insperati momenti di respiro (Snow Girl) ai limiti dell’intimismo più disperato (Savage Sea), per la fine anarchia jazz di Don’t Call Me Pain e per il drammatico finale di Don’t Sell Your Dreams, in cui la tensione si fa davvero insostenibile mentre Mark implora straziante il suo tragico refrain. Quando la rabbia si placa  e subentra il silenzio, la fine del disco giunge davvero come una liberazione.

…/Abbiamo paura di ciò che non possiamo comprendere/Soldati soldati soldati/Marciano attraverso i tuoi occhi/Bruciano le tue dita nell’oscurità/Non chiamarmi dolore/Il mio nome è mistero/Questa è l’epoca delle possibilità/O almeno così dicono. (Don’t Call Me Pain-1979)

Poco dopo la pubblicazione di Y cominciano ad apparire le prime crepe: Mark Stewart, in disaccordo con gli altri, saluta tutti e se ne va, mentre la Radarscope Records, di fatto una figlia illegittima del colosso Warner, sente la terra bruciare sotto i piedi e preferisce dare il benservito al gruppo, che definire scomodo è puro eufemismo…

Mentre la diaspora in seno alla band viene prontamente risanata dal manager Dick O’Dell, che mette sul piatto della bilancia la creazione della etichetta personale Y Records  a maggior garanzia della totale indipendenza del gruppo, si fa avanti la Rough Trade  offrendo la propria disponibilità per la distribuzione del materiale prodotto dalla nascente label.

Prima del grande passo  c’è comunque tempo per la pubblicazione, sempre su Rough Trade, dello storico 7” We Are All Prostitutes/Amnesty International Report in cui, per la prima volta, appare il nuovo bassista Danny Katsis al posto del dimissionario Simon Underwood. Il primo brano è un assalto al vetriolo con evidenti connotazioni funky in cui rabbia e pessimismo si uniscono in un desolato abbraccio, mentre, ancora una volta, la vera sorpresa arriva dal lato b. In Amnesty International Report On British Army Torture Of Irish Prisoners (questo il titolo completo della traccia), Mark Stewart non fa altro che enunciare stralci del citato rapporto con una rabbia feroce che trova  ideale compendio nel violento free-jazz-noise di fondo. (Una versione del brano più prossima alla forma-canzone è presente nel disco postumo di out-takes We Are Time).

Ad un altro 7” tocca  l’ingrato compito di inaugurare il catalogo della  neonata Y Records. Si tratta di uno split con le Slits, il più importante gruppo punk all-female con l’alto patrocinio di Mr. John Lydon, e da il via ad una collaborazione che proseguirà nei primi mesi del 1980 con una tournee europea che toccherà anche il nostro Paese. Il brano dei nostri, intitolato Where There Is A Will There Is A Way, è un altro tiratissimo funk antimilitarista ai limiti dell’isteria.

Solo una domanda/Per quanto tempo dovremo tollerare gli stermini di massa? La tolleranza è la maschera dell’apatia/L’assuefazione è una pratica quotidiana/C’è l’inferno di un mare di soldi prodotto dalle guerre/Com’è patetica la nostra apatia di fronte alla miseria degli altri/La nostra inazione di fronte al loro assassinio o alla loro schiavitù è un crimine violento. C’è la colpa e c’è l’azione/Tutto quello che chiediamo per noi è un tranquillo Eden personale/…/Nella nostra ignoranza la gente viene uccisa/Nella nostra decadenza la gente muore/…/ (For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?-1980)

For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?, opera inequivocabile fin dal titolo, esce nei primi mesi del 1980 su Y Records a rappresentare, dopo così breve tempo, una sorta di testamento politico e artistico della band, ormai giunta al capolinea della sua fugace corsa.

Più secco, diretto, esplicito e uniforme sia sotto il profilo musicale che sul versante dei contenuti, l’album conserva solo una morbida scia della vivida magia del suo nobile predecessore, del quale sembrano venire in buona parte meno l’originalissima vena creativa e le drammatiche atmosfere surrealiste.

Ciò che fin dalle prime note sembra irrimediabilmente perduto è proprio ciò che rendeva grande, unico ed irripetibile il precedente Y, vale a dire quel pathos a tratti insostenibile, quel senso di angoscia opprimente, quell’aspettativa di una catastrofe imminente che facevano di ogni ascolto un’esperienza diversa, contrastante ma ad ogni modo liberatoria. 

Confezionato in uno splendido packaging militante che comprende, oltre alla magnifica copertina, quattro fogli di controinformazione  su alcuni dei temi scottanti del cosiddetto mondo civile, il lavoro sacrifica la poesia a favore della politica e abbandona le infinite suggestioni sonore del passato per percorrere i binari di un massiccio funky  a 360 gradi.

Si tratta di un album più fisico che cerebrale insomma e non  sarebbe certo un sacrilegio immaginarlo quale danzereccia colonna sonora per una festa davvero in ove, oltre che con le gambe, si ballasse per una volta anche con la testa.

…/Nelle miniere in Bolivia/Nelle fabbriche in Sudafrica/Nelle strade in Indonesia/Sfruttamento, cupidigia/Nutriamo gli affamati.  Più di 10.000 uomini, donne e bambini/Muoiono di fame tutti i giorni/La causa principale della fame e della povertà/E’  l’avidità organizzata della razza umana/Nutriamo gli affamati.  Nei campi in Cambogia/Nelle baraccopoli in India/Nelle prigioni in Argentina/Sfruttamento della manodopera a basso costo.  Lo sfruttamento è la violenza carnale sul Terzo Mondo/I banchieri occidentali decidono chi deve vivere e chi deve morire./…/ (Feed The Hungry-1980)

Un  impressionante uno-due: Forces Of Oppression, un funky tiratissimo con incredibili inserti di chitarra ed una voce sguaiata e filtrata dai toni a tratti waitsiani, e Feed The Hungry, un accattivante reggae/dub,  costituiscono invariabilmente l’asse portante di un album che ha ulteriori punti di forza nel caos primordiale di One Out Of Many e Communicate, nei toni stemperati in odor di Giamaica di There Are No Spectators e nell’esplicito inno all’esproprio a ritmo di fanfara di Rob A Bank.

C’è solo il tempo di pubblicare, a bocce ormai ferme, il disco di out-takes ed alternate-version We Are Time (1981), che comprende materiale tratto da vecchi demo, registrazioni inedite dal vivo (Genius Or Lunatic, Spanish Inquisition) e in studio (Kiss The Book, Sense Of Purpose, Trap, Amnesty Report mk. II) oltre a versioni in presa diretta di vecchi classici (We Are Time, Thief  Of Fire) spesso penalizzate da una qualità di registrazione poco più che amatoriale, perché il torrente in piena del Pop Group rompa definitivamente gli argini a favore di un sorprendente numero di emissari diversi.

Dei quali ci basterà solamente ricordare i Pig Bag del già dimissionario Simon Underwood, titolari di un effimero successo nel nome del singolo Papa’s Got A Brand New Bag, i Maximun Joy di John Waddington e Danny Katsis, fautori di un approccio più easy al funky abrasivo del gruppo madre, e, soprattutto, i Maffia di Mark Stewart ed i Rip Rig & Panic di Gareth Sager e Bruce Smith, i più abili a raccogliere ed a portare più a lungo nel tempo lo scomodo ma inebriante testimone lasciato dal Pop Group.

Non ci sono spettatori/Devi partecipare che ti piaccia o no/Non ci sono spettatori/Sei responsabile che ti piaccia o no/Nessuno è neutrale, nessuno è innocente e nessuno sarà dimenticato/La fuga dalla realtà non equivale alla libertà/…/Certi uomini vedono le cose come sono e si chiedono perché?/Io sogno le cose come non sono mai state e mi chiedo perché no?/…/Solo tu puoi essere il tuo liberatore/ Solo tu. (There Are No Spectators-1980)

Il Pop Group consisteva nel fatto di crescere collettivamente in pubblico: terminato il periodo della crescita non avevamo più ragione di esistere. Ogni gruppo ha un periodo di vita limitato: abbiamo fatto bene a non oltrepassarlo. (Mark Stewart)

da LFTS n.59

Un silenzio tombale

di Marco Tagliabue

5 gennaio 2015

FRA LIPPO LIPPI
In Silence
Uniton, 1981

Concepito nella glaciale e disperata solitudine delle brume norvegesi, In Silence, opera prima e irraggiungibile del duo scandinavo composto, all’anagrafe, da Rune Kristoffersen e Morten Sjoberg, porta dentro sé, come un macigno, il peso di un isolamento forzato che non è soltanto fattore geografico. Avviluppato in origine in una copertina spettrale, raffigurante un quartetto di scheletri in un lugubre bianco e nero su sfondo azzurro, poi ristampato con veste grafica completamente diversa prima di sparire per almeno tre lustri fino alla recente ristampa in digitale, pubblicata con altro interessante materiale sotto il titolo di The Early Years dalla prestigiosa Rune Grammofon, In Silence è uno dei misconosciuti capolavori del post-punk europeo. Troppo facile bollarlo come semplice clone dei Joy Division o del coevo debutto dei New Order, cui spesso viene accostato: il genio, quello vero, è merce assai rara e di difficile contraffazione. E di genio, fra questi solchi, ce n’è in quantità. Sarebbe rimasto un episodio isolato nella carriera dei Norvegesi, un po’ come Movement per i mancuniani, che avrebbero conosciuto in seguito un discreto successo grazie ad un electro pop più leggero e sofisticato. In Silence è, se possibile, ancora più cupo ed angosciante dei suoi illustri mentori: sembra non offrire speranze né alternative ai suoi tragici scenari, fino a sancire l’impossibilità di un’evasione. Ritmiche scarne, il basso in evidenza, un cantato monocorde e quasi tombale, la chitarra aspra, a tratti metallica. Dall’incipit di Out Of The Ruins, ossessiva e lancinante, alla disperata rassegnazione della conclusiva Quiet, in cui il senso di abbandono diventa radicale e definitivo, attraverso le note inquietanti di A Moment Like This, The Inside Veil e I Know, le cadenze sepolcrali di In Silence e della sua voce perduta nella distanza, la tragica solennità di Recession e Lost, la certezza unica e indissolubile è che non esista via di fuga. Lo capirono anche i due che, già a partire dal successivo Small Mercies (1983) e più ancora da Songs (1985), furono costretti a reinventare il proprio sound abbandonando i ghiacci eterni di In Silence per un pop romantico e struggente che, nei suoi momenti più ispirati, riuscirà a addolcire in parte il rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato.

da LFTS n.86

RIDE – Come un sogno ad occhi aperti

di Marco Tagliabue

7 dicembre 2014

Furono le labbra sensuali di Nastassia Kinski, impresse a fuoco sull’etichetta tonda del vinile, a costituire lo strano lasciapassare dei Ride per il rutilante mondo dell’indie rock d’Albione. Erano avviluppate in un bouquet cartonato di avvenenti rose rosse, la fuorviante copertina del Ride EP che, con i primissimi vagiti dell’anno di grazia 1990, portò per la prima volta il nome della band fra le grinfie di pubblico e media. Fuorviante perché il contenuto del supporto, in effetti, poco rifletteva il romanticismo del suo aspetto esteriore: quattro brani devastanti in cui melodie ora stralunate (Chelsea Girl), ora liriche (Drive Blind, All I Can See), ora semplicemente sublimi (Close My Eyes), galleggiavano indisturbate in oceani di feedback attraversati da densi miasmi psichedelici. Non ancora tantissimo, a ben pensarci, ma già abbastanza da far gridare al miracolo la lungimirante stampa d’oltremanica che, anche in tempi di magra per le chitarre com’erano quelli, non vedeva l’ora di scoprire il vassoio d’argento della next big thing. Stretti in una morsa fra il ricordo, ancora vivido, dei confetti propinati dai Jesus And Mary Chain nel loro prodigioso debutto del 1985 e l’attesa, sempre più asfissiante, del seguito che i My Bloody Valentine avrebbero dato al masterpiece d’un paio d’anni prima, i Ride si trovarono in groppa alla tigre senza nemmeno rendersene conto e, quel che più conta, riuscirono a non farsi disarcionare dai primi calcioni: i cuori in crisi d’astinenza da feedback che rifiutavano a priori i lustrini colorati del carnevale di Madchester già battevano tutti per loro.
Andy Bell, Mark Gardener, Stephan Queralt e Lawrence Colbert si erano conosciuti appena adolescenti fra i banchi dell’Art College di Banbury, provenienti dalla signorile Oxford, e, prima ancora delle pagelle, fu la monotonia di quella vita da reclusi a convincerli ad abbracciare gli strumenti: quando il guru della Creation Alan McGee li vide suonare e decise istantaneamente di metterli sotto contratto non avevano neanche vent’anni.
Dopo il primo posto nelle indie charts inglesi e il ragguardevole traguardo delle oltre ventimila copie vendute, toccò all’impronta suadente delle labbra meno famose di Pamela Bordes e ad un fitto tappeto di gialle giunchiglie primaverili il compito gravoso di annunciare l’estate ed il successore del fortunato debutto. Play EP uscì nei primi giorni di aprile e seppe fare ancor meglio del suo predecessore. Nei contenuti innanzitutto, con le dolci melodie vocali di Like A Daydream, le oscure ed immaginifiche derive psichedeliche della magnifica Silver, le accecanti cavalcate elettriche di Furthest Sense e Perfect Time, perennemente in bilico fra melodia e feedback. E nelle vendite, naturalmente, con la testa delle indie charts ed il sospirato ingresso nei top 40 delle classifiche ufficiali. Il processo di beatificazione giunse al suo naturale compimento nell’arena estiva del festival di Reading: qualcuno sorprese i loro occhi fissi sulle assi del palco e poco ci volle per farne i leader della scena shoegazer, la cui delicata e malinconica vena di autocompiacimento era, tanto per cambiare, quanto di più lontano potesse esserci dall’estetica e dal sound dei quattro Oxfordiani.

