Posts Tagged ‘Kate Campbell’

KATE CAMPBELL – Damn Sure Blue

di Paolo Baiotti

12 dicembre 2018

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KATE CAMPBELL
DAMN SURE BLUE
Large River Music 2018

Ci siamo occupati di Kate nel 2016, in occasione dell’uscita di una raccolta, The K.O.A. Tapes Vol. 1 che raccoglieva brani incisi prevalentemente sul cellulare in diversi periodi, spogli e minimali. Damn Sure Blue è il suo ultimo disco inciso da Will Kimbrough, che in passato ha prodotto Rodney Crowell, Todd Snider, Kim Richey, Garrison Starr, Matthew Ryan e Josh Rouse e collaborato con quasi tutti (da Mark Knopfler a Steve Earle, da John Prine a Mavis Staples) nel suo studio di Nashville. Oltre a produrre Will ha collaborato nella scrittura e ha suonato chitarra, basso, tastiere mandolino e banjo, coadiuvato da Bryan Owings alla batteria, Chris Carmichael al violino e Phil Madeira alla fisarmonica.
Nata a New Orleans nel 1961, cresciuta nel Nord del Mississippi in un ambiente tradizionale con un padre pastore battista, Kate è vissuta in una casa piena di musica, con una madre cantante e pianista e una nonna violinista. Ha studiato piano classico e clarinetto, poi si è spostata alla chitarra, coltivando anche l’interesse per lo studio, ottenendo la laurea in storia all’università di Auburn. Dopo essersi trasferita a Nashville, ha debuttato nel ’95 con l’ispirato Songs From The Levee seguito da una corposa discografia in cui ha evidenziato qualità non comuni di scrittura in ambito folk e Americana, influenzata dalla letteratura del Sud (in particolare da Flannery O’Connor), creandosi un seguito di nicchia che non si è mai espanso a livelli più alti che avrebbe meritato di raggiungere. Probabilmente le mancano l’immagine di altre colleghe e il sostegno di una casa discografica solida, ma è un peccato. Damn Sure Blue difficilmente cambierà la situazione, pur essendo un album curato dal punto di vista degli arrangiamenti che scorre fluido, facendo risaltare capacità compositive e interpretative notevoli. Tra i brani autografi citerei la disinvolta title track e il country Long Slow Train (ispirato dal suono di Johnny Cash), entrambe composte con il cantautore Tom Kimmel, il folk acustico della dolce This, And My Heart Beside, il roots spigliato di When You Come Back Home e la notevole ballata Sally Maxcy, arrangiata con chitarra acustica e piano. Quanto alle cover spiccano una coraggiosa rilettura di Ballad Of Ira Hayes più narrata che cantata e i due brani posti in chiusura, la ballata Forty Shades Of Green di Johnny Cash con una fisarmonica struggente e il gospel-folk Peace Precious Peace di David Akerman.
Damn Sure Blue è un disco curato e profondo di un’artista da riscoprire.

KATE CAMPBELL – The K.O.A. Tapes (vol. 1)

di Paolo Baiotti

30 luglio 2016

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KATE CAMPBELL
THE K.O.A. TAPES (VOL. 1)
Large River Music 2015

Figlia di un pastore battista, nata a New Orleans nel ’61, cresciuta nel nord del Mississippi prima di stabilirsi a Nashville, Kate è vissuta in un ambiente pieno di musica, con una madre cantante e pianista e una nonna violinista. Dopo avere studiato piano classico e clarinetto, si è spostata sulla chitarra, coltivando anche l’interesse per lo studio fino alla laurea in storia all’università di Auburn.
Ha debuttato nel ’95 con l’ispirato Songs From The Levee, seguito da una dozzina abbondante di dischi nei quali ha evidenziato le sue capacità di narratrice influenzata nei testi e nelle atmosfere dal retaggio religioso di famiglia e da autori della letteratura americana quali Flannery O’Connor e William Faulkner e nella musica da tradizione folk, country, blues e rhythm and blues. A meno di tre anni da Due South Co-Op, disco inciso con The New Agrarians, band formata con Pierce Pettis e Tim Kimmel, Kate propone una raccolta di brani incisi prevalentemente sul cellulare, nel suo salotto o in albergo, registrazioni casalinghe in alcuni casi completate da successivi interventi di qualche collaboratore come Spooner Oldham alle tastiere, John Kirk al violino, Missy Raines al basso e Laura Boosinger al banjo, mentre Kate suona chitarra e tastiere. Tracce prevalentemente acustiche, molto scarne (a volte anche troppo), alcune precedute da brevi presentazioni, che compongono un puzzle interessante per verificare le influenze e le passioni dell’artista, ma non costituiscono un disco essenziale nella sua produzione. La scelta delle covers denota la passione (inevitabile) per songwriters come Paul Simon (America), Kris Kristofferson (una delicata Me And Bobby McGee) e Richard Thompson (From Galway To Graceland). Tra gli altri brani spiccano la ballata Greensboro, il tradizionale I Am A Pilgrim, l’intima Hope’s Too Hard e The Locust Years dall’album d’esordio. La scelta più sorprendente è posta in chiusura, una cover acustica di Freebird, l’inno dei Lynyrd Skynyrd che, seppure spogliato dell’elettricità delle chitarre (e delle armonie del piano), rimane un brano di spessore.