The Pop Group: La Cognizione del Dolore

Per salutare il ritorno del Pop Group con un disco di inediti, il recentissimo Citizen Zombie, a trentacinque anni di distanza da For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder, andiamo a ripescare un vecchio articolo sul gruppo di Mark Stewart scritto in tempi piuttosto bui…

Parla, illumina queste catene/Parole come azzurri cristalli/Rompiamo la barriera del suono/Rubiamo la velocità alla luce.   Seppelliamo il sole e beviamo /Beviamoci la notte.  Ti prego non vendere i tuoi sogni.  Parla, illumina queste catene/Dipingi un nuovo suono/Inventa un colore nuovo/Afferra, afferra, afferra un pensiero/Lacrime di polvere, disperse dall’aria. Ti prego non vendere i tuoi sogni/Non vivere nei sogni di qualcun’altro. (Don’t Sell Your Dreams-1979)

Per molto tempo il Pop Group è stato solamente un sogno. Un miraggio da rincorrere a prezzi assassini, buono per i pazzi ed i collezionisti, che è un po’ come dire la stessa cosa.  Spasmodicamente attratti dal quel piccolo e misterioso culto che da sempre circonda la band, in tanti ne siamo stati irrimediabilmente respinti, vittime dei cronici problemi di reperibilità di quelle irraggiungibili opere, quasi si fosse voluto sancire una sorta di “numero chiuso” da parte dei gelosi custodi del mito.  Eppure Y è uno dei dischi più radicali, innovativi, importanti ed influenti degli ultimi 25 anni di musica rock.  E dei più belli, naturalmente. Una recente (e purtroppo incompleta) ristampa in digitale della scarna discografia del gruppo ha reso solo parziale giustizia  a questa drammatica nefandezza: si tratta ancora una volta di materiale pubblicato in un numero limitato copie e di non facilissima reperibilità, ma tanto basta  per consentirci di spendere qualche parola su questa incredibile esperienza senza il rischio o il timore di suscitare, in coloro che ne cercassero un contatto tardivo, la bellicosa reazione per un interesse stimolato sulla carta e negato dai fatti…

Ognuno ha il suo prezzo/Ed anche tu imparerai/Ad accettare la menzogna. Aggressione/ Competizione/ Ambizione/Fascismo consumista. Il Capitalismo è la più barbara di tutte le religioni/ I centri commerciali sono le nostre nuove cattedrali/Le nostre automobili sono martiri per la   causa. Siamo tutti prostitute. I nostri figli si rivolteranno contro di noi/Perché noi siamo gli unici da biasimare/Siamo gli unici da condannare. Ci daranno un nome nuovo/Ci chiameranno ipocriti, ipocriti, ipocriti. (We are all prostitutes-1980).

Il Pop Group è anche rabbia, furia  e rancore.  Lo stesso sentimento che ispira la blank generation sfrondato  da  quel nichilismo autodistruttivo tanto caro ai fratellini punk:  al posto del no future fine a se stesso che tutto accomoda e tutto risolve in mera ed impotente accettazione dello status quo, il furore iconoclasta di chi non vuole sottacere i crimini  sui quali è stata edificata la civiltà dei consumi e la condivisione, forse ingenua e contraddittoria ma certo genuina, del dolore che si cela dietro ogni sorriso negato.  La sincera passione, insomma, di chi vuole esibire la propria diversità non come scudo per  proteggersi dal mondo ma come ariete per sfondarlo.

Stomaco testa e genitali/Soffocati fino a perdere conoscenza/Acqua ghiacciata sparata nelle orecchie/Borse di plastica strette intorno alla testa/Scagliati contro il muro/…/Colpiti sul viso/Stretti per i polsi/Alzati per le orecchie/Bruciati con le sigarette/Presi a calci sui denti/Poi gettati esanimi sul pavimento/Ed infine calpestati. (Amnesty Report-1980).