Kim Gordon si sarebbe scoperta perfino sex symbol nel vedere, qualche mese più tardi, le proprie labbra marchiare il Fall EP, mentre sulla copertina i consueti temi floreali venivano calpestati da un branco di pinguini nella tormenta. E così, mentre fuori tirava un’aria sempre più pesante e un altro Bush si preparava a scaraventare il proprio arsenale bellico contro lo stesso Saddam, i Ride partorivano un sogno con il loro capolavoro assoluto, la lunga Dreams Burn Down, soave melodia magicamente avvolta da cristalline trame chitarristiche ed improvvisi muri di feedback, regalavano splendide conferme con Taste e Here And Now, comunicavano la loro angoscia con la lunga e sinistra Nowhere, puro delirio psichico in libero vagabondaggio per gli anfratti della mente. Le onde del mare in chiusura del brano, nessuno se lo sarebbe immaginato, avrebbero custodito il segreto di un chiaro segno premonitore.
Già, perché sarebbe stata una delicata increspatura in uno sconfinato oceano carta da zucchero l’immagine di copertina del sospirato album di debutto, Nowhere: un bel colpo d’occhio nei freddi scaffali dei negozi di dischi proprio sul finire del 1990. Dopo tre EP di sconcertante bellezza i Ride erano allo zenith del proprio percorso creativo: i ragazzi ancora non lo sapevano, ma ad appena un anno dall’esordio, dopo i fasti di un’opera prima lungamente attesa e frettolosamente consumata, stavano già per imboccare la parabola discendente. Fuori, del resto, gli Happy Mondays bussavano con sempre maggior violenza: nuovi nomi, nuove note, nuovi sogni e, forse nuovi incubi…la stampa inglese, si sa, ama cambiare i propri cavalli appena dopo avergli dato l’illusione del traguardo.
Preceduto da un altro ottimo EP (Today Forever, 1991), il secondo album Going Blank Again del 1992 rivelava una band ancora in eccellente forma proseguire il discorso interrotto un paio d’anni prima fermandosi, come sempre in questi casi, qualche gradino più sotto, anche per colpa di qualche tentazione smaccatamente pop. Venne il tempo dei primi litigi e di quella che, anche in amore, viene chiamata una pausa di riflessione. Sarebbe stato Carnival Of Light, nel 1994, a segnare una tregua nelle ostilità: un album intriso della psichedelia più tradizionale, con un occhio alla West Coast classica, che avrebbe deluso i vecchi fans senza aggiungerne di nuovi. Tarantula, quarto ed ultimo album uscito nel 1996 dopo lo scioglimento della band, avrebbe fatto ancora di peggio. Forse volutamente, come mi piace sperare, con il malcelato intento di non lasciare troppi rimpianti…

Cerca & Distruggi

di Marco Tagliabue

6 ottobre 2014

Due capolavori del calibro di The Stooges e Funhouse evidentemente avevano dato alla testa anche a lui: nel 1972 Iggy Pop era già completamente svuotato. Aveva mandato al diavolo gli Stooges, aveva mandato al diavolo la musica e, con tutte le sue forze, stava cercando di mandare al diavolo anche se stesso. Ma Lucifero lo precedette: gli si presentò sotto le mentite spoglie di un David Bowie non ancora Duca Bianco, lo raccolse dalla strada ripulendolo dalla spazzatura che aveva addosso e fece del suo meglio per togliergli la maggior parte di quella che aveva in corpo. I due siglarono un patto che doveva essere di un acciaio tutto speciale, visto che ancora oggi, a trenta e passa anni da quel giorno, è saldo più che mai. Bowie spedì l’Iguana in Gran Bretagna insieme al fido chitarrista James Williamson, vecchia conoscenza con un breve trascorso negli Stooges, e gli finanziò la registrazione di un disco attraverso il proprio team di produzione MainMan. Improvvisamente spuntarono fuori anche i fratellini Asheton che rimediarono una tregua con il vecchio amico ed entrarono a far parte del gioco: Ron, spodestato dal nuovo arrivato, a malincuore dovette mettere a tracolla il basso, mentre Scott poté tranquillamente continuare a sfogare la propria rabbia dietro alle consuete pelli. Sarebbe stato un armistizio di breve durata: giusto il tempo di ultimare le registrazioni prima che il buon Iggy, ritornato improvvisamente in se, decidesse di rimandare tutti all’inferno saltando sul primo volo per New York. Raw Power diventò così, inaspettatamente, il terzo album degli Stooges e, soprattutto, il prologo ufficiale di un ‘77 ancora di lì a venire. Raw Power è il prodotto di una mente allo sbando, è il risultato di un degrado che è morale prima ancora che materiale: un disco sporco, tirato, arrabbiato, viscerale. Un album registrato male, cantato male, suonato male ma di una sconsiderata sincerità: anche il peccato può celare una autentica, torbida purezza. Brani grezzi e malati i cui la voce di Iggy, sempre più contorta, ritaglia difficili melodie fra fasci di chitarre lancinanti (Search And Destroy, Your Pretty Face Is Going To Hell, Raw Power, Shake Appeal), un’oasi acustica deturpata dalla sofferenza (Gimme Danger), torbide istantanee di un’apparente, convulsa rilassatezza (Penetration, I Need Somebody) e, infine, l’unico epilogo possibile: una discesa negli inferi, una sorta di autoflagellazione; la ricerca, attraverso la scarnificazione, di una rinnovata purezza (Death Trip). Un disco selvaggio ed estenuante, l’espressione più sincera del dramma psicologico e sociale della generazione che avrebbe rivoluzionato il rock. E l’attestazione definitiva del suo padre putativo: non credete a chi vi dice che il punk è nato con Never Mind The Bollocks…

da LFTS n.67

Bass Culture

di Marco Tagliabue

19 settembre 2014

LINTON KWESI JOHNSON
Bass Culture
Island 1980

Chi lo sa? Forse l’omino stilizzato che scende le scale in copertina, destinato a diventare un’icona del reggae militante in tutto il mondo, è proprio lui. Il poeta, l’intellettuale, il sociologo che punta verso il basso, che non teme di gettarsi nell’arena dei suburb londinesi, i ghetti moderni dove poveri e immigrati sono le prime vittime del neo conservatorismo thatcheriano; che non rinnega la stessa strada, la stessa polvere che tiene ben salde le proprie radici in un altro continente. Nato in Giamaica nel 1952 e trasferitosi a Londra alla tenera età di 11 anni, Linton Kwesi Jonhson plasma la propria coscienza sociale nella giungla urbana lungo le rive del Tamigi: laureato, militante nell’organizzazione “Race Today”, opinionista per la BBC che non esita ad affidargli documentari su scottanti temi sociali, rende popolare in tutto il mondo la cosiddetta dub-poetry, ovvero l’arte di declamare versi su basi dub e ritmi in levare. La cultura del basso viene dal basso e punta verso il basso: verso le tasche –sempre più vuote- di immigrati e sottoproletari, verso i loro alloggi umidi e disadorni, verso quei quartieri fatiscenti che sono le caserme dell’esercito dei diseredati. E’ la voce della Giamaica, quel battito nero in levare che ha già attraversato la white music portando un contributo fondamentale anche alla cultura ed al suono punk. Le otto perle che inanellano questa meraviglia, filastrocche giocose che s’innestano su basi reggae/dub sovente ridotte all’osso, declamate da una voce calda e avvolgente come il sole dei tropici, saranno una droga di cui non potrete più fare a meno. Il reggae si contamina con il dub, amplifica i bassi, scopre echi e riverberi, nasconde qualche piccola manipolazione elettronica in un lungo, libero fluire che culla, ammalia e ipnotizza. La presa di coscienza di Bass Culture, l’amore impossibile di Lorraine, la bandiera strappata di Inglan Is A Bitch: i manifesti di un manifesto che fatica a staccarsi dalla pelle.

da LFTS n.82

The Blue Moods Of Spain

di Marco Tagliabue

12 settembre 2014

SPAIN
The Blue Moods Of Spain
Restless 1995

E’ un disco completamente fuori del tempo The Blue Moods Of Spain. Lo dice l’artwork di copertina, che nei colori, nel soggetto, nella grafica omaggia in maniera fin troppo esplicita certe pubblicazioni cool jazz degli anni cinquanta. Lo dice il titolo che, con disarmante semplicità, presenta al mondo l’universo interiore degli Spain senza far mistero degli umori che racchiude. Che cataloga quel suono come il suono degli Spain e di nessun altro, come se non fossero già passati trent’anni durante i quali il rock ha espresso tutto, o quasi, il suo non infinito potenziale. Eppure, dobbiamo dargliene atto, in un’epoca durante la quale il rock prendeva derive più o meno strane, ma in prevalenza piuttosto rumorose, nulla suonava come questo disco. A parte il silenzio, naturalmente.

E’ un album maledettamente notturno The Blue Moods Of Spain, un’ottima camera di decompressione dopo una serata, o una giornata, sopra le righe: dopo un concerto sparato senza pietà da vecchi Marshall impazziti, dopo una corsa in macchina oltre i limiti del buon senso, dopo qualche eccesso alcolico o amoroso. E’ un disco lento, tremendamente lento The Blue Moods Of Spain, ma non sonnacchioso; un disco malinconico e riflessivo, ma non depresso; un disco umorale, e non dell’umore migliore, ma mai stucchevole; atmosferico ma non umbratile.

Figlio d’arte, il padre è il celebre jazzista Charlie Haden, Josh, titolare del progetto Spain, sposa la causa di un rock più o meno alternativo che dal jazz mutua la precisione di una sezione ritmica placida e solerte, la cassa di risonanza di arrangiamenti ampi e ariosi. Peccato per una voce, la sua, sottile e vagamente rauca, forse non completamente in grado esaltare il grande potenziale espressivo di queste canzoni, ma, credeteci, in fondo è solo un dettaglio. E non il più importante.

Per qualcuno, potrebbe anche essere un disco nobilmente tedioso The Blue Moods Of Spain, per quel lungo viaggio interiore di sessanta minuti senza scossoni o particolari cambi di atmosfera, senza esplosioni ritmiche, assoli fragorosi o impennate vocali. E’ vero, è una musica che non va mai sopra le righe quella di The Blue Moods Of Spain, una catalessi che va affrontata con un preciso stato mentale: se non siete capaci di stare al cospetto di un panorama mozzafiato senza venire assaliti da una tempesta emotiva, se avete paura di affrontare il silenzio temendo di non riuscire a coglierne le infinite sfumature, forse questo disco non fa per voi. Forse. Ma non è mai nemmeno lontanamente monotono The Blue Moods Of Spain, anche se le sue canzoni, pur rimescolando con cura i medesimi ingredienti variandone le proporzioni, pur aggiungendo di tanto in tanto qualche tocco di spezie a conferire quel pizzico di gusto in più che non altera il sapore, procedono invariabilmente nella stessa direzione.

Le corde del basso pizzicate in un giro semplice e ripetitivo, le chitarre a tessere qualche fragile ragnatela, le percussioni timide e mai invadenti, la voce che scava una melodia fragile e magnetica. Molto poco in apparenza, ma non c’è bisogno d’altro per stabilire un equilibrio magico con chi sta dall’altra parte degli altoparlanti, improvvisamente trasportato in una dimensione parallela dalla quale la realtà fuggente di tutti i giorni appare lontana, dietro un vetro, come un brutto spettacolo in televisione, e le ansie, le frenesie, si placano come lo scorrere del tempo. Il tempo, che tutto d’un tratto comincia a rivelarsi prezioso nel susseguirsi di ogni secondo, a rivelare che ogni secondo si può tradurre in emozioni, sensazioni, gioie e paure che valgono la pena di essere vissute, soppesate, bilanciate. Il tempo riacquista la sua dimensione reale, si riappropria del suo valore assoluto in un contesto in cui anche le pause, i silenzi assumono una connotazione diversa e diventano tessere dello stesso gioco.

La voce di Haden, lo abbiamo detto, non possiede doti particolari, ma si abbina in fondo alla perfezione al mood dell’album, intimista, malinconico, dimesso, ma non scevro di una vitalità latente. E’ una voce che accarezza, che avvolge, che riscalda senza cercare di andare oltre i propri limiti, che si fa forte della sua fragilità fondendosi perfettamente con gli strumenti, in uno scambio continuo di energia e passione. Se spiritualità è un termine che non vi fa paura, e che non ritenete fuori moda, fra questi solchi ne troverete a vagonate e magari della specie più genuina, con buona pace degli uomini vestiti in nero e di quello vestito in bianco.

da LFTS n.92

1971

di Marco Tagliabue

19 agosto 2014

Cinque. C’è una terra incantata dove tutto è armonia. Non un suono, non una parola sopra le righe: anche le asperità del territorio e la furia degli elementi sembrano smussarsi in un equilibrio magico e quasi innaturale. Un mondo rassicurante dalle tinte pastello: come il rosso dell’amore ed il nero della morte ogni colore sembra sfumare nei toni più concilianti del rosa e del grigio. Minuscole abitazioni custodiscono il segreto di hobbit misteriosi mentre, minacciosa, la sagoma di un castello si staglia solitaria sulla rupe più inaccessibile. Chi è riuscito a lambirne le mura ha narrato di suoni che ammaliano come il canto delle sirene. Poi ha provato a spingersi ancora più vicino.  Caravan-In The Land Of Grey And Pink.

Quattro. Sapevo che non avrei dovuto aprire quella porta, ma ero un bambino maledettamente curioso. Tra provette, alambicchi e buffi marchingegni quei barattoli che custodivano strani organismi. Provai paura e ribrezzo, ma non me ne andai. Quell’orecchio umano immerso nel liquido amniotico pareva sentire ancora la vita. In un tetro gioco provai ad accostarlo al mio. Una goccia sembrava scandire l’eternità. Suoni lontani sempre più presenti. Mi avvolgevano come le spire di un serpente. Ero completamente prigioniero. Ero testimone del mistero della creazione: primati in lotta, strani uccelli preistorici, creature mai viste. All’improvviso quegli esseri alieni… Poi ancora quella goccia e la meravigliosa armonia del creato in un’esplosione di luci e colori. Quella goccia… Un rivolo mi scese dal viso lungo tutto il corpo con una scossa. Mi svegliai.   Pink Floyd-Meddle.

