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ROBERT RANDOLPH & THE FAMILY BAND – Brighter Days

di Paolo Crazy Carnevale

2 dicembre 2019

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Robert Randolph & The Family Band – Brighter Days (Provogue 2019)

Non c’è ormai dubbio, Robert Randolph va via via maturando: non che prima fosse acerbo, strumentalmente aveva dato ampie dimostrazioni di classe e abilità strumentale già dal primo disco “vero”, quello sotto la denominazione The Word, il supergruppo con i North Mississippi Allstars e John Medeski, un caposaldo assoluto della musica strumentale, del genere jam e, se vogliamo, anche di un certo modo di fare southern rock.

CI sono voluti un po’ di anni e un po’ di dischi da solista però per arrivare ad avere dei prodotti che stiano insieme anche senza dover andare a pescare ospiti titolati per attirare l’attenzione: se il precedente LP di Randolph, I Got Soul era stato una bella conferma dello status raggiunto come performer live, questo nuovo disco lo è ancor di più. Merito senz’altro della produzione mirata e ben costruita di Dave Cobb, che già pochi mesi prima era stato il gran rifinitore del gran disco della Marcus King Band. Anzi, personalmente trovo Cobb più idoneo a produzioni elettriche e per così dire di matrice rock-blues che non quando siede in regia per i cantautori di Nashville.

Nashville è però il suo locus operandi e quindi anche il disco di Randolph e famiglia è stato registrato nella città musicale del Tennessee.

Niente ospiti di grido, solo un coro di voci soul e la chitarra dello stesso Cobb, per il resto è tutta farina delle chitarre di Robert, della batteria del fratello Marcus, delle voci di Lanesha (la sorellona) e di Steven Ladsen, del basso suonato dal cugino Danyel Morgan, tornato in seno al gruppo, e delle splendide tastiere di Philip Towns.

Il risultato è uno dei dischi migliori dell’anno, che si gioca la palma con quello dei Long Ryders e quello delle Ace Of Cups (in realtà uscito a fine 2018).

Ovviamente a guidare le danze è sempre la pedal steel multisonora suonata dal leader di questa splendida famiglia musicale, Randolph si conferma sovrano nella padronanza di questo strumento, che suona con la stessa aggressività e pirotecnicità con cui Jimi Hendrix suonava la Stratocaster bianca che ben sappiamo. Non solo è in costante crescita anche a livello vocale.
Rock e blues, anzi, più che blues, soul: rock e soul. Questo è il termine giusto per definire la musica di Brighter Days.

La prima facciata è da urlo, cinque brani, uno dietro l’altro, col gruppo in tiro da battaglia. In apertura c’è già uno dei brani migliori, con la chitarra che si sbizzarrisce e l’organo che si infila dappertutto: si tratta di Baptise Me, cantato benissimo da Robert con la sorella Lanesha che gli mette a disposizione una voce intrisa di anima e cuore da manuale. Don’t Fight Me è invece un brano da combattimento bello e buono, di quelli utili per incendiare le esibizioni sul palco, pedal steel tiratissima, soprattutto nel finale, un boogie virato al funk come non è da tutti fare.

Poi, spiazzando tutti, Robert sfodera una versione da pelle d’oca di Simple Man, di Pops Staples, e l’atmosfera si rende più intima, la voce di Randolph è perfettamente a proprio agio con l’atmosfera e le chitarre (la sua e quella di Cobb) creano una situazione notturna impreziosita dal lavoro di Philip Towns al piano elettrico. Applausi. Come se non bastasse nel brano seguente, Have Mercy, sul tappeto di tastiere Robert duetta con Lanesha resuscitando immagini sonore di un country/soul/rock che temevamo perduto nelle pieghe dei primi anni settanta. La pedal steel è lancinante, il lavoro del basso eccellente quando fondamentale: il duetto tra i due fratelli ricorda quelli eccelsi di Delaney & Bonnie (altra coppia di parenti musicali a me molto cara).

Di nuovo applausi.

Poi, a chiudere la prima facciata, Cut Em Loose, brano più veloce, tosto e, soprattutto sempre molto ispirato.