Ma Pop Group vuol dire soprattutto coraggio. Il coraggio di scuotere le coscienze e di rivoltarle come calzini appesi al sole, il coraggio di far male, di menare fendenti e coltellate, di produrre ematomi e lasciare ferite sanguinanti. Il coraggio di parole incontrovertibili e di uno degli assalti sonori più urticanti che ci sia mai stato dato di udire: una incredibile miscela di punk, funk, dub, free-jazz e noise dalle tinte inequivocabilmente new-wave ma distante anni luce da ogni esperienza collaterale o pregressa.  Accostarsi per la prima volta alla sua pressione devastante è un po’ come sottoporsi ad una violentissima centrifuga: un moto liberatorio capace di provocare non solo stordimento e confusione  ma anche una profonda, completa,  rigenerazione.  Una delle poche esperienze artistiche davvero in grado di creare una nuova  prospettiva.

…/Non moriremo insieme nel deserto/Scapperemo dagli uomini di preghiera/Urleremo di gioia come nella Rivoluzione Francese/E ci faremo beffe della ghigliottina. Cammineremo verso il mare selvaggio/E’ l’unica direzione per noi due. Disapprovando la vita intorno a loro/Hanno creato un mondo su misura/Sei il mio ultimo desiderio prima del plotone di esecuzione/Ma i proiettili non possono scalfire il mare. Ci nasconderemo nel mare selvaggio/E’ l’unica direzione per noi due. Perché gli eroi devono sempre morire in battaglia?/Prendi il violino/Siamo esuli. (Savage Sea-1979).

E mi piacerebbe poter dire che si intravede una luce in fondo al tunnel, ma non c’è speranza nella guerra del Pop Group:  la salvezza è altrove, non in questo mondo che reclama  un sacrificio dopo l’altro e che potrà rinascere soltanto dalle sue ceneri, siano esse le selvagge tribù antropomorfe della copertina di Y o l’innocenza perduta del celebre bacio terzomondista di For  How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?

Una domanda destinata a rimanere senza risposta come, del resto, la maggior parte dei quesiti posti dalla band. Ma è più onorevole la sconfitta di un ritiro, anche se questa rappresenta, innanzitutto, il crudele fallimento dei sogni e delle illusioni dei  vent’anni.

Già, perché Mark Stewart, Gareth Sager, Bruce Smith, John Waddington e Simon Underwood non hanno nemmeno vent’anni quando, nei primi mesi del 1978, decidono di passare dai banchi di una anonima High-School  di Bristol alle trincee del loro personalissimo campo di battaglia. Il nome che si scelgono,  The Pop Group, è spiazzante nella sua perversa semplicità: non esiste, con tutta probabilità, niente di più lontano dalla musica pop, nella comune accezione del termine, dell’incredibile assalto sonoro perpetrato dal gruppo…

Con un ventaglio di ispirazioni trasversali che abbraccia le suggestioni letterarie di Rimbaud  e Burroughs e quelle musicali di Ornette Coleman, Last Poets, James Brown, Can, John Cage, Archie Sheep, King Tubby e, perché no?, di quell’altro Pop(ular) Group che erano gli Area di Demetrio Stratos,  i nostri, dopo un breve tour estivo di supporto ai Pere Ubu, si accasano presso la Radarscope Records all’inizio del 1979 e pubblicano, nel giro di pochi mesi, il 7” di debutto She Is Beyond Good And Evil/3:38.

Opera per certi versi fuorviante e contraddittoria, il singolo è la perfetta esemplificazione   delle due anime che dipingono la primavera del  gruppo e rappresenta, in qualunque modo lo si voglia considerare, un ideale passaggio di testimone fra le influenze wave  opportunamente filtrate della title-track, tipiche dei primi esperimenti sonori dei cinque,  ed il superamento di ogni  confine stilistico  che caratterizza la b-side e  l’intera produzione successiva della band.

