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FOGHAT – Live At The Belly Up

di Paolo Baiotti

20 luglio 2017

foghat

FOGHAT
LIVE AT THE BELLY UP
Foghat Records 2017

Cari vecchi inossidabili Foghat, ancora on the road 46 anni dopo la loro nascita! A dirla tutta della formazione originale, nata da una spaccatura all’interno dei Savoy Brown, con il leader Kim Simmonds da una parte e Lonesome Dave Peverett (chitarra), Tony Stevens (basso) e Roger Earl (batteria) dall’altra, è rimasto il solo Roger Earl. Lonesome Dave è morto nel 2000 (ma aveva lasciato i Foghat nell’84), Tony Stevens è rimasto solo fino al ’75. L’attuale line-up comprende Charlie Huhn alla voce (Ted Nugent, Deadringer, Humble Pie, Victory, Gary Moore, con i Foghat dal 2001), Bryan Bassett all’elettrica e slide (dal ’99 ad oggi con i Foghat, prima con i Molly Hatchet, Wild Cherry e con Lonesome Dave) e Rodney O’Quinn al basso (ex Pat Travers Band, ha appena sostituito Craig MacGregor, titolare dal 1976 al 2016, ora fermo per seri problemi di salute). Band consolidata e ben oliata, formata da professionisti seri e stagionati, ancora molto popolare negli Stati Uniti dove suona regolarmente (e nel tempo libero produce vino di ottima qualità), ha mantenuto le radici blues, indurendo e americanizzando un po’ il suono. Questo live è stato registrato a Solana Beach in uno dei clubs più famosi della California, durante un tour in cui è stato riproposto nella sua completezza Foghat Live, il disco più famoso del quartetto.

Invece questo nuovo Live alterna classici a tracce più recenti, L’energico inizio di Fool For The City in medley con Eight Days On The Road è un biglietto da visita dinamico e robusto che dimostra come il rock blues sia sempre la base del suono. Magari un po’ più duro e grezzo rispetto agli anni settanta quando le chitarre di Peverett e Price erano in grado di esibirsi in modalità più estese e diverse, accentuando gli aspetti bluesati, mentre oggi sia la voce più vicina all’hard rock di Huhn che la chitarra di Bassett evidenziano una maggiore graniticità. Dal recente Under The Influence vengono eseguite la trascinante title track, Knock It Off che anche dal vivo si potrebbe scambiare per una outtake degli Ac/Dc e il mosso singolo boogie Hot Mama. Dal lontano passato si apprezzano il ripescaggio di Terraplane Blues con la slide di Bassett in primo piano e una jam strumentale notevole, della grintosa Stone Blue e dell’indiavolato up-tempo boogie-rock Drivin’Wheel da Night Shift, trascinato dalla slide. Nel finale, dopo l’improvvisato slow California Blues (in fondo non sono poi così grezzi neanche adesso…) due classici inevitabili: l’irresistibile I Just Wanna Make Love To You (Willie Dixon) introdotta dal basso e da un duello lancinante tra le chitarre e Slow Ride di Dave Peverett, cadenzato hard-blues, anthem della band, salito al n. 20 nella classifica dei singoli, che portò l’album Fool For The City ai limiti della Top 20 americana, eseguito alla grande con un’accelerazione finale travolgente. Disco solido più che dignitoso per una band così stagionata, che da sempre trova la dimensione migliore sul palco.

FOGHAT – Under The Influence

di Paolo Baiotti

1 ottobre 2016

Foghat-Under-The-Influence

FOGHAT
UNDER THE INFLUENCE
Foghat Records 2016

Pur essendo considerati uno dei gruppi di classic rock americano più popolari degli anni settanta, i Foghat hanno origini inglesi, nascendo dal ceppo del british blues dei Savoy Brown. Nel ‘70 Kim Simmonds, chitarra solista e leader indiscusso della formazione, decide di cambiare per l’ennesima volta la line-up e scarica Dave Peverett (chitarra e voce), Roger Earl (batteria) e Tony Stevens (basso). Il trio prosegue insieme formando i Foghat con Rod Price (chitarra solista e slide, ex Black Cat Bones). Dall’omonimo esordio del ’72 prodotto da Dave Edmunds sono passati più di 40 anni, ma il gruppo è ancora attivo specialmente negli Usa dove ha una solida popolarità, anche perché le radio continuano a trasmettere i loro successi di quel decennio testimoniati da otto dischi d’oro o di platino. Alla fine degli anni settanta le vendite sono diminuite e la formazione si è sfaldata iniziando una serie di cambiamenti senza fine. L’unico membro originale ancora in sella è Roger Earl; Rod Price ha lasciato nell’80 (ed è morto nel 2005), Dave Peverett nell’84 (ed è morto nel 2000), Tony Stevens nel ’75. Ognuno di loro è tornato per qualche tempo nel gruppo, fino alla ricostruzione del quartetto originale nel ’94, durata cinque anni e un paio di dischi. La formazione attuale oltre a Earl comprende Craig MacGregor al basso, Bryan Bassett (Molly Hatchet) alla chitarra e slide e Charlie Huhn (Ted Nugent, Gary Moore, Humble Pie) alla voce e chitarra, che suonano insieme da più di quindici anni. Caratterizzati da sempre da un boogie influenzato dal blues e potenziato dai decibel di un hard rock non troppo pesante, i Foghat hanno accentuato la durezza del suono con l’inserimento di Huhn e Bassett, pur mantenendo le influenze blues. Anzi Last Train Home del 2010 ha rappresentato un ritorno alle radici voluto da Earl per ricordare Peverett. A sei anni di distanza, promosso da una campagna di grande successo su Pledge Music, esce Under The Influence, prodotto dall’esperto Tom Hambridge (George Thorogood, Buddy Guy, Susan Tedeschi…) e inciso nei casalinghi Boogie Motel South in Florida e nei Dark Horse Studios di Nashville con alcuni ospiti: il cantante e chitarrista Scott Holt, l’ex bassista e produttore della band Nick Jameson, la cantante Dana Fuchs e soprattutto il vecchio collega Kim Simmonds.
Under The Influence è un disco di rock energico e dinamico, a partire dalla trascinante title track nella quale spicca la slide di Simmonds. Se qualche traccia non brilla per originalità come la dura Knock It Off che potrebbe essere scambiata con una outtake degli Ac/Dc (ricorda Girls Got Rhythm) e la cadenzata Ghost, complessivamente il quartetto se la cava egregiamente, dalla bluesata She’s Got A Ring In His Nose al funky swingato di Upside Of Lonely illuminato dalla solista di Simmonds, dalla robusta cover di Heard It Through The Grapevine alla brillante ripresa di Made Up My Mind dal repertorio dei Savoy Brown, dal singolo Hot Mama che riproduce il suono del periodo migliore della band alla mossa Honey Do List cantata da Scott Holt e Dana Fuchs, per chiudere con l’energica ripresa di Slow Ride, il brano più famoso dei Foghat, inciso su Fool For The City nel ’75 e dal vivo nel classico Foghat Live del ’77.