La seconda parte (il vinile è color viola, bellissimo!) si apre con un piano che ricorda certe cose di Leon Russell, quello dei tempi d’oro: il brano è Second Hand Man, molto elettrico, corale, niente vocalizzi elettrizzanti ma grande dispiego di chitarre. Cry Over Me è invece una ballatona cantata dalla sola Lanesha. L’interpretazione è buona, sotto la voce si muovono piano e organo, Lanesha canta bene, forse il brano è un po’ ripetitivo, o forse solo troppo lungo. Soul pop, e ancora viene in mente Leon Russell (magari quando girava con Joe Cocker), è la matrice di I Need You, un’altra ballata struggente in cui Randolph alla voce duetta con la sua pedal steel, ben supportato dalle tastiere. È poi la volta di una bella cover di Little Milton, I’m Living Off The Love You Give: grande resa, molto solida, ben cantata con CObb alla ritimica in odor di Doobie Brothers e California w Randolph che spazia su tutto il manico della pedal steel. Più di maniera la finale Strange Train, sferragliante boogie cantato da tutti all’unisono, con una bella parte rallentata nel mezzo ed il basso in grande evidenza nell’incandescente parte finale.

ROBERT RANDOLPH & THE FAMILY BAND – Got Soul

di Paolo Crazy Carnevale

3 gennaio 2018

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ROBERT RANDOLPH & THE FAMILY BAND – Got Soul (Dare Records/ Sony Masterworks 2017)

Nel panorama delle uscite a cavallo tra rhythm’n’blues, soul, funk rock, il disco di Robert Randolph è sicuramente quello che racchiude le maggiori influenze e di conseguenza che esprime tutte le contaminazioni dei generi suddetti, incluso certo rock sudista così distante dalle radici newyorchesi del titolare. Partendo dal gospel strumentale che il nostro aveva cominciato a suonare con la sua pedal steel nelle chiese, la musica della Family Band si è evoluta, allargata, adora jammare, tanto che nelle serate dal vivo i brani si confondono l’uno con l’altro, tutti i componenti del gruppo diventano cantanti e viene fuori anche tutto quello spirito hendrixiano di cui Randolph e parenti fin da subito sono stati identificati come latori e discepoli.

In studio le cose cambiano un po’, nel senso che i brani sono più definiti, il sound è studiato a tavolino e questo settimo disco della formazione (il quinto in studio) pare essere, per ora, il più interessante, il più maturo, pur ricalcando ampiamente la struttura dei suoi predecessori nell’uso di guest vocalist e di inserire cover d’autore nelle scalette a base di composizioni originali.

Il cugino Marcus siede ai tamburi e la sorella Lanesha fornisce le backing voclas con Candice Anderson, Stevie Ladson e Johnny Gale, l’hammond è affidato alle dita sapienti di Raymond Angry e il basso è opera di Derrick Hodge che però non fa parte della Family Band on stage.

Il lato A della versione in vinile (uno spettacolare gatefold con una bella foto di Randolph elaborata al computer) si apre con un medley tra la Got Soul, la title track, e She Got Soul, la band stantuffa e offre subito spunti al leader per i suoi ricami a base di pedal steel. Due composizioni un po’ routinarie per la verità, ma comunque buone per aprire le danze. A cantare con Randolph, nel secondo dei due pezzi troviamo il cantautore e produttore Anthony Hamilton.

Il decollo vero e proprio di questo LP arriva con la terza traccia, l’hit single dischiarato dallo sticker apposto sul cellophane, Love Do What It Do, l’amore fa quel che fa, e la voce solista è quella di Darius Rucker che contribuisce a far volare il brano lasciando libero Randolph di librarsi con la sua pedal steel divincolandosi tra le trame tessute dall’hammond. Shake It è un altro buon brano originale con la band che pompa alla grande prima di lanciarsi tra le raffinatezze soul di I Thank You, a firma Hayes-Porter, che era stata un successo per Sam & Dave. Qui è l’ospite Corey Henry che duetta alla voce con Robert e rileva l’hammond dalle mani di Angry. La versione è molto riuscita ed il brano splendidamente rivestito a nuovo. La chiusura della prima facciata è affidata alla breve perla strumentale Heaven’s Calling, una specie di dimostrazione di che voce possa venir fuori dallo strumento del titolare, qui molto dalle parti dei due dischi incisi col quintetto The Word (con i fratelli Dickinson, John Medeski e il bassista Chris Chew).