Se She Is Beyond Good And Evil (probabilmente il brano più conosciuto ed abbordabile del Pop Group) è una traccia dubbeggiante dalle forti connotazioni new-wave ottimamente costruita intorno alla voce magnetica di Mark Stewart, la vera sorpresa arriva con 3:38  (titolo dettato, è inutile dirlo, dalla durata del brano), un incredibile strumentale a metà strada fra i Can ed i This Heat, che si pone come autentico crocevia con le suggestioni sonore che ci attenderanno, di li a poco, nel mirabolante album d’esordio del gruppo. (Davvero inspiegabile a questo proposito la mancata inclusione di 3:38 in ogni successiva ristampa del materiale della band, come appare discutibile, del resto,  l’inserimento di She Is beyond Good And Evil nella release del  1997 di Y: un “allacciamento”  quantomeno un po’ forzato).

…/Ma a chi credere/Quando sei vittima di una nazione di assassini/Devo credere a me stesso? Mi sento come un vagabondo in gabbia/Fiori in Mosca/I perdenti si prendono tutto/Siamo qui per andarcene/Tutti gli amanti tradiscono… (Thief Of Fire-1979)

Y vede la luce dopo una manciata di settimane.  In copertina il primitivismo esasperato di una selvaggia tribù africana a rappresentare il punto di ripartenza di un immaginario (e forse auspicato) day after o, allo stesso modo, il punto di arrivo dei deliri di onnipotenza della contemporanea civiltà dei consumi.  All’interno un poster con i testi ed un collage esplicito di immagini militanti dalle varie parti calde del mondo: Cambogia, Vietnam, Irlanda…  Nei solchi un senso di rabbia, disperazione e frustrazione ai limiti della capacità di sopportazione, una serie ininterrotta di scene spaventose e sanguinarie, una tensione emotiva ai limiti dell’inumano…

Accompagnare la puntina a fine corsa è un’esperienza catartica e sconvolgente, un vero e proprio esercizio di auto flagellazione: un ascolto attivo può essere davvero tutto questo, ma ciò che rimane non è arrendevolezza o depressione, bensì uno spirito nuovo ed una nuova visione, una sensibilità diversa ed un diverso modo di sentire, un insperato vigore ed uno sguardo capace di andare oltre, attraverso la notte dei  propri  pensieri, nelle smisurate profondità dell’io.

Y è anche una messe furibonda di ritmi sconnessi e forsennati, di sussurri ed urla strazianti: pochi i momenti di respiro o abbandono, molteplici quelli di estasi e delirio.  Funk innanzitutto, ma anche jazz, avanguardia, musica tribale e folk urbano in un  caos sonoro all’insegna dello sperimentalismo e di una calcolata improvvisazione: un magma disarticolato aperto alle mille possibilità vocali di un Mark Stewart in forma come non mai.

Due i brani portanti dell’album: l’iniziale Thief Of Fire, un funky corposo che  riesce a dare  spazio

anche ad un inserto avant e ad una coda dalle forti tinte free-jazz,  e la lunga We Are Time, oltre sette minuti di assalto alla corteccia cerebrale con ogni strumento al meglio delle sue possibilità e, su tutto, la voce di Mark che ti buca la pelle.

…/Nessuno schema da seguire/Nessuna paura del domani/…/Domeremo la velocità del cambiamento/L’eternità sarà nostra. Il tempo è con te/Splende attraverso i tuoi occhi/Uccideremo la parola/Le menzogne in caratteri neri/Menzogne menzogne menzogne/Il tuo mondo è costruito sulle menzogne. (We Are Time-1979).

Ma c’è spazio anche per atmosfere più ardite prossime alla sperimentazione (Blood Money, Words Disobey Me, The Boys From Brazil), per insperati momenti di respiro (Snow Girl) ai limiti dell’intimismo più disperato (Savage Sea), per la fine anarchia jazz di Don’t Call Me Pain e per il drammatico finale di Don’t Sell Your Dreams, in cui la tensione si fa davvero insostenibile mentre Mark implora straziante il suo tragico refrain. Quando la rabbia si placa  e subentra il silenzio, la fine del disco giunge davvero come una liberazione.

