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THE RIDES – Pierced Arrow

di Paolo Crazy Carnevale

11 luglio 2016

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THE RIDES – Pierced Arrow (429 Records 2016)

Credo di poterlo dire a voce alta, senza tema di smentite, questo secondo disco dei Rides è un’ottima conferma per il supergruppo formato da Stephen Stills, Kenny Wayne Shepherd e Barry Goldberg; non solo, oltre ad essere un bel disco godibile di rock e blues, è sicuramente anche il miglior disco pubblicato quest’anno dalla famiglia CSNY. Bello anche il disco di Nash, certo, in linea con la sua produzione migliore come solista, che però, diciamolo, non è mai stata ai livelli di quella degli altri soci, meno bello e pasticciato il doppio di Neil Young, un live da un suono manipolato troppo in studio che non fa onore alle recenti incendiare performance dal vivo del canadese. Ma non siamo qui per parlare né di Nash né di Young, bensì dei Rides e di questa bomba ad orologeria che si intitola Pierced Arrow. Dice Stills che questa è la blues band dei suoi sogni, ma forse sbaglia, perché i Rides sono molto più di una band blues, in questo disco ci sono anche ballate intense, c’è qualche venatura soul dovuta all’inserimento di coristi e ci sono anche inserti di chitarra acustica tipicamente stillsiani. I brani sono quasi tutti composti in trio o in duo, salvo un vecchio pezzo di Goldberg ripescato dal passato ed una cover di Willie Dixon, il suono è energico, le chitarre sono sferzanti e, soprattutto, Stills e Shepherd interagiscono alla perfezione, mescolando i loro stili con sapienza ed ispirazione, mentre Goldberg s’infila con le sue tastiere che sono a seconda dei casi svisate di pianoforte quasi rockabilly o bordate d’hammond (quelle che preferisco) degne di un maestro quale lui è.

Le parti vocali sono equamente suddivise tra i due chitarristi e qui va detto che Stills è quello che si fa preferire, alla faccia dei problemi alla voce degli ultimi anni. Il brano iniziale è già una certezza, si chiama Kick Out Of It e il texano lo conduce alla grande, un modo azzeccatissimo per cominciare un disco di questo calibro, a seguire c’è la veloce Riva Diva (che reca anche la firma del bassista Kevin McCormick), cantata da Shepherd con grinta e condotta dall’inizio alla fine da un pianoforte contagioso. I brividi salgono ulteriormente con Virtual World che Stills aveva eseguito spesso nell’ultimo tour con CSN lo scorso autunno: già allora si era capito che il brano era di quelli notevoli e la conferma dell’impressione arriva con la versione Rides, una ballatona in classico stile Stills, con passaggi di chitarra da brivido. Non da meno è By My Side altro brano lento, di nuovo con la voce di Kenny Wayne e con Stephen che oltre all’elettrica tira fuori anche la Martin acustica che snocciola passaggi che profumano di vecchia California, quella che non uscirà mai dai nostri cuori. Le voci delle coriste supportano bene il cantato di Shepherd e nel coro si distingue anche Stills, che ne primo break solista infila un suo classico solo elettrico, forse troppo breve. In chiusura del lato A c’è I’ve Got Use My Imagination, composta in epoca remota da Goldberg con Jerry Goffin per Gladys Knight & The Pips, qui la voce è sempre quella dei Kenny Wayne e la versione è solida, con l’organo che impazza e le chitarre che duettano sempre in fase ispirata.

La seconda facciata del disco si pare con il blues sudista di Game On, con la voce di Stills e ancora notevoli spunti per le chitarre, poi segue Mr. Policeman, sempre con la voce del texano e un’andatura più scontata ma impreziosita da un buon uso della voce e dal pianoforte incessante. I Need Your Lovin’ è blues virato verso il rockabilly, la voce di Kenny Wayne è tagliente e le voci femminili lo supportano nel refrain mentre il piano sembra figlio di Jerry Lee Lewis. La perla totale di questa seconda facciata è una lenta blues ballad There Was A Place, con uno Stills ispiratissimo, la batteria di Chris Layton quasi in punta di piedi, l’acustica a contrappuntare, le elettriche ad urlare, i cori insinuanti e l’hammond protagonista: oltre ad essere il brano migliore della seconda facciata è una delle più belle canzoni del disco, suonata con le contropalle da questa band che convince sempre di più.

La chiusura è affidata al ripescaggio di un brano di Willie Dixon intitolato My Babe, puro Chicago blues passato già per le mani di numerosi altri artisti.