Tre. La signora di Formentera ha fianchi morbidi e sinuosi. Capelli corvini, labbra carnose e lineamenti pronunciati. Indossa un vestito rosso fuoco che la fa sembrare ancora più pallida. Il vecchio marinaio ogni sera ha una storia diversa. Le sue mani, consumate dal mare e bruciate dal sole, sembrano parlare. Il suo viso è una maschera impenetrabile. Ogni uomo è un’isola. Ogni uomo è una stella. Ogni stella è un’isola. Sono perduto di fronte all’immensità dello spazio, fra migliaia di arcipelaghi di nebulose lontane: latitudini e longitudini che rimarranno per sempre inviolate. Con la mente le percorro in lungo e in largo cullato dalle note più dolci che essere umano abbia mai udito. E il Paradiso sembra proprio li a due passi.   King Crimson-Islands.

Due. Non è facile crederlo per voi umani, ma c’è un angelo ad ogni angolo di strada. E’ troppo comodo pensare che gli angeli non hanno sesso, non hanno cuore, non hanno respiro: provate voi, anche solo per un attimo, ad incrociare lo sguardo di quella ragazza. Sentii il sangue che ricominciava a circolarmi nelle vene, ma il cervello era rimasto per troppo tempo senza ossigeno. Sprofondai negli abissi della pazzia: un angelo del male ed il suo trofeo irraggiungibile. La seconda morte non conduce in alcun porto: il mio essere è destinato a vagare per l’eternità fra sofferenze indicibili. Chi si è divertito a mischiare le carte? Chi mi ha trasformato in una pedina nella folle arena dei sentimenti?   Van Der Graaf Generator-Pawn Hearts.

Uno. Play me my song… Here it comes again… Quel vecchio carillon era l’unico punto fermo della mia esistenza. La sua fragile melodia ha guidato i miei primi passi, mi ha preso per mano nei momenti di sconforto. Dolce e rassicurante, era il volto di mia madre, il braccio forte di mio padre. Così li immaginavo, così li avrei voluti. D’improvviso quell’orribile sfregio… Qualcuno ha fatto a pezzi il mio carillon. Il volto della vecchia tata ha una smorfia strana, un’espressione che non avevo mai visto. Quel volto è la maschera della follia. Quel volto ora è una maschera di sangue. Il mio sangue.   Genesis-Nursery Cryme.

da LFTS n.71

FreaKraut – 6. KLAUS SCHULZE

di Marco Tagliabue

15 giugno 2014

 

Strano destino quello di Klaus Schulze: sembra che il Gran Cerimoniere, più cinico e baro che mai, si sia divertito a mischiare le sue carte con quelle dei vecchi compagni per un breve tratto di cammino, i Tangerine Dream, arrivando perfino a sovrapporre, senza la benché minima sbavatura, due parabole artistiche con la stessa apertura ed il medesimo grado d’inclinazione.  Due percorsi che hanno una comune origine e, purtroppo, anche il medesimo punto d’arrivo (Schulze, lo ricordiamo, mosse i propri primi passi in maniera professionale nella formazione dei Tangerine Dream che diede alle stampe il debutto Electronic Meditations, prima di mettere lo zampino nei vagiti spaziali degli Ash Ra Tempel e prima ancora di decidere che, in fondo, chi fa da se…). Da audaci sperimentatori a docili figli del compromesso, da grandi innovatori a prigionieri compiaciuti delle gabbie dorate di un genere che doveva essere punto di partenza e invece si è trasformato, per entrambi, in un insieme di formule vuote, consunte, ripetitive, incapaci di fornire nuove prospettive ad un fertile terreno di ricerca. Una guerra dei bottoni che si aggiudica, ai punti, il protagonista di queste nostre quattro righe, che meglio ha saputo conciliare, specie nei momenti in cui la propria ispirazione già cominciava a puntare verso il basso, le esigenze del portafoglio con quelle di una creatività ancora non del tutto sopita.

Schulze è l’alfiere teutonico che meglio capitalizza, all’interno della propria formazione musicale, l’abbinamento fra cultura classica ed avanguardia contemporanea: i suoi campioni sono Bach, Mozart e Wagner, simbolo della potenza espressa dalla musica, ma anche Stockhausen, Ligeti, Cage e tutta la corrente minimal-elettronica. Le sue partiture elettroniche si sviluppano attraverso trame liquide e dilatate costruite sulla reiterazione di pochi, maestosi accordi ed avvolte in atmosfere eteree ed oniriche, in una dimensione di sogno che, nei momenti migliori, sfocia incontrollata in quella dell’incubo. Le sue caratteristiche sono le note prolungate all’infinito (ottenute, si dice, ponendo dei pesi sulle tastiere) e le linee ipnotiche degli avamposti del suo arsenale bellico: sequencer, moog, sintetizzatore… 

Irrlicht, opera prima e vertice assoluto della discografia di Schulze, irrompe con tutta la propria forza nel già ribollente mercato tedesco nell’aprile del 1972. Una “Sinfonia quadrifonica per orchestra e macchina elettronica”, come recita il sottotitolo, divisa in tre movimenti lungo cinquanta minuti di scandaglio nella coscienza.  Ebene, la prima e più affascinante delle sue parti, nasce sulle note indistinte di vari sibili elettronici in un crescendo di pathos e di tensione che prepara l’ingresso degli archi. Sono violini lontanissimi che si fanno sempre più vicini sulle ali di struggenti melodie, fino a mischiarsi con i riverberi delle macchine in una progressione a fasce di caos controllato. Il terreno è ormai pronto per l’ingresso del protagonista, l’organo a canne, che intona un crescendo mistico e claustrofobico al tempo stesso che sembra non riuscire a trovare pace in una qualsiasi via di fuga. Sono una quindicina di minuti che sfiorano l’eternità: gli accordi dell’organo si fanno sempre più opprimenti e pesanti, l’ansia si fa quasi dolore fisico e la progressione incalza fino a diventare insostenibile. Solo un’esplosione può lenire questo tormento ed è il bang delle macchine elettroniche che segna l’inizio di Gewitter, il secondo movimento, il momento della stasi segnata dai riverberi elettronici del dopo bomba prima che il passo conclusivo, Exil Sils Maria, conduca lentamente e dolcemente al Nulla eterno attraverso suoni rarefatti, cadenze ipnotiche che si fanno sempre più sottili fino a addivenire al Silenzio, alla Morte. E’ la Irrlicht, finalmente, la luce inquietante che attende alla fine del viaggio, il faro che guida nella sua direzione, verso una salvezza che –forse- non era quella sperata…  

Schulze avrebbe replicato, da un gradino appena più basso, solo un anno dopo con Cyborg, album doppio diviso in quattro suite di venti minuti ciascuna, Synphara, Chromengel, Conphara e Neuronengesang, che raccolgono i resti dell’astronave per una nuova odissea nello spazio interiore.  Poi un rapido declino che prende le mosse da Picture Music (1975), esplorando territori via via meno accidentati che assisteranno, nel corso degli anni, all’introduzione di soluzioni ritmiche sempre più vivaci e, perfino, di una voce solista. Fra i lavori più significativi segnaliamo Timewind (1975), la sinfonia dedicata a Richard Wagner, e X (1978), in cui ogni suite è dedicata ad un personaggio famoso del passato. Ma rimangono, purtroppo, solo due piccole asperità in un panorama sempre più piatto.

da LFTS n.70

FreaKraut – 5. TANGERINE DREAM

di Marco Tagliabue

21 aprile 2014

Non sono certo i jolly del mazzo ma, nel bene come nel male, rappresentano l’icona del kraut rock nella sua accezione più classica: quella di una musica cosmica (termine in effetti coniato in riferimento al loro Alpha Centauri) di esclusiva matrice elettronica. “Noi non avevamo l’attitudine per il rock’n’roll o per il blues… Cosa puoi fare quando sei costretto a girare intorno a qualcosa che esiste già senza avere la minima possibilità di sfiorarlo? In quel tempo Clapton impazzava con i Cream ed Hendrix era il più grande. Con quale coraggio un ragazzo tedesco poteva imbracciare una chitarra e cercare di suonare come loro? Sarebbe stato semplicemente ridicolo…” (E. Froese).

I Tangerine Dream sono titolari di una discografia sterminata che, ahimè, ha per grandissima parte giustamente alimentato la tremenda fama che il gruppo gode da almeno venticinque anni a questa parte. Ancora più di Genesis, Pink Floyd e Co., sono proprio loro la specie di dinosauri contro la quale il punk ha scagliato i suoi meteoriti più distruttivi e, in verità, anche senza la rivoluzione settantasettina, molta della musica prodotta dal gruppo dalla seconda metà degli anni settanta in poi risulterebbe inascoltabile senza la precisa volontà di perdersi in onanistiche celebrazioni di gigantismo ed autocompiacimento in insipida salsa elettronica. Non è solo per la cronica mancanza di spazio, quindi, se concentriamo la nostra attenzione sugli esordi e sui lavori del periodo più creativo dei Tangerine Dream, che iniziano la propria parabola discendente nel 1973 con la pubblicazione dell’album Phaedra: per tutte le uscite successive, fatte salve pochissime eccezioni, basterà pescare a caso una carta nel mazzo per avere un’idea del contenuto di tutte le altre.

La prima formazione del gruppo, attiva già nella seconda metà degli anni sessanta, gravita intorno alle figure di Edgar Froese, chitarre, Klaus Schulze, percussioni, e Conrad Schnitzler, tastiere e violoncello. Froese, che rimarrà nel corso degli anni il pilastro intorno al quale si avvicenderanno le diverse line-up, aveva già vissuto i propri cinque minuti di celebrità con The Ones, band giovanile dedita ad un acerbo acid-rock in grado di vantare un’esibizione in occasione di una mostra di Salvador Dalì. Anche se nessuno si ricorda come, i nastri di quello che sarebbe diventato Electronic Meditations, album di debutto dei Tangerine Dream, giunsero nella casella di Rolf Ulrich-Kaiser che, eccitatissimo, non ci pensò due volte prima di offrire al gruppo un contratto con la propria OHR, etichetta di riferimento della nascente corrente teutonica. Il lavoro, che esce nel 1970, è sicuramente il più atipico, e per certi versi il più interessante, dell’intera discografia della band. Intriso degli aromi della psichedelia floydiana periodo A Saucerful Of Secrets/Ummagumma, ma con più di un punto di contatto con le avanguardie lisergiche d’oltreoceano dei Red Crayola di The Parable Of Arable Land, si sviluppa lungo una serie di improvvisazioni che si materializzano fra chitarre distorte, percussioni selvagge e torture operate su un violoncello elettrificato. Schulze se ne andrà subito per formare gli Ash Ra Tempel, altra esperienza lampo prima di intraprendere una faraonica carriera solista, e Schnitzler arriverà ai Kluster attraverso l’esperienza Eruption: Froese sarà costretto a reclutare i due sostituti nelle figure di Steve Schroyder, sintetizzatore, e dell’ex Agitation Free Chris Franke alle percussioni, per non chiudere anzitempo l’esperienza Tangerine Dream.

La nuova formazione, che tradisce una spiccata vena avanguardistica con il celebre Flipper Konzert, esibizione per strumenti elettronici e sei flipper amplificati, arriva nel 1971 alla pubblicazione di Alpha Centauri. L’album, sia a livello grafico che nei titoli delle composizioni, connota ormai chiaramente la nuova dimensione spaziale della musica dei Tangerine Dream, che sembra innalzarsi verso l’infinito attraverso lunghe suite a base di sintetizzatori, chitarre, flauti e cori che nascono come improvvisazioni sulla scia di esperienze come il rock psichedelico, il jazz rock e l’avanguardia colta. Il mondo dell’ignoto, del mistero e della fantascienza sembra avere trovato la propria colonna sonora.

Con il forfait di Schroyder e l’ingresso di Peter Baumann il gruppo compone la propria formazione classica e prende una decisione importante e definitiva, quella di bandire completamente la strumentazione tradizionale ad esclusivo favore dell’elettronica. Zeit (1972) è una lunga sinfonia in quattro movimenti ispirata alle tecniche minimaliste di Stockhausen, Ligeti, Cage. Il suono perde ogni connotazione ritmica e diventa un lunghissimo filo, soffice, etereo, impalpabile, immateriale, che si insinua negli strati più profondi della mente umana. L’ascoltatore, al pari di un corpo celeste che fluttua in un viaggio senza fine nel grande vuoto dell’universo, è immerso in un’atmosfera cupa ed angosciante, in una dimensione senza spazio e senza tempo, nella quale giungono in lontananza dissonanze elettroniche, clangori metallici e timide distorsioni come echi lontani di corpi celesti in movimento, riverberi spaziali di nebulose lontane, sibili di asteroidi impazziti. Note dilatate, lente e maestose al tempo stesso, che pongono l’interlocutore al cospetto di uno spazio infinito, di galassie irraggiungibili come gli abissi della propria coscienza.