La seconda facciata del disco è, se possibile, ancora più energica, molto robusta, nell’iniziale Be The Change hanno spazio per cantare non solo come coristi anche Lanesha e Johnny Gale, Find A Way è un ottimo brano dalla struttura elaborata che sembra finire in un altro brano, purtroppo sfumato, in cui l’atmosfera si rallenta, probabilmente per riesplodere come accade nei concerti del gruppo di solito. I Want It è dinamite, Randolph paga pegno a Jimi Hendrix nel riff del brano e tutti i cantanti ci danno dentro mentre oltre alla pedal steel del leader troviamo anche l’elettrica di Eric Gales.

Travelin’ Cheeba Man è forse il brano in cui si fanno sentire maggiormente le influenze di certo rock sudista, si tratta di uno strumentale dall’andatura un po’ boogie che Robert Randolph e parenti riescono domare con sapienza. Lovesick è ancora un buon veicolo per le acrobazie del titolare con la sua pedal steel, la sezione ritmica ci dà dentro come uno stantuffo.

La chiusura è affidata alla riuscitissima Gonna Be Alright, brano dalle fattezze meno muscolari e denso di quella raffinatezza che sul lato A era affidata al brano di Sam & Dave, la voce solista è quella di Steve Ladson, decisamente più soul di quella di Randolph che qui ne approfitta per dare un altro saggio di abilità duellando con l’elettrica di Gales, mentre l’organo, continua ad essere protagonista creando i tappeti su cui voci e chitarre possono camminare comodamente e morbidamente.

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/25

di Paolo Crazy Carnevale

14 giugno 2013

ligro

LIGRO – Dictionary 2 (Moonjune 2012)

 

Con l’Italia, l’Indonesia è sicuramente uno dei paesi più rappresentati nel catalogo della label newyorchese Moonjune Records, che continua a sfornare interessanti produzioni nel campo del jazz rock, progressive e art-rock, in questo caso con atmosfere addirittura gotiche già annunciate dalla copertina del disco in questione.

Questa volta tocca ad un trio di Jackarta che ci conferma l’esistenza di una solida ed interessante scena musicale laddove meno ce lo saremmo aspettato.

Il nome del gruppo – un classico trio chitarra, basso e batteria – altro non è che la scrittura al contrario del vocabolo “ogril” che nella lingua nazionale indonesiana significa gente pazza.

Registrato in Indonesia nel 2011, il disco si compone di otto tracce, tutte piuttosto lunghe, in cui si va a trarre ispirazione, di volta in volta in Robert Fripp, Jimi Hendrix, John McLaughlin fino a Terje Ripdal, ma nelle composizioni ci sono ampi riferimenti e citazioni anche alla musica classica e contemporanea, nella fattispecie a Igor Stravinsky e a J.S. Bach.

A fare la parte del leone è il chitarrista del gruppo, Agam Hamzah, seguito diligentemente dai due soci nei continui cambi di ritmo delle composizioni.

Un brano su tutti: la policroma e ispirata Future.

 

 

copernicus deeper

COPERNICUS –Deeper (Nevermore 1987/2012)

 

Non è il nuovo disco di Copernicus, il poeta undeground rock newyorchese, questo Deeper è la versione in CD di un suo vecchio vinile del 1987 che ora viene ripubblicato con distribuzione Moonjune Records come era accaduto a due lavori che lo avevano preceduto in una serie di ristampe programmatiche che un po’ alla volta hanno il compito di mettere a disposizione in versione digitale tutta l’opera di questo curioso personaggio.

Come nelle altre produzioni, incluse quelle più recenti, il poeta è accompagnato dai fidi Larry Kirwan (quello dei Black 47) e Pierce Turner, due artisti irlandesi, da tempo stabilitisi nella grande mela, con carriere musicali autonome e cospicue, che forniscono la base musicale dei dischi di Copernicus e lo accompagnano anche on stage, come testimonia il DVD praghese uscito un paio di anni fa.