Il disco finirebbe qui, se non fosse che nell’edizione digitale sono stati inseriti come bonus altri tre brani, tutti e tre cantati da Stills e tutti e tre molto notevoli, pur non aggiungendo nulla al di là di performance ispirate e showcase chitarristici d’alta classe: si inizia con Same Old Dog, un brano originale quasi hard blues con la ritmica martellante ed uno Stills molto convincente alla voce, più interessante la versione del classico Born In Chicago, tanto per far capire quale sia la scuola blues prediletta dal gruppo: il brano di Nick Gravenites è una palestra naturale per i chitarristi e seppure ci sia sempre da fare i conti con la versione di Bloomfield, questa versione è meritevole. La chiusura definitiva è affidata alla lentissima Take Out Some Insurance, tratta dal repertorio di Jimmy Reed, forse la migliore delle tre bonus tracks.

Per completezza dirò poi che il disco è stato pubblicato in Europa dalla Provogue: l’edizione americana è con la classica scatoletta denominata jewel case, quella europea è invece in digipack, inoltre sul CD la sequenza dei brani è differente da quella su vinile che ho usato per la recensione.

THE RIDES – Can’t Get Enough

di Paolo Crazy Carnevale

27 dicembre 2013

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THE RIDES

Can’t Get Enough

(Provogue 2013)

 

Ecco uno dei dischi più inattesi di questo 2013 che volge al termine, e soprattutto uno di quei dischi belli che dissipano al primo ascolto i timori dovuti al fatto che uno dei suoi protagonisti sia Stephen Stills che, visto in azione la scorsa estate al fianco di Crosby e Nash, aveva destato qualche perplessità per lo stato della sua voce.

Sono anni che la voce di Stills è cambiata, soprattutto però, negli  ultimi tempi, si è notato quanto faccia fatica a restare intonata; ma in questo disco, condiviso con Kenny Wayne Shepherd e Barry Goldberg, i dubbi sono fugati, la voce, c’è, è quella di adesso e non quella dei verdi anni, ma c’è. E ci sono le canzoni, tutte d’impronta blues, perché con Goldberg e Shepherd va da sé che non si vada a suonare latin rock o bluegrass acustico.

Pare che il disco sia nato come una sorta di seguito del mitico Supersession a cui Stills partecipò con Al Kooper e Michael Bloomfield nel 1968, in cui suonò tra l’altro anche Goldberg, ma, diciamolo subito a scanso di equivoci, questo Can’t Get Enough è un’altra cosa. Non peggiore, né migliore, solo un’altra cosa. Innanzitutto nel disco del 1968 Bloomfield e Stills non apparivano negli stessi brani, il leader era Kooper e Goldberg non c’era nei brani in cui suonava Stills.

Qui invece i tre sono onnipresenti in tutte le tracce del disco, Stills canta (mentre in Supersession si limitava a suonare) ed è lui il leader, le chitarre sono sempre due e perfettamente distinguibili.

Fatta questa precisazione vi dirò che il disco è gran bello, carico di energia, di voglia di suonare, di suoni ben fatti e canzoni ispirate. Ci sono brani nuovi e originali e ci sono cover, ma sono i primi a trionfare, a testimonianza di una buona vena compositiva del trio. Già dall’apertura si capisce che il gruppo funziona (la sezione ritmica è per metà CSN e per metà Double Trouble) e che l’abbinamento tra il vecchio leone texano ed il giovane Kenny Wayne è azzeccato. C’è sì il blues più canonico, ma ci sono anche quelle intuizioni bluesistiche sempre virate al rock che da sempre abbiamo riscontrato nel repertorio di Stills.

Roadhouse apre le danze alla grande, Don’t Want Lies e Can’t Get Enough – sto occupandomi dei brani nuovi – sono ancor meglio con Stills che canta motivato e le chitarre che incendiano tutto quello che trovano sul loro cammino. Kenny Wayne canta una scanzonata rilettura di Search & Destroy degli Stooges, la classica Talk To Me Baby e con Stills duetta in Rockin’ In The Free World (fateci caso, è dal 1975 che in quasi ogni disco solista di Steve c’è un brano con la firma di Neil Young!).

Stills dal canto suo è protagonista anche in una lunga versione dello standard Honey Bee, della nuova composizione Only Terdrop Fall (con hammond e chitarre in delirio) e dell’high light del disco, la conclusiva Word Game, un gran brano che in versione acustica era stato pubblicato sul suo secondo disco solista ed era anche stato preso anche in considerazione dai Manassas (come testimonia la versione sottotono apparsa sul recente disco d’archivio Pieces). La nuova versione è elettricità allo stato puro, il gruppo sembra fatto apposta per questo brano e Stills lo canta con un trasporto invidiabile, tanto da averlo reso un must nei concerti che il gruppo ha tenuto nel corso del tour autunnale con cui promuove il disco.