Il successivo Atem (1973) prosegue nella stessa direzione elaborando un concetto ancora più avanzato di improvvisazione, distante dalle freakerie di Electronic Meditations come da certe pesantezze dei due album successivi, che si sviluppa attraverso un sound più fluido e spontaneo, privo di forzature e prolissità, con risultati di indubbio fascino e grande perfezione formale. L’ambientazione di fondo è sempre quella dello spazio, ma l’odissea senza fine del capitolo precedente, con i suoi toni sommessi, rarefatti e completamente meditativi, si colora di nuovi ritmi e di sapori più forti, come negli umori quasi apocalittici della progressione iniziale dell’omonima suite, in cui selve di percussioni, cori maestosi e cupi bordoni d’organo sfociano lentamente nella quiete del cosmo. Atem è anche il primo album ad avere un discreto seguito al di fuori dei teutonici confini: disco dell’anno per un John Peel ancora lontano dai fervori del punk, ottiene un’ottima cassa di risonanza in Inghilterra dove l’import mail-order della freschissima Virgin ne distribuisce circa 15.000 copie. Nonostante le prime, acerbe soddisfazioni commerciali è sempre più problematica l’attività live: la musica del gruppo, invero particolare, richiede una predisposizione mentale da parte dell’ascoltatore che è difficilmente conseguibile nei luoghi e dal tipo di pubblico deputati al rock più canonico. Non si contano davvero i concerti sospesi dopo una manciata di minuti sotto un fitto lancio di ortaggi o i danni inferti alla strumentazione elettronica dai fans più facinorosi.

Dopo il largo successo di vendite di Phaedra del 1974, il primo album pubblicato dalla Virgin che nel frattempo ha messo sotto contratto il gruppo, stanco degli atteggiamenti un po’ troppo paternalistici del guru Ulrich-Kaiser, i Tangerine Dream vengono invitati a suonare in una sede più consona al proprio universo sonoro: la cattedrale di Rheims, in Francia. Un concerto davvero memorabile sotto diversi punti di vista, ma più che per l’interesse artistico, accentuato dalla superba presenza di Nico, siamo oggi a ricordarlo per ragioni prettamente di costume, in quanto l’affluenza del pubblico ben superiore alla capienza massima della struttura ed il conseguente malcontento dei numerosissimi esclusi, esternato senza alcun rispetto per la sacralità del luogo, costarono alla cattedrale una cerimonia di purificazione ed ai nostri una scomunica per iscritto dalla penna del Papa, con la diffida di suonare in futuro nelle chiese. Diffida prontamente raccolta dalle autorità della chiesa protestante inglese che, nell’ottica di un passo avanti nei rapporti già travagliati con la Santa Sede, invitarono i Tangerine Dream a suonare l’anno seguente nella cattedrale di Coventry ed in altri luoghi sacri…

Abbiamo detto di Phaedra e del suo largo successo: con questo lavoro inizia l’istituzionalizzazione del sound della band, che abbandona gradualmente le trame intricate delle opere precedenti per introdurre atmosfere liquide ed eteree, solcate da fitte trame ritmiche di stampo elettronico, che convergeranno verso lande via via più quiete, limpide e melodiche nei successivi Rubycon (1975) e Stratosfear (1976) donando ai nostri fama e fortune commerciali ed alla loro musica quel tanto di kitsch da cui avrebbe attinto a piene mani il nascente filone new age. Poi sarebbero venute le numerosissime colonne sonore, dalla prima, il film Sorcerer di William Friedkin del 1977, a quelle di qualche episodio della serie Miami Vice. In seguito sarebbe toccato a Froese, per risollevare le quotazioni del gruppo, arrivare perfino all’impensabile, introducendo il canto nell’album Cyclone del 1978. E poi ancora…lasciamo a voi il piacere della scoperta. Ci preme soltanto ricordare, in chiusura, l’importanza capitale dei Tangerine Dream nell’esportazione del modello tedesco: sono stati infatti la prima band sulla quale una major straniera –la Virgin- ha investito in maniera massiccia con adeguati ritorni economici e ciò ha contribuito, in parte, alle fortune dell’intero movimento. Pur nelle ovvie differenze stilistiche, inoltre, l’uso esclusivo del synth da parte del gruppo ha prefigurato la grande importanza assunta dallo strumento in ambito post-punk e new-wave. Senza contare, infine, che nella nostra musica come nella vita prima o poi tutto ritorna, e tanta parte del filone post-rock ha attinto a piene mani dalla magica odissea della pazza astronave Tangerine Dream.

da LFTS n.70

FreaKraut – 4. POPOL VUH

di Marco Tagliabue

7 aprile 2014

Con un nome preso in prestito dal Libro dei Morti degli antichi Maya, Florian Fricke, critico e regista cinematografico diplomato in pianoforte presso il conservatorio di Friburgo, costituisce il nucleo originale dei Popol Vuh agli inizi del 1969. Sono della partita Frank Fiedler, sintetizzatore, e Holger Trulzsch alle percussioni. Cultore appassionato di civiltà arcaiche e studioso di tematiche religiose, Fricke cerca di trasporre nella sua arte la sacralità delle proprie passioni. Una ricerca di spiritualità che non è figlia della musica classica né, tantomeno, della musica rock: sembra porsi piuttosto ad un crocevia, in un punto di osservazione privilegiato che scandaglia attraverso l’essenzialità di un suono limpido e solenne al tempo stesso le regioni più profonde dell’essere, che attinge direttamente dalla dimensione del sogno, dell’inconscio, dell’impalpabile, dell’irrazionale per spiccare un volo verso l’alto, per tentare il contatto con un’Armonia Superiore.

 

 Un anelito che, pur presente, trasuda ancora a stento da Affenstude, l’album d’esordio dei Popol Vuh pubblicato nel 1971 e troppo comodamente affiliato alla nascente scuola cosmica di Tangerine Dream e Klaus Schulze, ma che libera con decisione la propria forza fin dal successivo In Den Garten Pharaos (1972). Il Giardino Dei Faraoni reca il peso, il mistero e l’inquietudine di una storia millenaria scandita attraverso riti ancestrali, d’antiche divinità che attendono al dogma della creazione, di una natura incontaminata che ne cadenza le tappe con l’armonia dei propri suoni. La title-track, che occupa la prima facciata con i suoi 17’39”, si libera lentamente tra lo scrosciare dell’acqua: un filo di moog si attorciglia nei sensi dell’ascoltatore fino al sopravanzare di un fitto tappeto percussivo; ma il processo di purificazione giunge a compimento poco più avanti, sulle note paradisiache di un piano Fender che volge fin quasi alla fine, prima di essere restituito al silenzio dagli stessi rigurgiti d’acqua che proprio dalla quiete lo avevano strappato.  Ma è Vuh, sul secondo lato, a togliere il fiato e spingere il cuore in gola. 19’58” scanditi da un gong e da un unico, immane ciclo continuo di organo a canne al quale si aggiungono, in un crescendo apocalittico ad altissima tensione emotiva, percussioni, timpani e cori filtrati. Un suono che si fa sempre più pesante e pressante, fino a contorcersi, a mutare direzione, a cercare un’impossibile via di fuga prima di venire gradualmente riassorbito in una dimensione più umana per sfociare finalmente nel nulla eterno, nel silenzio redentore.

Dopo una prova impressionante come In Den Garten Pharaos, Fricke scioglie il gruppo per una breve collaborazione con i Tangerine Dream di Zeit, salvo poi riesumare la vecchia sigla nel volgere di pochi mesi per trasformare il progetto in un ensemble instabile orbitante intorno alla propria carismatica figura. Per il successivo Hosianna Mantra, che uscirà sul finire del 1972, Fricke ingaggia cinque collaboratori di scuola classica: la soprano coreana Djong Yun, Conny Veit (chitarra), Klaus Wiese (percussioni), Robert Eliscu (oboe) e Fritz Sonnleitner (violino). Il lavoro, che contende storicamente a In Den Garten Pharaos  la palma di capolavoro del gruppo, persegue, e porta al massimo grado d’intensità, lo stesso anelito del nobile predecessore, ma sceglie nuove e impensabili traiettorie per portare a compimento il proprio tormentato cammino spirituale. La Messa più sublime dell’intera cultura rock si fonda, innanzitutto, su una completa abiura della strumentazione elettronica. Per celebrare la purezza di un suono che raggiunge un grado d’intensità tale da rasentare la soglia del dolore, Fricke sceglie una strumentazione quasi esclusivamente acustica: piano, oboe, violino, tamboura, oltre alla voce celestiale della Yun ed a qualche nota dolcemente pizzicata sulle corde di una chitarra elettrica. Poi opera una totale scarnificazione del suono e della melodia: poche note preziose e una totale assenza di ritmo per restituire la musica alla sua dimensione più intima e naturale, per innalzarla ad una realtà mistica e sovrannaturale. Hosianna Mantra è il compimento di un cammino che passa attraverso la cultura indiana e quella rinascimentale, i temi barocchi e i canti gregoriani, la musica classica e quella minimalista: la sua influenza, giusto per citare un esempio, su tutta la scuola del cosiddetto folk esoterico (David Tibet/Current 93) sarà fortissima e determinante. L’iniziale Ah si sviluppa intorno ad un tema circolare per pianoforte, cembalo e violini, mentre il successivo Kyrie è un canto sacro dolcemente sussurrato su un fondo di piano, oboe e tamboura. Il brano eponimo fluttua in un’atmosfera via via più onirica e paradisiaca dominata dal tessuto armonico dell’oboe, protagonista anche del successivo Abschied, che richiama quasi temi rinascimentali. In Segnung e Nicht Noch Im Himmel si affidano agli eterei vocalizzi della soprano per portare al massimo grado un afflato celestiale che si fa, nel finale, incanto, visione divina di una grazia celeste cui tendere, finalmente, senza timore alcuno.

In Den Garten Pharaos e Hosianna Mantra saranno destinati a rimanere capolavori ineguagliati anche se Fircke, mai domo, insisterà negli anni successivi con un’intera trilogia ispirata ai testi sacri. Ma Seligpreisung (1973), Einsjager Und Siebenjager (1974) e Das Hohelied Salomos (1975) denoteranno, più che altro, un parziale avvicinamento a schemi più prevedibili ed un progressivo abbandono dell’ispirazione da parte del leader. Andrà un tantino meglio con le numerose colonne sonore per i film del regista tedesco Werner Herzog, Aguirre, Fitzcarraldo, Nosferatu, ma saranno ancora tantissimi i titoli di una nutrita discografia che attraversa, in pratica, tre decadi senza aggiungere nulla di nuovo ad un discorso che, nei suoi temi essenziali, era già stato del tutto sviluppato.

FreaKraut – 3. NEU!

di Marco Tagliabue

5 marzo 2014

Immaginate di piombare nell’anno di grazia 1972 e di rovistare con la consueta bramosia fra le novità discografiche nel vostro bugigattolo di fiducia. Improvvisamente, fra Foxtrot e Fragile, vi capita fra le mani un album che non può fare a meno di attrarre la vostra attenzione. Una copertina completamente bianca sulla quale campeggia –fronte e retro- una grossa scritta trasversale in arancio fosforescente, Neu! Null’altro. Sembra il depliant pubblicitario del supermercato di fronte…che Paul Whitehead o Roger Dean siano andati completamente in acido? Immaginate di essere talmente sprovveduti ed autolesionisti da portarvi a casa quello strano oggetto. E di metterlo sul piatto. Basteranno i primi dieci minuti per cambiare la vostra percezione della musica rock e, magari, anche parte della vostra vita. Hallogallo è una lunga cavalcata giocata sulla cupa progressione di un fitto tappeto percussivo –niente basso, solo una batteria elettronica- stemperata dalle intermittenze lisergiche di una chitarra agile e sinuosa. Sembra strano, ma non c’è un inizio e non c’è una fine, non c’è nemmeno una voce o una parvenza di melodia: solo un vortice di frequenze multicolori che imprigiona fin dalle prime note, fra gioia e tormento, estasi e delirio. Semplicemente, uno dei momenti più alti del (non solo kraut) rock. Poi il suono sembra perdere ogni connotazione, arrivano solo i segnali d’avaria da qualche astronave misteriosa: i corrieri cosmici, evidentemente, stanno cominciando ad andare alla deriva (Sonderangebot). E’ il preludio alle meraviglie di Weissensee. I ragazzi, evidentemente, devono essere un po’ furbi, perché hanno presso Hallogallo, hanno rallentato il ritmo e ne hanno ammorbidito la progressione: le aperture delle chitarre sono più liriche, limpide ed eteree, le atmosfere più dolci e rilassate, ma il risultato è tale da costringere al perdono. Girate il disco. Vi accoglieranno rumori acquatici, vi sembrerà di perfino di udire i gabbiani fra strane astrazioni chitarristiche. Im Gluck è ambient prima dell’ambient ma, appena cominciate a distendervi, un martello pneumatico vi riporta alla realtà. (Si, proprio un martello pneumatico, con buona pace degli Einsturzende Neubauten che pensavano di detenere il copyright!). L’incubo ha un nome, Negativland, e, anni dopo, ispirerà anche la ragione sociale di una band. Ma questo voi, nel 1972, non potete ancora saperlo. Qualche schitarrata, poi un incalzare ritmico preciso ed affilato solcato da chitarre quasi noise. Uno stop fra clangori da catena di montaggio ed un’accelerazione improvvisa, e poi ancora rallentamenti e ripartenze a velocità sempre diverse sulle quali le chitarre continuano a ricamare le loro trame stridenti. Proto-industrial? Lieber Honig chiude l’album con una sorpresa: una voce afona e forzata intona una melodia tenue e dolcissima che sembra voler nascondere a tutti i costi. E’ incastonata fra le frasi asettiche di un organo ed i soliti rumori acquatici, che riportano al silenzio. A questo punto, e poi finiamo il giochino, immaginate di chiamarvi David Bowie e di rimanere folgorati da questo disco. Talmente stregati da mettere in cantiere un viaggio a Berlino dall’amico Brian Eno, già avvezzo a quell’aria da qualche tempo, ed una trilogia che rappresenterà una svolta per la musica rock. 40% del merito ai Neu!, 40% a Bowie e 20% a Eno: le percentuali potete anche cambiarle ma, in ogni caso, è nata la new wave. E, non dimenticatelo, siamo ancora nel 1972.