Rispetto ai dischi precedenti ci sono molti più musicisti coinvolti, con uso di violini, varie chitarre, tastiere, addirittura un pianoforte, e poi flauti andini, percussioni, fiati, bodhram – a testimoniare le origini irish dei due accompagnatori principali – e su tutto, ovviamente lo sgraziato recitato/cantato del leader che quasi declama i suoi versi con disperazione.

Ci sono alcuni dei brani più interessanti, non a caso questo Deeper è tra i dischi più gettonati dal nostro durante i concerti: c’è la drammatica Son Of A Bitch Of The North in cui si denunciano gli abusi dei gringos nei paesi latinoamericani, e c’è Chichen Itza Elvis, in cui Kirwan e Turner fanno eco alle declamazioni di Copernicus con citazioni da Hound Dog, Can’t Help Falling In love With You e altri brani di presleyana memoria.

Un paio di ulteriori citazioni per la cupa Once Once Once Again, per la suggestiva Disco Days Are Over, sottolineata magistralmente proprio dal bodhram, quel particolare tipo di percussione originaria dell’area celtica che produce un suono che da solo può tenere in piedi un brano, e per concludere The Death Of Joe Apples, aperta da un’intro di ottoni con un sound che più newyorchese non si potrebbe.

 

 

poco all fired up

POCO – All Fired Up (Drifter’s Church Productions 2013)

 

In copertina il profilo del cavallo in fiamme sembra volerci dire che i Poco cavalcano ancora. Quanto a cavalcare, niente da dire. Il problema è il nome del gruppo. Poco. Non per fare giochi di parole, ma oltre al nome del gruppo, poco sembra essere anche quanto è rimasto della gloriosa formazione che abbiamo amato negli anni settanta in quella che cavalca in questo secondo decennio del terzo millennio, sotto la guida di Rusty Young, unico componente originale rimasto nel gruppo.

Diciamolo senza tema di smentite, se Rusty Young ha caratterizzato per anni il suono della band con la sua pedal steel, la sua voce non è sicuramente di quelle che fanno impazzire, troppo zuccherosa: i vocalist nei Poco erano ben altri e molto più dotati. Eppure questo All Fired Up non è un brutto disco, solo non riesce ad essere un disco dei Poco. Young e suoi soci attuali (il bassista Jack Sundrud e il polistrumentista Michael Webb, già coi Brooklyn Cowboys) ce la mettono tutta ma il risultato è anonimo, potrebbe essere chiunque ad aver registrato il disco, i suoni non sarebbero male, il dobro nelle mani di Young viaggia bene, il piano di Webb anche – ma quando mai il piano è stato determinante nella musica dei Poco? -, le canzoni scorrono piacevolmente, ma non è un disco dei Poco. D’altra parte, ammettiamo pure questo, i Poco geniali e innovativi non sono quelli dei dischi con il  logo del cavallo in corsa, quel logo è arrivato dopo, col successo di vendite, quando il gruppo pubblicò Legend nel 1978. Nei Poco delle origini, quelli in cui un inconsolabile Richie Furay si struggeva per non riuscire ad ottenere il successo degli ex soci Steve Stills e Neil Young, ed era vessato dal fatto che i Poco dimissionari (Messina e Meisner, ma più tardi anche Schmidt) ottenessero immensi riscontri mentre lui non se lo filava nessuno, nei Poco delle origini dicevo, c’erano gli impasti delle voci, c’erano le chitarre, le grandi canzoni e la produzione di studio era improntata in direzione di una ricerca sonora non da poco. I Poco degli ultimi trent’anni hanno continuato a cavalcare su terreni lontani da quelli delle origini, a volte incidendo dischi da dimenticare, altre ritrovando sprazzi di serenità e motivazione, come nel disco dal vivo – con tanto di dvd – in cui per una volta Furay tornava a fianco degli ex soci. Non mancano buone intuizioni in questo disco, la title track è buona, Hard Country convince particolarmente, Love Has No Reason viaggia bene. Per contro Rockin’ Horse dall’andamento finto blues è abbastanza fiacca, nonostante alcuni cori azzeccati, d’altra parte riuscite ad immaginare la voce al miele di Rusty Young alle prese con un riff dalle pretese black? Neil Young (Is Not My Brother) prende lo spunto dal fatto che in passato è girata di tanto in tanto la voce che Rusty e Neil fossero fratelli: il chitarrista dei Poco sembra quasi  polemico a riguardo e il brano è cantato imitando proprio il canadese, con tanto di armonica, magari le intenzioni erano buone ma il risultato convince poco, non andando molto al di là della parodia. Persino lo strumentale a base di dobro, Pucky Huddle Stomp, è ben lontano dagli strumentali che Rusty ha composto in passato.