…/Abbiamo paura di ciò che non possiamo comprendere/Soldati soldati soldati/Marciano attraverso i tuoi occhi/Bruciano le tue dita nell’oscurità/Non chiamarmi dolore/Il mio nome è mistero/Questa è l’epoca delle possibilità/O almeno così dicono. (Don’t Call Me Pain-1979)

Poco dopo la pubblicazione di Y cominciano ad apparire le prime crepe: Mark Stewart, in disaccordo con gli altri, saluta tutti e se ne va, mentre la Radarscope Records, di fatto una figlia illegittima del colosso Warner, sente la terra bruciare sotto i piedi e preferisce dare il benservito al gruppo, che definire scomodo è puro eufemismo…

Mentre la diaspora in seno alla band viene prontamente risanata dal manager Dick O’Dell, che mette sul piatto della bilancia la creazione della etichetta personale Y Records  a maggior garanzia della totale indipendenza del gruppo, si fa avanti la Rough Trade  offrendo la propria disponibilità per la distribuzione del materiale prodotto dalla nascente label.

Prima del grande passo  c’è comunque tempo per la pubblicazione, sempre su Rough Trade, dello storico 7” We Are All Prostitutes/Amnesty International Report in cui, per la prima volta, appare il nuovo bassista Danny Katsis al posto del dimissionario Simon Underwood. Il primo brano è un assalto al vetriolo con evidenti connotazioni funky in cui rabbia e pessimismo si uniscono in un desolato abbraccio, mentre, ancora una volta, la vera sorpresa arriva dal lato b. In Amnesty International Report On British Army Torture Of Irish Prisoners (questo il titolo completo della traccia), Mark Stewart non fa altro che enunciare stralci del citato rapporto con una rabbia feroce che trova  ideale compendio nel violento free-jazz-noise di fondo. (Una versione del brano più prossima alla forma-canzone è presente nel disco postumo di out-takes We Are Time).

Ad un altro 7” tocca  l’ingrato compito di inaugurare il catalogo della  neonata Y Records. Si tratta di uno split con le Slits, il più importante gruppo punk all-female con l’alto patrocinio di Mr. John Lydon, e da il via ad una collaborazione che proseguirà nei primi mesi del 1980 con una tournee europea che toccherà anche il nostro Paese. Il brano dei nostri, intitolato Where There Is A Will There Is A Way, è un altro tiratissimo funk antimilitarista ai limiti dell’isteria.

Solo una domanda/Per quanto tempo dovremo tollerare gli stermini di massa? La tolleranza è la maschera dell’apatia/L’assuefazione è una pratica quotidiana/C’è l’inferno di un mare di soldi prodotto dalle guerre/Com’è patetica la nostra apatia di fronte alla miseria degli altri/La nostra inazione di fronte al loro assassinio o alla loro schiavitù è un crimine violento. C’è la colpa e c’è l’azione/Tutto quello che chiediamo per noi è un tranquillo Eden personale/…/Nella nostra ignoranza la gente viene uccisa/Nella nostra decadenza la gente muore/…/ (For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?-1980)

For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?, opera inequivocabile fin dal titolo, esce nei primi mesi del 1980 su Y Records a rappresentare, dopo così breve tempo, una sorta di testamento politico e artistico della band, ormai giunta al capolinea della sua fugace corsa.

Più secco, diretto, esplicito e uniforme sia sotto il profilo musicale che sul versante dei contenuti, l’album conserva solo una morbida scia della vivida magia del suo nobile predecessore, del quale sembrano venire in buona parte meno l’originalissima vena creativa e le drammatiche atmosfere surrealiste.

Ciò che fin dalle prime note sembra irrimediabilmente perduto è proprio ciò che rendeva grande, unico ed irripetibile il precedente Y, vale a dire quel pathos a tratti insostenibile, quel senso di angoscia opprimente, quell’aspettativa di una catastrofe imminente che facevano di ogni ascolto un’esperienza diversa, contrastante ma ad ogni modo liberatoria. 