Neu!, da Dusseldorf, sono Klaus Dinger e Michael Rother, e rappresentano, insieme ai Faust, la frangia più iconoclasta (e più influente) del rock teutonico. Entrambi gravitano nell’orbita dei primissimi Kraftwerk: Dinger è nella line up dell’esordio a 33 giri dei futuri uomini macchina, ma molla tutto subito dopo l’uscita del disco per inseguire la nuova avventura. I due si chiudono in uno studio di registrazione e mettono su nastro la magnificenza di cui vi abbiamo appena reso partecipi in quattro notti, da soli, con il contributo in cabina di regia di Conrad Plank, altro musicista del giro Kraftwerk. Neu! vende abbastanza bene in Germania e in Gran Bretagna ma i due, progetto essenzialmente di studio, non riescono a capitalizzare per la difficoltà di riprodurre le loro sonorità dal vivo. Un tentativo di tour viene in breve tempo abortito. Neu! 2, edito nel 1973, ricicla genialmente grafica e soluzioni strumentali del predecessore. La copertina è identica: sfondo bianco con scritta in grigio e, sovrapposto, un grosso 2 lilla in vernice a spruzzo. Un’abitudine che i nostri manterranno anche nel capitolo successivo, in cui il fondale diventerà nero e la scritta bianca. Fur Immer apre l’album e richiama immediatamente Hallogallo, ne sembra addirittura un rifacimento in chiave quasi pop: il caratteristico incedere ritmico più marcato, qualche cambio di tempo, le chitarre meno estatiche, più dirette ed incisive. Spitzen Qualitat è una danza pagana per la società industriale: le percussioni martellanti scandiscono ritmi tribali, qualche cambio di tempo e disturbi elettronici in sottofondo. Gedenk Minute esibisce, nel lasso di tempo indicato, un rintocco di campane su correnti elettroniche mentre la successiva Lila Engel, che chiude la prima facciata, mostra la consueta progressione ritmica con le chitarre a fare scintille ed una voce sgraziata a scandire il ritmo. Il secondo lato fa letteralmente impazzire lo stereo: siete avvisati quindi, è perfettamente inutile prendersela con il vostro fedele compagno! Neuschnee e Super, già edite su singolo, ritmo marziale con splendidi arabeschi psichedelici la prima e proto techno la seconda, vengono riproposte in tutto cinque volte in versione canonica ed a velocità diverse; in mezzo, strano riempitivo, un estratto di Fur Himmer viene condito da qualche chiacchiera e ribattezzato Hallo Excentrico! Vale a dire come completare una facciata con avanzi e frattaglie manipolando qualche nastro e divertendosi con il cursore della velocità di registrazione: ardita sperimentazione o vuoto creativo? Un giochino, in ogni caso, cui nel futuro avrebbero messo le mani in tanti. Esisterebbe, per la verità, una terza pista che imputa alle voci di un prossimo fallimento della label la necessità per i nostri di affrettare le registrazioni magari, come abbiamo visto, con qualche trucchetto di troppo… Ad ogni modo Neu! 2 è stato ultimato in quattro giorni come il più compiuto predecessore: a questo punto a voi l’ardua sentenza. Molto probabilmente, gusto per la provocazione a parte, ad essere venuta meno è essenzialmente l’ispirazione, tanto è vero che le strade dei due si separano appena dopo la pubblicazione dell’album.

Rother, con il solito Conrad Plank in regia, si unisce a Hans-Joachim Roedelius e Dieter Moebius dei Cluster per il varo del progetto Harmonia, al quale sono ricondotti due album, Musik Von Harmonia (1974) e Deluxe (1975), più orientati al versante cosmico. Dinger, dal canto suo, inizia a confezionare i suoi La Dusseldorf. Ma prima c’è il tempo per un altro miracolo. Il solito Plank riacciuffa i due prima che le rispettive strade si separino definitivamente e, con un organico allargato a Thomas Dinger, fratello di Klaus, e Hans Lampe alle percussioni, Neu! risorge dalle proprie ceneri con una mirabile creazione. Neu! 75 è il disco più compiuto e, forse, il capolavoro della band. E se abbiamo parlato di miracolo non è soltanto per usare i soliti superlativi: è perché tale compiutezza sembra altamente improbabile, se non impossibile, se si pensa che i due -che vivono un po’ da separati in casa- non si vogliono affatto bene. Le due facciate dell’album, in ognuna delle quali è ben evidente una distinta paternità, quella di Rother e dei suoi Harmonia nella prima e quella dei futuri La Dusseldorf nella seconda, sono lì apposta a dimostrarlo. Eppure Neu! 75 è il disco nel quale l’anarchia dei capitoli precedenti si sviluppa finalmente in un senso compiuto, nel quale il duo, in punto di morte, scopre la quintessenza del proprio suono. Isi ha l’incedere ritmico tipico dei Neu! ed una melodia pianistica alla quale fanno da contrappunto le frasi del sintetizzatore: il culmine dell’armonia e del buon gusto nella storia della band. Seeland rallenta il tempo, una chitarra traccia algide linee lisergiche attorno alle quali ruota la sezione ritmica mentre il synth, senza disturbare, emerge a tratti. In Leb Wohl pioggia e sciabordii marini (un tema ricorrente, lo abbiamo visto) cullano una melodia pianistica alla Satie con un tenue cantato ed un filo d’organo in sottofondo: i Neu! sembrano prossimi al silenzio. Ma è mera illusione… Sulla seconda facciata, in Hero e After Eight, i due si fanno improvvisamente cattivi: è il krautrock punkizzato, erano gli Stooges e saranno i Sex Pistols, un’immensa forza centrifuga dalla quale nasceranno anche gli Ultravox! che, non a caso, hanno un punto esclamativo in comune con i nostri. In mezzo i dieci minuti di E-Musik, teutonica confusione fra ritmi meccanici e perversi che sfociano, nel finale, in una breve melodia pianistica sormontata da fruscii elettronici e da un canto d’oltretomba. Ora è veramente la fine. Mentre Rother, terminata l’esperienza Harmonia, si accontenterà di una carriera solista di secondo piano, Dinger, con il fratello Thomas e Hans Lampe, più il contributo esterno di Nikolaus Van Rhein alle tastiere e del bassista Harald Konietzko, pubblicherà nel 1976 l’omonimo debutto dei La Dusseldorf, al quale faranno seguito Viva, nel 1978, e Individuellos nel 1980. Tutte opere che, nelle pagine migliori, contaminano l’incedere selvaggio dei Neu! con temi più lirici ed impressionisti. Ci sarà infine il tempo di scoprire, a metà anni novanta con la pubblicazione postuma di Neu! 4, che i due avevano provato a far la pace fra il 1984 ed il 1985. Ma, ahimè, senza troppa fortuna ed ancor meno passione.

da LFTS n.70

FreaKraut – 2. CAN

di Marco Tagliabue

25 gennaio 2014

Stanno ormai già veleggiando intorno alla trentina quando, sospinti da un irrefrenabile e misterioso impulso, Irmin Schmidt e Holger Czukay, decidono di costituire una rock band per portare un po’ di sconquasso in un mondo a loro perfettamente estraneo. Siamo intorno alla fine degli anni sessanta e per i due l’età delle ragazzate è finita da un pezzo. O forse, pensandoci bene, non è ancora cominciata… Schmidt è già un affermato direttore d’orchestra: allievo di Stockhausen, di Berio e di Ligeti, è ancora fresco di un soggiorno a New York che ha sancito gli stretti legami della sua arte con La Monte Young, Terry Riley e Steve Reich e che, al tempo stesso, ha portato quasi certamente i suoi malcapitati passi nei vicoli poco ortodossi frequentati dai Velvet Underground. Czukay, vecchio compagno di corso sotto la bacchetta del professor Stockhausen, ha avuto una formazione diversa, più improntata al jazz in qualità di chitarrista della Holger Schuering Jazz Band prima di volgere all’insegnamento del pentagramma in terra elvetica. Sarà proprio un vecchio allievo di Czukay, Michael Karoli, artefice tra l’altro della conversione al rock dell’attempato maestro nel segno di qualche ascolto clandestino di Velvet, Hendrix e Zappa, a raccogliere la chitarra nell’entità nascente consentendo allo stesso Czukay di spostarsi al basso. Completeranno il quadro Jaki Liebezeit, solido batterista jazz con gloriosi trascorsi alla corte di Chet Baker, pronto a mollare un tranquillo impiego nel Manfred Schoof Group, e Malcolm Mooney, scultore nero americano di ritorno dall’India con la giusta dose di misticismo ed i favori di Buddha nelle corde vocali.

Qualche conoscenza, si sa, rende la vita meno attraente ma semplifica spesso le cose. Grazie ad un anonimo mecenate, che offre loro la possibilità di installare uno studio di registrazione in una sala del castello di Schloss Norvenich di sua proprietà, i nostri possono jammare fino ad essere sopraffatti dal sonno in piena libertà e senza l’assillo di un affitto da pagare. Sarà la maniera ideale per sviluppare la conoscenza reciproca e, magari, qualche qualità extrasensoriale che si rivelerà indispensabile nella creazione di un nuovo concetto d’improvvisazione: “Niente è pianificato, sia in studio che sul palco. Tutti nel gruppo sono telepatici. Non c’è niente di particolarmente misterioso nella telepatia, è qualcosa che riguarda ogni giorno ciascuno di noi. Come qualsiasi altra cosa, necessita di allenamento: quando raggiungi un certo livello di telepatia devi sviluppare il gradino successivo. E’ quello che io chiamo il punto critico, ed è alla base della creatività.” (Schmidt).

Il primo esito concreto di queste sessions infinite sono dieci minuti di pura anarchia sonora che prendono il titolo di Get The Can: un biglietto da visita talmente scomodo ed imbarazzante da costringere la meteora David Johnson, flautista di estrazione classica orbitante intorno al primo nucleo del gruppo, a partire alla ricerca di qualche via lattea un tantino più armoniosa. E così, punto critico dopo punto critico, il 1969 saluta la pubblicazione di Monster Movie, debutto a 33 giri dei Can. Originariamente edito in una tiratura assassina di 500 copie per la piccola Music Factory, label privata della band, e prontamente ristampato dalla United Artists, che nel frattempo ha messo sotto contratto il gruppo, Monster Movie paga pegno alla psichedelia più classica di Pink Floyd e Co., ma esprime già pienamente le linee essenziali del sound in via di definizione. Nelle cadenze ipnotiche e ossessive del lungo mantra tribale You Doo Right, che monopolizza il secondo lato all’insegna di un nuovo concetto di suite, più affine agli standard del minimalismo e del concetto di reiterazione, ma anche nei toni lirici della sublime ninna nanna lisergica di Mary, Mary, So Contrary, nelle linee scarne dell’ipnosi iniziale di Father Cannot Yell, in cui le sferzate della chitarra di Karoli fanno il paio con i registri cupi dell’organo di Schmidt in un crescendo ad alto tasso emozionale, e nei ritmi più rock della velvettiana Outside My Door.

Non lo abbiamo ancora detto, ma tutto sembra ruotare intorno alla voce di Mooney, vero e proprio raccordo per gli strumenti ed elemento trainante della band. Monster Movie sarà anche il suo testamento: la sua mente sempre più instabile e la vera e propria ossessione che la sua visibilità in quanto membro dei Can possa in qualche modo allertare le patrie Forze Armate per un richiamo in Vietnam già più volte scampato, lo costringeranno a fare armi e bagagli per tornare in America dove, riacquisita una certa tranquillità, potrà dedicarsi ad un più anonimo insegnamento nelle facoltà artistiche. Avete presente i due terribili vecchietti del film Una Poltrona Per Due che raccolgono dalla strada uno straccione per scommettere sulla sua abilità come agente di borsa? E’ più o meno quello che succede a Liebezeit e Czukay allorché quest’ultimo, seduto al tavolo di un caffè di Monaco e attratto dalle litanie offerte a chissà quale divinità pagana da un artista di strada dalle fattezze orientali, indica in lui all’incredulo amico il prossimo cantante dei Can, che saranno oltretutto in scena quella sera stessa in un club della città. Perché no? Questa sera non ho niente da fare… sarà la risposta di Damo Suzuki che, nell’esibizione serale al Blow Up, con una performance che dagli iniziali toni meditativi si trasformerà in un vero e proprio assalto contro il pubblico inerme, riuscirà a svuotare anzitempo un locale che contiene 1500 persone…: tra i 60 entusiasti che assisteranno fino alla fine del concerto la leggenda, pensate un po’, segnala anche l’insospettabile profilo hollywoodiano di un incredulo David Niven!

L’esame, naturalmente, potrà dirsi brillantemente superato e Suzuki il dono della Provvidenza che eserciterà un peso decisivo nei successivi momenti chiave della storia dei Can. Momenti che, dopo l’interlocutorio Soundtracks (1970), che merita comunque di essere ricordato, quantomeno, per la magnifica Mother Sky, assumeranno le fattezze di quel vero e proprio caposaldo dell’Arte del novecento che sarà il successivo Tago Mago (1971). Monumentale sia nella forma che nella sostanza, Tago Mago è, al pari di Trout Mask Replica o White Light/White Heat, una delle opere più innovative ed influenti della musica, non solo rock, del ventesimo secolo. Punto. Figlio della musica colta di Stockhausen e La Monte Young, ma anche della psichedelia e delle musiche etniche, del rock blues, della contemporanea e del free jazz, l’album si snoda attraverso quattro facciate che anticiperanno molte delle tendenze a venire: dalla new wave alla musica industriale, da certa elettronica alla neopsichedelia. La catarsi è lenta e graduale, comincia dalle linee, ancora amiche, di Paperhouse, sorta di folk del dopo bomba dalle atmosfere struggenti e rassicuranti, per sprofondare nelle tonalità alienate e psicotiche di Mushroom e nel raggio di sole dopo un temporale estivo di Oh Yeah. Ma la discesa agli inferi è ormai irreversibile. Halleluwah e Augmn occupano per intero la terza e la quarta facciata. La prima, con le sue linee di basso vagamente dub, con le sferzate nervose della chitarra di Karoli, con il drumming metronomico di un virtuosissimo Liebezeit, con le dissonanze vocali di uno strambo Suzuki, oltre ad essere –in sé- una grande opera di musica contemporanea, prefigura con incredibile esattezza Metal Box dei PIL, ma anche Wire, Devo, Fall, Pop Group. La seconda, agghiacciante viaggio nel delirio di una mente umana a base di soluzioni sempre più ardite ed epilettiche, in un crescendo spasmodico verso un finale caratterizzato da inserti rumoristici e di musica concreta, sarà un inevitabile terreno di prova per la corrente industrial e lascerà un’impronta indelebile su esperienze del calibro di Residents, Sonic Youth, Cabaret Voltaire. Chiudono il lavoro i vocalizzi in salsa free jazz di Peking O ed il clima più rassicurante nella nenia psichedelica di Bring Me Cofee Or Tea.