FOGHAT – Last Train Home

di Paolo Baiotti

28 marzo 2014

Foghat,_Last_Train_Home_Album_Cover

 

FOGHAT

Last Train Home 

2010    Foghat Records   

 

Alla fine degli anni sessanta Roger Earl (batteria), Lonesome Dave Peverett (chitarra e voce) e Tony Stevens (basso) fanno parte dei Savoy Brown guidati dal chitarrista Kim Simmonds. La loro popolarità è in crescita negli Stati Uniti dove sbarcano a seguito del successo di Looking In entrato nei top 40 di Billboard. Durante il tour americano le divergenze tra Simmonds (che voleva guidare da solo il gruppo) e gli altri si accentuano fino alla clamorosa separazione. Kim prosegue con i Savoy Brown, tuttora attivi con il chitarrista come unico leader e membro originario, mentre gli altri formano i Foghat con l’aggiunta di Rod Price, accentuando le influenze rock rispetto al blues e al boogie della band precedente. Lavorano duro, suonano ovunque e pubblicano parecchi album  diventando molto popolari negli Usa, collezionando dischi d’oro e un paio di platino, Fool For The City del ’75 e il seminale Foghat Live del ’77 (doppio platino), uno dei classici live di rock blues degli anni settanta. Stevens lascia nel ’74 sostituito da Craig MacGregor, ma gli altri resistono insieme fino all’80 quando Price abbandona, seguito cinque anni dopo da Peverett. La band non si scioglie perché Earl prosegue con altri musicisti finchè negli anni novanta tornano anche Peverett e Price. Nel ’98 Lonesome Dave si ammala, resiste qualche mese, ma deve lasciare la band alla fine del ’99 e questo mondo nel febbraio successivo. I Foghat non si sciolgono e con un paio di aggiustamenti proseguono fino ai giorni nostri con Earl, MacGregor al basso, Bryan Bassett alla chitarra (ex Wild Cherry e Molly Hatchet) e Charlie Huhn alla voce e chitarra (ex Humble Pie, Ted Nugent e Victory). La scelta di un cantante influenzato dall’hard rock come Huhn accentua la durezza del suono, ma senza esagerare in quanto Charlie ha una voce non troppo lontana da quella di Peverett. Questa line-up si dimostra solida e adeguata a riproporre i successi dei seventies, mantenendo un discreto seguito e pubblica anche dischi nuovi in studio come il discreto Family Joules  e questo Last Train Home, un ritorno al blues da tempo desiderato da Earl. Con l’aiuto del fratello Colin alle tastiere, Jeff Howell al basso e di un paio di ospiti, i Foghat alternano covers più o meno famose a qualche originale incidendo a New York negli Eko Studios e nei Boogie Motel South di proprietà della band. Ovviamente è un blues impregnato di rock, energico e potente, ma rispettoso degli originali, con la slide di Bassett protagonista in molte tracce a partire dall’opener Born For The Road, per proseguire con la title track e con lo slow di Elmore James It Hurts Me Too. Elettrica e slide si alternano e sovrappongono in Louisiana Blues di Muddy Waters, un classico dei Savoy Brown dai tempi di Blue Matter e nel notevole slow So Many Roads. Il trascinante strumentale 495 Boogie con l’armonica dell’amico Lefty Lefkowitz e il cadenzato medley Rollin’ & Tumblin’/ You Need Love ci portano alla parte conclusiva che comprende due brani con la voce e la chitarra di Eddie “Bluesman” Kirkland, uno degli ultimi originali del blues (dal ’49 al ’62 con John Lee Hooker prima di intraprendere una carriera solista). Il lento In My Dreams e il mid-tempo Good Good Day sono le chicche del disco, due tracce di blues puro nelle quali i Foghat si dimostrano eccellenti accompagnatori anche senza spingere sull’acceleratore.