In definitiva, nessuno vieta a Young (Rusty ovviamente) e ai suoi nuovi soci di continuare a fare musica, ma saremmo loro grati se lo facessero senza scomodare un nome che negli anni settanta ha significato qualcosa per molti.

 

 

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ROBERT RANDOLPH & THE FAMILY BAND – Live In Concert (Dare Records 2012)

 

Un grande in tutti i sensi questo Robert Randolph, sia per come suona la pedal steel sia per come usa questo strumento inserendolo in un contesto totalmente diverso da quello in cui siamo solitamente abituati ad ascoltarlo. E la dimensione live è di certo quella che gli si confà maggiormente. Il suo esordio è avvenuto nel 2001 per caso, quando, scoperto miracolosamente – è il caso di dirlo – nel circuito dei suonatori di pedal steel da chiesa, prende parte al suo primo disco importante, The Word, un progetto a tutt’oggi insuperato in cui fa parte di un supergruppo che comprende i North Mississippi All Stars e John Medeski. Di fatto il disco era stato concepito e costruito ad arte proprio per far emergere questo giovane talento. A quel disco hanno fatto seguito i diversi episodi della Family Band in cui Robert è affiancato dai cugini Marcus e Danyel, dalla giunonica sorella Lenesha e altri amici che lo assistono nel mettere insieme un suono che oscilla tra funk e blues, con inevitabili sfumature gospel. Questo disco dal vivo è il quinto inciso dalla formazione (che per la cronaca aveva esordito con un altro live nel 2002) ed è una delle cose migliori in cui compare il nome di Randolph, seconda solo a The Word. A parte infatti il primo disco di studio, le altre prove del nostro non sono parse troppo convincenti, nemmeno quando a produrlo si è scomodato addirittura T-Bone Burnett: il problema sta probabilmente nelle composizioni, non sempre azzeccate. Dal vivo però viene fuori tutta la grinta, tutta l’arte, tutta la grandezza di questo musicista che oltre a saper fondere diverse influenze, dimostra di aver una vasta conoscenza del patrimonio della black music, che sa sfruttare e adattare alla bisogna, usando brani di illustri colleghi per dare sfogo al proprio talento.

Il disco si apre con Travelin’ Shoes, firmata con Burnett e Tonio K (!) e tratta dal più recente disco di studio, un buon brano che però nella melodia ricorda troppo la Sailin’ Shoes di Lowell George, Squeeze è invece di pasta più solida e memorabile, con passaggi southern rock che ricordano l’Allman Brothers Band di quando c’era ancora Dickey Betts, Shining Star invece rende maggiormente l’idea dell’abilità della formazione nel fondere funk e blues alla maniera di Sly Stone, Don’t Change è un solido rock che si avvale di una grande introduzione strumentale.  Il vero talento esplode però più avanti, prepotentemente, con gli strumentali Sacred Steel, in odor di Hawaii e soprattutto con Electric Church e Peckaboo, autentici e riusciti tour de force per Randolph e soci, che nel corso del disco sono affiancati anche da ospiti, ma il booklet preferisce indugiare sulle foto – peraltro belle – del gruppo che non nello specificare chi suona e dove suona.

Sicuramente ci sono altri suonatori del circuito pedal steel da chiesa – che con Randolph scambiano assoli a ripetizione – e c’è Susan Tedeschi. Ma le delizie scaturiscono anche quando il protagonista fa duettare la sua pedal steel con l’organo di Brett Haas. Tra gli artisti a cui si rende omaggio ci sono gli Staple Singers con una bella versione di I’ll Take You There, Prince di cui viene eseguita Walk Don’t Walk e l’immancabile Jimi Hendrix, con una Purple Haze per nulla scontata.