Il poco spazio che rimane ci impone di passare con un bel paio di cesoie su un altro paio di capolavori, quali i successivi Ege Bamyasi (1972) e Future Days (1973), e sul comunque più che dignitoso Soon Over Babaluma, che esce nel 1974 dopo la conversione di Suzuki al culto dei Testimoni di Geova ed il conseguente abbandono dei Can, regalando ai superstiti l’illusione di poter proseguire come se nulla fosse agli abituali, elevatissimi standard. Ege Bamyasi varca territori molto meno accidentati rispetto all’illustre predecessore e viene ricordato in particolar modo per il brano che lo chiude, Spoon, che raggiungerà addirittura il primo posto nelle classifiche tedesche grazie al traino di una popolare serie televisiva. Future Days e Soon Over Babaluma, il secondo con Karoli e Schmidt che si alternano –senza troppa fortuna- alla voce, sono lavori di fattura più squisitamente elettronica, caratterizzati da un sound più mellifluo ed etereo che, dopo aver esplorato gli abissi della pazzia, pare quasi voler riappropriarsi della quotidianità, del gusto della normalità. Esemplari, in questo senso, la suite Bel Air, che occupa il secondo lato di Future Days, e Come Sta La Luna o Quantum Physics, dal successore. Per noi solo il tempo di dire che la storia dei Can che più ci stanno a cuore finisce qui: ci sarà spazio anche per altri lavori, progressivamente più inconsistenti, e per una dignitosa reunion nel 1989 con Mooney alla voce per l’album Rite Time. Della pletora di pubblicazioni postume che scavano negli archivi della band, citiamo infine gli imprescindibili Delay 1968 (1981) e Unlimited Edition (1976), che documentano, fra l’altro, gli esperimenti pre Monster Movie.

da LFTS n.70

FreaKraut – 1. FAUST

di Marco Tagliabue

1 gennaio 2014

 

Non doveva essere un posticino tanto tranquillo la Germania a cavallo fra i sessanta ed i settanta, e non soltanto per le questioni prettamente musicali che stiamo indagando in queste pagine. “Una mattina ci svegliammo e trovammo Wumme completamente circondata da poliziotti in assetto da guerra, con cani e mezzi blindati ovunque. Io mi ritrovai con un fucile puntato alla testa e l’ordine di non muovere un dito. All’inizio pensai ad uno scherzo, ma quelli avevano l’aria di fare maledettamente sul serio. Era davvero terrificante. Sembrava di essere in un brutto film dal quale non potevi fuggire”. Così Jean-Hervé Peron, bassista e membro fondatore dei Faust, ricorda i giorni spensierati trascorsi in magica armonia fra arte e natura nella comune di Wumme, il vecchio edificio scolastico che la Polydor aveva messo a disposizione del gruppo per assecondarne la fervida creatività. Non si è mai fatta abbastanza luce, del resto, sulle presunte connivenze fra Uwe Nettelbeck -creatore, produttore e manager dei Faust- con le cellule terroristiche del movimento Baader-Meinhof che, proprio in quei giorni, stavano cominciando ad esportare in tutta Europa il loro tragico modello. “Non c’è dubbio –è ancora Peron a parlare- che vi erano rapporti fra Uwe e gli uomini della Raf (Red Army Faction). Mi ricordo vagamente di certi strani personaggi che non avevano nulla a che fare con la musica. Andavano e venivano con la massima tranquillità, come se avessero legami ben precisi con qualcuno di noi”. In ogni caso, nella loro tragica messa in scena, i solerti tutori dell’ordine che avevano rotto il magico equilibrio di quel mattino a Wumme non erano poi andati così lontani dalla realtà, perché i Faust sono davvero il braccio armato del krautrock: il gruppo più estremo, più eversivo, più corrosivo, più anarcoide, più incontrollato ed incontrollabile.

Dei veri e propri terroristi sonori, insomma, sui quali ancora oggi aleggia un folto alone di mistero: poco o nulla è trapelato per anni sulle loro origini e sui loro particolari biografici. Di valore incommensurabile –invece- ciò che hanno raccontato i loro dischi ad intere generazioni di musicisti e di semplici appassionati. A quelli, almeno, che hanno saputo scavare così in profondità per vincere i numerosi ostracismi che -almeno fino alla metà degli anni novanta, all’epoca del glorioso ritorno sulle scene- hanno avvolto e fomentato una delle realtà più luminose e misconosciute della musica rock. Fra le teorie che circondano la nascita del gruppo sembra ormai aver preso piede quella che vuole i Faust una sorta di creazione a tavolino di Uwe Nettelbeck, giornalista/editore incaricato dalla Polydor di scovare una band underground che potesse rivaleggiare con gli astri nascenti del krautrock per tappare una vistosa falla nel catalogo della label. E pare proprio che questo McLaren ante-litteram si sia subito dimostrato all’altezza del compito affidatogli, confezionando su due piedi la band, ideando per il debutto una delle creazioni grafiche più celebri della storia del rock (la confezione in vinile trasparente con la busta –altrettanto trasparente- sulla quale è impressa la radiografia di una mano, irraggiungibile feticcio per schiere di collezionisti) ed ottenendone la pubblicazione –favore rimasto unico per una band non di estrazione colta- nella prestigiosa collana Deutsche Gramophon, normalmente dedita alla musica classica. Il tutto, naturalmente, in una manciata di giorni e senza alcuno sforzo apparente. “La storia dei Faust è fondamentalmente la storia di due piccoli gruppi tedeschi di stanza ad Amburgo, di un uomo –Uwe Nettelbeck- e di una situazione sociale, l’Europa del 1968. C’era un nucleo di persone che produceva musica per cineasti underground come Helmut Costa e Hans Hemminghaus. Un giorno arrivò Uwe e, insieme ad Helmut Costa, disse che stava cercando un nuovo gruppo per qualcosa di nuovo sulla scena musicale. Helmut, che era un mio vicino, ci mise in contatto con Uwe. Uwe ascoltò un nostro demo ma, a suo parere, ci voleva più ritmo e ci volevano più tastiere, così contattammo un altro gruppo dicendo che avevamo bisogno di un batterista. In questo modo fondammo i Faust. Rudolf Sosna, Gunther Wusthoff ed io eravamo nella  prima band, Werner Diermaier, Joachim Irmler e Arnulf Meifert nell’altro gruppo. Ci chiudemmo in uno studio per mezza giornata e reincidemmo il nostro demo. Uwe disse ‘E’ perfetto’ e lo consegnò alla Polydor”  E poi saranno gli anni di Wumme, celebrati proprio allo scoccare del nuovo millennio dal cofanetto antologico The Wumme Years 1970-1973. Ricorda ancora Peron: “Eravamo come in un monastero. Stavamo per mesi senza televisione o radio e solo Joachim ascoltava altra musica. Non era facile vivere sempre insieme, con chi si amava e con chi si odiava, senza la possibilità di andarsene. Ma quando eravamo fuori non vedevamo l’ora di tornare a Wumme”. E ancora: “Werner passava la maggior parte del proprio tempo a letto, come del resto facevano quasi tutti gli altri… Ma andava bene così  perché i fili dei microfoni salivano dallo studio di registrazione al piano terra su per le scale fino alle camere… Spesso registravamo proprio a letto, sdraiati, con le cuffie in testa…”

Faust, noto anche come Faust Clear per la celebre confezione, esce finalmente nel 1971 con un sottotitolo –che aggiungiamo noi e certo non sarebbe guastato- come l’immaginazione al potere. E’ un’opera composta da tre movimenti, non osiamo definirli canzoni, all’insegna dell’improvvisazione e di un caos controllato, un azzardato ma riuscito connubio fra certi collage zappiani, Captain Beefheart, i Velvet Underground ed il teatro di Brecht, le allucinazioni di Stockhausen, il melodramma di Wagner. Why Don’t You Eat Carrots? apre l’album fra dirompenti effetti elettronici ed i frammenti nascosti (adesso si direbbero campionamenti…) di Satisfaction e All You Need Is Love a chiudere fin dall’inizio i conti con la tradizione. Poi uno strano insieme di dissertazioni pianistiche, fanfare circensi, fiati di estrazione jazz, dialoghi, canti stralunati e recitazioni surreali mentre, sullo sfondo, impazza una chitarra elettrica ed il synth rigurgita le proprie nefandezze. La successiva Meadow Meal prosegue all’incirca sugli stessi binari con un morbido arpeggio chitarristico dal quale si staglia perfino un tentativo di canto. Poi un’apertura strumentale di impalcatura progressive con la chitarra in primo piano, mentre gli scrosci di un temporale introducono la chiusa affidata ad un organo di chiesa ed alla sua lugubre preghiera. Qualche indicazione maggiore la fornisce allora Miss Fortune, ritmica serrata all’inizio, con tastiere e chitarre che si rincorrono in vaste dilatazioni psichedeliche. Poi tutto si ferma e le distorsioni di una chitarra ritornano dall’aldilà creando una zona d’ombra dove una voce stolta si può esercitare fra violenti percussionismi. E’ il preludio ad una nuova esplosione strumentale dominata dagli svolazzi del synth, mentre voci sconnesse ritornano a parlare su brevi divagazioni pianistiche. Il finale degenera con un synth impazzito prima che qualche attimo di silenzio introduca un morbido arpeggio di chitarra sul quale due voci, a canali alternati, recitano una fiaba medievale che inizia con “Are We Supposed To Be Or Not To Be” e termina con “Nobody Knows If It Really Happened”. Due frasi che, senza scomodare tesi di Laurea, racchiudono lo spirito e la magia del disco: una musica che, forse, ci è solamente sembrato di ascoltare e che, riaperti gli occhi, non sappiamo se collocare nella dimensione del sogno o nella realtà. Come, del resto, la nostra stessa vita: l’apparenza, spesso, inganna.

Il disco passa quasi inosservato in Germania mentre ha qualche riscontro commerciale in Gran Bretagna per merito del solito John Peel, che lo programma spesso nelle sue trasmissioni radiofoniche. Sotto la pressione della casa discografica, che spinge per un prodotto più accessibile, i Faust pubblicano nel 1972 So Far, che attenua l’impeto dissacratorio del primo album in una dimensione più compiuta e più vicina alla forma canzone. Già, per la prima volta si può parlare di canzoni e di un album che ha marchiato a fuoco tre decadi di rock alternativo. Dall’iniziale It’s A Rainy Day, Sunshine Girl, battito secco e metronomico, una chitarra sgraziata in sottofondo quale strana ossatura, la melodia cupa e glaciale del canto e le aperture geometriche per tastiere, armonica a bocca e sax, passando attraverso On The Way To Abamae, forse il massimo punto lirico toccato dai Faust, con organo pinkfloydiano, arpeggio acustico e tocchi di flauto e la successiva No Harm, che parte come una parodia di Atom Heart Mother, con una partitura sinfonica dominata da organo e chitarra, per trasformarsi in un funky scatenato con una frase demenziale ripetuta all’infinito da voci sempre più folli “Daddy, take a banana, tomorrow is sunday”.  E che dire della title-track, un rock in tempo medio giocato sul dialogo a distanza fra chitarra e fiati con svolazzi elettronici in sottofondo, o delle radiazioni elettroniche dell’assalto al calore bianco di Mamie Is Blue o, ancora, del divertissment finale affidato al jazz da teatrino di avanspettacolo di …In The Spirit? Pagine di testo per generazioni di più o meno folli sperimentatori…

Dopo la pubblicazione di So Far ed alcune importanti collaborazioni fra le quali quella con il violinista Tony Conrad, che frutta il celebre Outside The Dream Syndicate, costituito da due lunghe composizioni nelle quali i nostri forniscono un tappeto ipnotico e percussivo alle elucubrazioni strumentali del maestro, i Faust rompono definitivamente con la Polydor e si accasano presso la nascente Virgin, che aveva già furbescamente orientato le proprie antenne verso il rock teutonico grazie alla distribuzione in Terra d’Albione delle produzioni targate OHR. “Uwe quella volta volle fare qualcosa di diverso, così disse ‘Vi diamo questi nastri per niente, nessun anticipo, ma voi –allo stesso modo- pubblicherete il disco per niente’. Volevamo garantire che non ci avremmo guadagnato niente, così vendemmo il disco al prezzo più basso possibile: vendemmo The Faust Tapes al costo di un singolo, 49 pence”. Potenza del marketing, The Faust Tapes, prima uscita dei Faust in casa Virgin, brucia in poche settimane la tiratura iniziale di 100.000 copie anche se, c’è da scommetterlo, un buon 90% di quegli incauti acquirenti non va oltre la prima facciata e, forse, nemmeno riesce a ultimarne l’ascolto… Peccato, perché The Faust Tapes, costituito da 26 più o meno lunghi frammenti legati in un’unica composizione di tre quarti d’ora circa, li avrebbe edotti sui successivi vent’anni di musica rock: new wave, post rock, industrial, dub, ambient, no wave, free jazz, folk apocalittico, isolazionismo…tutto e più di tutto sembra albergare, indisturbato, fra questi solchi in attesa del più o meno prossimo germoglio. L’essenza, o meglio la summa, dell’arte faustiana.