Confezionato in uno splendido packaging militante che comprende, oltre alla magnifica copertina, quattro fogli di controinformazione  su alcuni dei temi scottanti del cosiddetto mondo civile, il lavoro sacrifica la poesia a favore della politica e abbandona le infinite suggestioni sonore del passato per percorrere i binari di un massiccio funky  a 360 gradi.

Si tratta di un album più fisico che cerebrale insomma e non  sarebbe certo un sacrilegio immaginarlo quale danzereccia colonna sonora per una festa davvero in ove, oltre che con le gambe, si ballasse per una volta anche con la testa.

…/Nelle miniere in Bolivia/Nelle fabbriche in Sudafrica/Nelle strade in Indonesia/Sfruttamento, cupidigia/Nutriamo gli affamati.  Più di 10.000 uomini, donne e bambini/Muoiono di fame tutti i giorni/La causa principale della fame e della povertà/E’  l’avidità organizzata della razza umana/Nutriamo gli affamati.  Nei campi in Cambogia/Nelle baraccopoli in India/Nelle prigioni in Argentina/Sfruttamento della manodopera a basso costo.  Lo sfruttamento è la violenza carnale sul Terzo Mondo/I banchieri occidentali decidono chi deve vivere e chi deve morire./…/ (Feed The Hungry-1980)

Un  impressionante uno-due: Forces Of Oppression, un funky tiratissimo con incredibili inserti di chitarra ed una voce sguaiata e filtrata dai toni a tratti waitsiani, e Feed The Hungry, un accattivante reggae/dub,  costituiscono invariabilmente l’asse portante di un album che ha ulteriori punti di forza nel caos primordiale di One Out Of Many e Communicate, nei toni stemperati in odor di Giamaica di There Are No Spectators e nell’esplicito inno all’esproprio a ritmo di fanfara di Rob A Bank.

C’è solo il tempo di pubblicare, a bocce ormai ferme, il disco di out-takes ed alternate-version We Are Time (1981), che comprende materiale tratto da vecchi demo, registrazioni inedite dal vivo (Genius Or Lunatic, Spanish Inquisition) e in studio (Kiss The Book, Sense Of Purpose, Trap, Amnesty Report mk. II) oltre a versioni in presa diretta di vecchi classici (We Are Time, Thief  Of Fire) spesso penalizzate da una qualità di registrazione poco più che amatoriale, perché il torrente in piena del Pop Group rompa definitivamente gli argini a favore di un sorprendente numero di emissari diversi.

Dei quali ci basterà solamente ricordare i Pig Bag del già dimissionario Simon Underwood, titolari di un effimero successo nel nome del singolo Papa’s Got A Brand New Bag, i Maximun Joy di John Waddington e Danny Katsis, fautori di un approccio più easy al funky abrasivo del gruppo madre, e, soprattutto, i Maffia di Mark Stewart ed i Rip Rig & Panic di Gareth Sager e Bruce Smith, i più abili a raccogliere ed a portare più a lungo nel tempo lo scomodo ma inebriante testimone lasciato dal Pop Group.

Non ci sono spettatori/Devi partecipare che ti piaccia o no/Non ci sono spettatori/Sei responsabile che ti piaccia o no/Nessuno è neutrale, nessuno è innocente e nessuno sarà dimenticato/La fuga dalla realtà non equivale alla libertà/…/Certi uomini vedono le cose come sono e si chiedono perché?/Io sogno le cose come non sono mai state e mi chiedo perché no?/…/Solo tu puoi essere il tuo liberatore/ Solo tu. (There Are No Spectators-1980)

Il Pop Group consisteva nel fatto di crescere collettivamente in pubblico: terminato il periodo della crescita non avevamo più ragione di esistere. Ogni gruppo ha un periodo di vita limitato: abbiamo fatto bene a non oltrepassarlo. (Mark Stewart)

da LFTS n.59

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