DANIEL MARTIN MOORE – Golden Age
di Paolo Crazy Carnevale
31 luglio 2016
Daniel Martin Moore – Golden Age (So far Burn/Hemifran 2015)
Non è un pivellino questo songwriter del Kentucky. I suoi esordi risalgono a quasi una decina d’anni fa e da allora non si è risparmiato, producendo ben sette dischi, tra quelli da solo (come questo recente Golden Age, penultimo lavoro a tutt’oggi) e quelli in tandem con Ben Sollee o Joan Shelley (quest’ultima ospite anche in questo lavoro), il tutto senza contare i singoli o gli EP digitali.
Il debutto del nostro (e i suoi due successori) è stato addirittura su etichetta Sub-Pop sotto l’egida del produttore Joe Chicarelli, e le frequentazioni altolocate sono continuate anche negli anni a venire, dal tour britannico con Iron & Wine fino alle collaborazioni con Jim James dei My Morning Jacket che oltre ad aver prestato i suoi servigi in altre produzioni di Moore, è produttore del disco che mi sta girando nel lettore CD.
Golden Age è un disco equilibrato, dalle atmosfere molto essenziali e senza fronzoli, sorretto da una sezione ritmica talvolta non umana e soprattutto da pianoforte, organo, poche altre tastiere (suonate da Moore e da Dan Dorff Junior, suo collaboratore abituale), qualche chitarra (Jim James o Moore stesso, come nell’intro acustica della delicata To Make It True) ed una piccola sezione d’archi. Le canzoni stanno a cavallo tra certe cose del passato (più che altro quanto a echi lontani che emergono qua e là) e l’alternative rock dei giorni nostri, senza dubbio merito della produzione di Jim James che a tratti richiama alla mente oltre che naturalmente i My Morning Jacket, anche certe produzioni del grande Jonathan Wilson, in particolare quella per i Deep Dark Woods già recensita in questo sito.
La voce è interessante, molto eterea, di quando in quando richiama certe inflessioni tenorili di David Crosby, ad esempio in Proud As We Are, aperta da un pianoforte che ricorda molto il Neil Young più cupo, o nella successiva Anyway: ma non traggano in errore i paragoni, Daniel Martin Moore, non è un clone dell’uno o dell’altro, è un buon artista, capace di farsi riconoscere, magari poco incline verso soluzioni rock più spinte, ma senza dubbio apprezzabile. Oltre ad i brani citati spiccano lo strumentale (o meglio senza parole, visto che la voce c’è comunque, ulteriore richiamo crosbyano o nashiano che dir si voglia) Lily Mozelle, la ballata retrò Our Heart Will Over e la più movimentata On Our Way Home.