Sul finire dell’anno (non lo abbiamo ancora detto, è il 1973) esce Faust IV, il nuovo disco ufficiale del gruppo che, sull’onda del buon riscontro commerciale dei Tapes, riesce a vendere quasi altrettanto bene. Merito soprattutto, questa volta, dei suoni più levigati e più vicini alla forma canzone mai prodotti dai Faust, in un lavoro sicuramente valido ma privo di quell’inventiva rivoluzionaria che aveva scosso le produzioni precedenti. Certo non si direbbe, comunque, dall’ascolto dell’iniziale Krautrock, grande classico della band e del rock tutto. Una sorta di Hallogallo (Neu!) che vira verso la claustrofobia pura: questa volta i corrieri cosmici sembrano andare verso l’inferno. Il lato più cupo, malato ed angosciante del krautrock: un vortice psichico, un trip lisergico che sconfina in overdose, una lunga ed ossessionante cavalcata elettronica –costruita sul concetto di reiterazione- in cui il sintetizzatore esala i propri miasmi vorticosi in una irrefrenabile discesa agli inferi. Suscita allora non poco stupore, se non addirittura sgomento, passare subito dopo a The Sad Skinhead, reggae rock semi demenziale, o alla successiva –pur splendida- Jennifer, che si sviluppa da cupe linee di basso e finisce fra fasci di rumore ma, in mezzo, cela la ballata più solare che abbiano mai inciso i Faust. C’è ancora spazio per Just A Second, una sorta di ripresa di Krautrock che sfocia in abrasioni elettroniche, per le digressioni progressive un po’ datate di Picnic On A Frozen River, Deuxieme Tableaux e per le divagazioni folk –altrettanto datate- di Gyggy Smile. Strano per un gruppo che non si è mai guardato alle spalle… Chiude l’album l’organo chiesastico sfregiato da un’improvvisa distorsione di chitarra di Lauft…Heisst Das Es Lauft Oder Es Kommt Bald…Lauft e It’s A Bit Of Pain, morbida ballata disturbata da frequenze elettroniche. Anche i Faust, in fondo, dovevano pur mangiare…  

Ma, evidentemente, il pane non è tutto o, forse, quel poco non è ancora abbastanza perché, subito dopo IV, il gruppo abbozza un paio di tour e poi  sembra letteralmente scomparire nel nulla. Tutto ciò che trapela sono le numerose collaborazioni e le registrazioni personali dei vari membri, ma per i Faust sembra iniziato un lunghissimo letargo interrotto soltanto dalla pubblicazione di registrazioni postume o dalle ristampe del catalogo originale.  Tocca prima a Munich And Elsewhere, contenente il materiale che avrebbe dovuto comporre il successore di Faust IV, edito nel 1986 e ripubblicato con l’aggiunta dell’ep Faust Party Three, contenente altre registrazioni d’epoca, con il titolo di 71 Minutes Of Faust. Poi la reunion dei primi anni novanta, sotto l’egida di Jim O’Rourke, che conduce ai due volumi di Concerts, contenenti materiale live del 1990/1991, ed al ritorno in pompa magna con il primo album originale dai tempi di IV, il violento ed incompromissorio Rien (1995), davvero all’altezza dei tempi migliori, cui faranno seguito, un gradino più sotto, You Know Faust (1997) e Ravvivando (1999) più l’opera Faust Wakes Nosferatu. E’ proprio di questi giorni, infine, la notizia della (ennesima) ripubblicazione di Outside The Dream Syndicate in edizione de-luxe e del nuovissimo Derbe Respect Alder, split con la nota posse alt-hiphop statunitense dei Dalek, in cui i nostri si reinventano per l’ennesima volta trovando un inaspettato punto di convergenza fra due esperienze apparentemente così diverse. Ma questa è già storia di domani. E, per i Faust, non è certo una novità…

da LFTS n.70

Pere Ubu 1995/20..: Verso l’infinito, ed oltre.

di Marco Tagliabue

19 novembre 2013

Fra gli scarsissimi video che un insolitamente così avaro YouTube dedica ai Pere Ubu, è abbastanza facile incappare nella puntata di un David Letterman Show di qualche anno fa con la band di David Thomas, per nulla a proprio agio sotto quei popolari riflettori televisivi, impegnata ad eseguire il proprio brano pop per eccellenza, quella Oh Caterine che, nel tentativo di sospingerlo verso le zone alte delle classifiche, stava trascinando il gruppo verso una nuova, salutare, autodistruzione. Si era più o meno intorno al 1991: l’epoca di “Worlds In Collision”, terzo album del periodo Fontana e secondo tentativo, per fortuna non riuscito, di diffondere il verbo Ubu alle masse. Forse saranno state anche le battute non sempre irreprensibili del sagace anchorman televisivo a far capire a David Thomas che quello non era il suo mondo ed a riportarlo sulla retta via: dopo un lavoro messo insieme alla bell’e meglio l’anno successivo, “Story Of My Life”, il processo di disgregazione della band giungeva a naturale compimento ed il corpulento cantante tornava a rifugiarsi in seno a quella carriera solista che, in quegli anni, costituiva probabilmente la naturale propagazione dell’originale spirito dei Pere Ubu. Un periodo da dimenticare, quindi, quello della seconda incarnazione degli Ubu? Tutt’altro: un grande disco (“The Tenement Year”, 1988), un paio d’album di “pop” di classe (“Cloudland”, 1989 e “Worlds In Collision”, 1991) e quello che rimane probabilmente il punto più basso, ma poi non così rasente il suolo, di una carriera fino a quel momento esemplare, il fiacco “Story Of My Life” (1992). Poi la naturale implosione ed il nulla, quello definitivo? Forse il Re questa volta era morto per davvero, ma per Thomas non si profilava certo la pensione. Titolare di una carriera solista semi clandestina che aveva generato cinque album fra il 1981 ed il 1987, in seguito raccolti nel cofanetto “Monster” (Cooking Vinyl, 1996), più un live addirittura fantasma, quel “Winter Comes Home” di cui il Nostro arriverà perfino a negare l’esistenza, David riscopre una vena più sperimentale con i Two Pale Boys, l’esperienza nata dall’incontro, avvenuto già agli inizi degli anni novanta, fra il leader dei Pere Ubu ed i due polistrumentisti Keith Molinè e Andy Diagram. Il primo album della nuova formazione, “Erewhon” (Cooking Vinyl, 1996), oltre ad essere un disco bellissimo, è il lavoro che definisce l’estetica che ispirerà la vicenda umana ed artistica di Thomas negli anni successivi e che, giusto dodici mesi prima, era anche stata alla base del ritorno in grande stile della più grande Araba Fenice che abbia attraversato i cieli della musica rock.

“Ray Gun Suitcase” (Tim Kerr/Cooking Vinyl, 1995) è il primo, quasi inconsapevole tassello, di quella geografia del “nessun luogo” le cui mappe immaginarie verranno districate da Pere Ubu e Two Pale Boys nel decennio successivo, alla ricerca delle coordinate di un suono speculare ma profondamente distante che ha pochi termini di paragone nella popular music degli ultimi due/tre lustri. “Erewhon è l’anagramma di Nowhere. Si tratta di un album ‘utopico’: erewhon, nowhere, un posto che non esiste. Amo i luoghi, soprattutto quelli che non esistono, ecco perché arriverò a ‘Pennsylvania’ dopo Erewhon. Tutto quanto ha a che fare con la geografia, il suono stesso ha a che fare con la geografia; in particolare i suoni moderni, i suoni dell’era magnetica, hanno a che fare con lo spazio, e lo spazio viene compreso da noi in termini di geografia. Dietro a tutto il rock’n’roll c’è la nozione del suono come geografia. Oggi però le persone vivono progressivamente in luoghi che non esistono, in città che non esistono. I luoghi, le culture del mondo stanno tutti scomparendo, sono tutti Erewhon. Oggi viviamo in un mondo in cui la cultura è stata ridotta alle scelte da fare dentro una boutique, la cultura oggi è comprare un paio di jeans, la cultura è ridotta ad un’unica boutique mondiale. E l’Italia non è più l’Italia, l’America non è più l’America, le persone considerate ‘di cultura’ , quelle che sanno usare bene le parole, sono mentitori. Lo scopo delle parole scritte è mentire alla gente normale, sono un’arma in mano agli ingegneri sociali. L’unica cosa che non può mentire è la geografia, la terra, la tua terra non mente mai. /…/ La mia generazione è l’ultima a potersi definire americana. I ragazzi che hanno meno di tredici anni in America non sono più americani, così come gli italiani che hanno meno di tredici anni non sono più italiani, sono tutti abitanti di un immaginario villaggio globale. Nel villaggio globale non si è più niente, e guarda che non è una critica, è una constatazione. Quindi l’unica cosa che ci collega al passato è la terra, dove ci sono le colline che ti osservano, dove ci sono le montagne che dominano, dove il vento soffia, dove ci sono gli alberi e i frutti, dove cresce l’erba. Tutte queste cose sono le uniche che non ti  mentiscono mai. Ecco perché Erewhon-Nowhere.” (David Thomas, da un’intervista a Blow Up, 1997).

La formazione dei nuovi Pere Ubu viene, una volta di più, completamente rivoluzionata: oltre al geniaccio al microfono, il solo Jim Jones, chitarra, proviene dall’esperienza precedente, per il resto una totale rifondazione affidata al basso di Michele Temple, al synth ed al theremin di Robert Wheeler, alle percussioni di Scott Benedict. Fra le comparse un altro ex, Scott Krauss, che suona la batteria in un paio di brani, oltre al violoncello di Garo Yellin ed al basso di Paul Hamann, produttore dell’album insieme a David Thomas. Una copertina che evoca immagini urbane con nome della band e titolo dell’album a caratteri cubitali, come a dire “credete pure ai vostri occhi: siamo tornati!”; qualche nota completamente svasata, a ributtare in primo piano quello spirito nonsense che del resto non aveva mai abbandonato il gruppo, come quella che recita testualmente: “Pubblicammo i testi sul retro copertina di “Song Of The Bailing Man” perché non sapevamo come altro fare per riempire quello spazio/…/Pubblicare i testi è un brutto affare”. Sotto un profilo più squisitamente musicale, “Ray Gun Suitcase” è il convincente compromesso fra la vena melodica degli album precedenti e lo sperimentalismo dei lavori storici della band: una sintesi perfetta, insomma, fra il Mark I ed il Mark II. Ma è soprattutto, come del resto gli altri tre dischi in studio che seguiranno, un album di grande musica. Folly Of Youth è un ottimo inizio: un’atmosfera torbida, cupa e opprimente con il martello di un basso claustrofobico, svisate di synth, la chitarra che mena fendenti, rumori ed effetti, e la voce di Thomas affogata in un ritornello spastico nel magma ribollente degli strumenti in libertà vigilata. La successiva Electricity è uno dei vertici dell’album e della produzione della band: un brano più intimista, protagonista la chitarra, perduta in struggenti crescendo percorsi dalla demoniaca presenza del synth, il basso sempre in primo piano, vero protagonista della base ritmica, ed il canto che raggiunge vette di liricità assoluta. Beach Boys ha invece una struttura più canonica, quella di un rock’n’roll senza particolari guizzi strumentali, eccezion fatta per l’assolo chitarristico centrale, ed un refrain orecchiabile ed accattivante. Turquoise Fins è forse il brano che meglio rappresenta lo spirito dell’album: una marcata componente melodica, pur distante anni luce da certe amenità pop del periodo Fontana, e parti strumentali assai poco convenzionali, quasi deviate, insieme ad una voce insolitamente sgraziata, assai poco accomodante. Vacuum In My Head è un blues lento e stralunato, con una lunga introduzione strumentale ed il canto di Thomas a lambire nuovi mezzi espressivi. Niente batteria, solo qualche percussione sfasata, con il basso a farsi strada ed una chitarra lamentosa in sottofondo. Memphis è un altro rock’n’roll diretto e lunatico mentre Three Things ha una struttura più complessa, aperta a molteplici cambi di atmosfera, in mezzo a frammenti elettronici, impennate ritmiche, piccole giungle strumentali e la voce di Thomas a legare le parti, come si addice ad un Grande Cerimoniere. La misteriosa Horse ha una lunghissima introduzione strumentale per basso e grilli notturni, poi la chitarra sale in un’unica, lunghissima nota tirata allo spasimo per tornare subito dietro le quinte. Avanti senza parole, fra arpeggi delicati e sinistri, in un’atmosfera opprimente che riesce a stemperarsi solo con la successiva Don’t Worry, un rock’n’roll chitarristico percorso da un synth poco rassicurante. Ray Gun Suitcase inizia come una litania perversa, con la voce perduta in un lamento su una base lenta e sconclusionata, per acquistare ritmo e vitalità nel finale, che sfocia in una curiosa cover acustica e ultra rallentata di un brano dei Beach Boys, quella Surfer Girl alla quale Thomas riesce a conferire un’intensità strana insieme alla sua pazza vitalità. Red Sky è una delle vette dell’album: un affascinante gioco di voci fra recitato e cantato, una melodia sottile e circolare che pervade l’intero brano fra continui cambi di tempo e preziose aperture chitarristiche che, nel finale, esplorano gli inediti territori di una psichedelia soffice e vellutata. Montana, primo fra i luoghi ufficiali e non da appuntare sulla cartina geografica, sprofonda in una bellissima atmosfera bucolica con un valzerone folk astratto e visionario, intenso e malinconico, condotto da fisarmonica e strumenti ad arco. My Friend Is A Stooge For The Media Priests è un nuovo rocckettone ironico e potente, mentre la splendida melodia di Down By The River II chiude l’album nella maniera migliore, con una ballata agrodolce di grande efficacia ed intensità.

“La Pennsylvania è uno Stato molto lungo, chiunque voglia andare a New York o sulla costa atlantica deve passare per la Pennsylvania, ma nessuno ci si ferma. Quindi l’album ha a che fare con cose che devi attraversare per andare da qualche parte, posti per cui devi viaggiare per arrivare in qualche altro posto. Questo è il concetto che sta dietro l’album. Pennsylvania è un po’ un altro posto che non esiste, un altro ‘nowhere’. Quando noi parliamo di Pennsylvania sappiamo cosa significa, significa solo un lungo viaggio per andare da qualche parte.”  (David Thomas, interv.citata).

E’ una metafora, quindi, di tutti i luoghi di passaggio e, perché no?, forse anche della vita stessa, il secondo atto dei nuovi Pere Ubu. Per “Pennsylvania” (Tim Kerr/Cooking Vinyl 1998), c’è però da registrare anche un’importante novità che riguarda la formazione, la quale, tolto l’avvicendamento dietro le pelli di Steve Mehlman al posto del dimissionario Scott Benedict, rimane praticamente immutata fatto salvo l’ingresso, o meglio il ritorno, di Tom Herman alla chitarra. Proprio lui, uno dei membri fondatori degli Ubu ed uno dei primi ad andarsene, all’indomani di “New Picnic Time”, terzo preistorico album del 1979. Le chitarre raddoppiano, quindi, e graffiano ancora di più, contribuendo a dare all’album una dimensione elettrica abbastanza inusuale, forse proprio a scapito del synth, il cui lavoro è puntuale e perfetto, ma non così centrale come nel lavoro precedente. Una grinta rock per nulla canonica, sia chiaro, ma sghemba e disarticolata come nella migliore tradizione del gruppo. Si può anzi dire che quella bilancia fra spirito melodico e tensione sperimentale i cui piatti erano perfettamente in linea in “Ray Gun Suitcase”, pende ora pericolosamente verso un sound ancora più torbido e claustrofobico, solo occasionalmente tentato dall’attitudine pop dei dischi del periodo Fontana. Ne è un ottimo compendio l’atmosfera perversa ed inquietante dell’iniziale Woolie Bullie: le chitarre stendono tappeti distorti su una base ritmica lenta ed oppressiva, i violenti stacchi dissonanti del theremin straziano il brano ad intervalli irregolari, il canto è un mesto recitativo per un testo che non lascia scampo. “La realtà è definita secondo i desideri dei media/La Storia viene riscritta prima ancora che avvenga/La cultura è un’arma usata contro di noi/La loro cultura è solo una palude di superstizioni, ignoranza e menzogne/La geografia è il linguaggio che loro non possono distruggere/La terra e quello che sappiamo aggiungerle non possono mentire”. Dopo il breve intermezzo acustico di Highwaterville, sono gli affascinanti contrappunti elettrico/acustici di Sad/Txt a destare meraviglia, il suo ritmo quasi in levare sporcato da effetti e rumori d’ogni tipo con la voce di Thomas filtrata in un sussurro. Con la wave disturbata di Urban Lifestyle le pulsioni salgono su un efficace tessuto chitarristico, che un synth scatenato tenta invano di scomporre ed aggrovigliare, mentre la successiva Silent Spring, lenta ed inquietante, costruita su un giro di basso ossessivo dal quale, come i tentacoli di una piovra, si dipanano gli altri strumenti in piccole fughe improvvisative, sprofonda in un’atmosfera oscura e sperimentale, con i toni perversi della voce di Thomas che non fanno altro che aumentare la tensione. Mr. Wheeler prosegue nella stessa scia densa e melmosa, in una dimensione che poco o nulla concede alla forma canzone, con i medesimi ingredienti opportunamente miscelati, mentre con Muddy Waters l’album riacquista una forma più umana, grazie ad una più canonica cavalcata elettrica che, seppur non esente dai soliti elementi di disturbo, vede le chitarre girare a mille e portarsi dietro tutti gli altri strumenti. Seguono Slow, un angosciante break strumentale fra tastiere ed inserti elettronici, e Drive, con le chitarre che sfrigolano e pungono su un fondale sintetico abbastanza inquietante e la voce di Thomas che si sforza di dare un senso lirico al tutto. Dopo il breve bozzetto strumentale di Indian Giver, tocca alla splendida Monday Morning scomodare ingombranti fantasmi del passato, forse addirittura quello di 30 Seconds Over Tokyo. Con Perfume la voce di Thomas recita, quasi spaurita, su una fragile base strumentale, fra tappeti sintetici, effetti ed interferenze varie, mentre in Fly’s Eye (che secondo una dichiarazione dello stesso Thomas sarebbe stata scritta per Kylie Minogue, ma sarà vero?) sceglie un refrain vincente in una scarica di genuino rock’n’roll. Con The Duke’s Saharan Ambitions, invece, il Narratore diventa muezzin e libera la sua litania per un’incredibile the nel deserto. Tocca a Wheelhouse dare l’illusione che il disco sia finito, con  un brano lungo e coinvolgente perfetto compendio di tutti gli elementi del suono Ubu, prima di liberare, dopo una manciata di secondi d’attesa, tutta la magnificenza della ghost track. Gli oltre quindici minuti di My Name Is…partono come un bluesaccio sporco alla Tom Waits per sfociare, dopo uno stacco netto, nelle atmosfere liquide ed ossessive di affascinanti strati di tastiere a mezza strada fra i Doors ed i Neu!.

“Se si va a nord sull’highway 61, l’Arkansas è dalla parte opposta. Il punto di vista di St. Arkansas è quello della testa voltata di lato, delle parole sussurrate all’orecchio, di posti visti mentre corri a testa bassa.”  (note di David Thomas dal sito internet del gruppo)

Ideale completamento di quel trittico ispirato alla geografia del “nessun luogo” iniziato nel 1995 con il grande ritorno di “Ray Gun Suitcase”, lo svincolo di “St. Arkansas” (Glitterhouse, 2002), perfetto crocevia per tutte le strade che conducono in un luogo immaginario, è anche la prima porta che i Pere Ubu aprono nel nuovo millennio. Ed è evidente al primo ascolto che, nonostante siano passati quasi trent’anni dal debutto, poche cose suonano fresche, eccitanti ed innovative come la musica di questa band; che nel duemila, come del resto probabilmente anche nel tremila, ci sarà ancora un dannato bisogno di loro. Formazione praticamente immutata rispetto a “Pennsylvania” con il solo Jim Jones un po’ defilato rispetto al resto del gruppo in cui compare solo come ospite, probabilmente a causa dei problemi di salute che si fanno sempre più pressanti e di quel cuore matto che se lo porterà via, nell’indifferenza generale, nei primi mesi del 2008. Copertina zeppa di segnali stradali, numeri di autostrade e indicazioni per raggiungere luoghi che non esistono, uno dei quali porta anche il nome della band. Nello smilzo package del CD trova anche posto, corredata da deliziose foto vintage, un’affascinante ma strampalata teoria secondo la quale il nostro cervello riceve le sollecitazioni acustiche da sinistra a destra, quindi, per un ascolto ideale, è necessario posizionarsi più vicini alla cassa destra. E la musica? Parafrasando i Rolling Stones si potrebbe dire che It’s Only Pere Ubu. Sarà pure rock’n’roll e basta, insomma, ma nulla suona come loro. Tocca a The Fevered Dream Of Hernando De Soto aprire l’album con un basso vorticoso che si porta dietro tutti gli strumenti, il synth che sbuffa, la chitarra che punge e sfrigola qua e là, la voce di Thomas insolitamente “sana” in una melodia che colpisce e spiazza al primo ascolto. Slow Walking Daddy è un bluesaccio tutto giocato sui tasti, con il synth come elemento di disturbo, che con il volgere dei minuti si arricchisce di campanelli e percussioni, echi e rifrazioni, di una melodia facile ma non banale. Michele mostra almeno due anime nel violento stacco di atmosfera fra le parti cantate, voce calda e carezzevole sommersa da una valanga di effetti, e le stordenti aperture strumentali, protagonista una chitarra con pochi freni inibitori. 333 rientra in canoni più tradizionalmente rock, mentre Hell sfodera un ritmo esasperatamente lento tutto giocato sui piatti, qualche battuta scoordinata sulle pelli, le tastiere a stendere tappeti disarmonici e la voce di Thomas, un recitativo su toni molto bassi, a coordinare il disordine. Lisbon inizia come un synth pop deviato, un ritmo lento con qualche impennata, tetri fondali di tastiere e intermittenze elettroniche a rendere l’atmosfera ancora più malsana: una spirale sempre più perversa che sembra convergere tutto a sé. Steve vede la chitarra tornare protagonista in un brano dalla forte impronta blues: un blues secondo il vangelo Pere Ubu, naturalmente, con qualche rifrazione industriale ed un costante inquinamento elettronico. Phone Home Jonah è un rock’n’roll tirato, mentre con Where’s The Truth il ritmo torna a rallentare, l’atmosfera ad intorbidirsi sulle pulsioni di un basso paludoso e di un synth che sbuffa e fa le linguacce dietro le spalle. I quasi dieci minuti della monumentale Dark chiudono l’album con uno dei capolavori degli Ubu di sempre: un lungo mantra circolare con una superba melodia che continua ad avvitarsi su se stessa, portandosi dietro tutti gli strumenti in un vortice che sembra non avere mai fondo, in una progressione convulsa che si vorrebbe, magicamente, prolungare oltre ogni limite.

“L’idea di ‘Why I Hate Women’ era quella di rendere in musica un romanzo di Jim Thompson che Thompson non ha mai scritto; è un disco ossessivo, ma la migliore musica rock è brutalmente ossessiva” (note di David Thomas dal sito internet del gruppo)

Altri quattro anni e l’ennesimo cambio nella formazione, che vede ora alla chitarra Keith Moliné, già accanto a Thomas nei Two Pale Boys, per avere fra le mani “Why I Hate Women” (Glitterhouse, 2006), quello che nel momento in cui scriviamo –agosto 2009- è l’ultimo lavoro a firma Pere Ubu (ma il sito del gruppo annuncia novità imminenti) e quello che, senza mezzi termini, è uno dei tre, massimo quattro, dischi più belli dell’ormai sterminata discografia della band. In un lavoro di cui l’ossessione è dichiaratamente il tema principale, gli ingredienti dell’Ubu sound sono più o meno sempre i medesimi, ma l’insieme, il corpo principale, raramente è stato così diretto, unitario ed efficace. Il loro avant-rock ormai più che trentennale, insomma, riesce tranquillamente a farsi beffe delle schiere di ragazzini che affollano i-pod e download illegali, che danno da mangiare a MTV, che riempiono del nulla tonnellate di carta stampata oltre, naturalmente, alle orecchie di tanti ascoltatori. Lo strumento principe di “Why I Hate Women” torna, incredibilmente, ad essere il synth/theremin di Robert Wheeler, la cui presenza, oltre ad essere costante ed ossessiva, è in molti casi davvero prioritaria nell’economia di un suono continuamente sfregiato, appesantito, cosparso di un bitume tossico e radioattivo da quei tasti che dai gloriosi tempi dello scienziato pazzo Allen Ravenstine non erano mai stati così “pesanti”. Two Girls (One Bar) è un’apertura squillante: un ritmo convulso sulle corde del basso, frange chitarristiche in sottofondo, un synth che sbuffa e freme, la voce di Thomas come sempre in gran spolvero in una melodia sottilmente malinconica. Babylonian Warehouses è già un attacco al cuore: un brano intenso, disturbato e disturbante su un ritmo lento e convulso, la chitarra che puntella, le evoluzioni del theremin in primissimo piano a dipingere pareti torbide ed evocative al tempo stesso, il canto filtrato in una melodia nostalgica. Blue Velvet è ancora più lenta, ancora più tossica, ancora più intensa, con Wheeler che cerca di strappare lacrime da una roccia e Thomas mai così vicino alla disperazione. Con Caroleen riesplodono ritmo ed energia in un punk rock percorso da una voce scorticata e da un theremin impazzito, mentre Flames Over Nebraska è un wave rock perverso inzuppato dal synth disturbato e malefico che sembra fagocitare, insieme a tutto il resto, anche una melodia gioiosa e accattivante. In Love Song il ritmo si placa, ma la tensione aumenta sulle ali del solito theremin, che si frappone fra musica e parole lasciando la sua maleodorante scia, creando un’atmosfera talmente carica da sembrare sempre sul punto di esplodere. Mona è un brano breve e veloce con il fantasma di Ravenstine mai così vivido e presente, e My Boyfriend’s Back concentra, in uno spazio ancor minore, rabbia ed energia che farebbero invidia a molti nipotini. Stolen Cadillac fa il paio con Babylonian Warehouses quanto a grigiore, intensità, pazzia e perversa bellezza, mentre in Synth Farm, che omaggia fin dal titolo il protagonista del disco, la presenza dello strumento è più discreta, quasi un supervisore occulto, ma ci pensano percussioni e rintocchi vari, disordinati sbuffi di sax e rifrazioni industriali a rendere l’atmosfera opprimente e malsana. Tocca a Texas Overture sancire un album da trionfo con un blues rock sporco e disarticolato alla maniera dei Nostri, una lunga disquisizione quasi rappata con le controverse ragnatele del synth a dare anima e spessore al brano, lasciando alzare la testa alla chitarra solo nei lunghi assoli in chiusura.

“Il giorno che comporrò un album di cui potrò dirmi pienamente felice sarà il giorno in cui deciderò di fermarmi.” (David Thomas, da un’intervista a Sentireascoltare.com)

Confidando nella proverbiale meticolosità, nel ricercato perfezionismo del leader dei Pere Ubu, pensiamo che quel giorno sia ancora lontano, appuntamento quindi fra quindici anni per la quarta parte della loro storia. Nel frattempo nessuno si scandalizzi se chi scrive è sempre più convinto che, per longevità artistica e qualità compositiva, i Pere Ubu siano la più grande rock band di tutti i tempi. Con tanti saluti a Beatles, Rolling Stones e chi volete voi…

da LFTS n.97