PENNY NICHOLS – Golden State

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PENNY NICHOLS – Golden State (Pensongs 2015)

Le sorprese non finiscono mai quando ci si ritrova ad ascoltare dischi di artisti sconosciuti: il caso di questo CD è emblematico. Ammetto che il nome di Penny Nichols mi suonava del tutto nuovo quando ho cominciato ad ascoltare questo Golden State, ma la sua voce e le sue canzoni mi sono piaciute da subito e nell’accingermi a scrivervene qualcosa sono andato a documentarmi scoprendo che questa signora di sessantotto anni – ma dotata di una voce limpida e fresca come non mai – pur avendo fatto dischi più occasionalmente che altro ha frequentato artisti della scena che contava negli anni della sua gioventù, dai ragazzi della Nitty Gritty Dirt Band a Jimmy Buffett, suonando nei templi d’allora come il Troubadour e il Fillmore occidentale aprendo concerti per la Joplin, i Quicksilver e molti altri. E registrando il suo disco d’esordio proprio sul finire degli anni sessanta. Per saperne di più su Penny Nichols vi rimando però al numero 125 dell’edizione cartacea di Late For The Sky, dove Mauro Eufrosini, da par suo, ha approfondito l’argomento. Io mi limiterò a parlarvi di questo disco dedicato all’infanzia e alla gioventù della Nichols nell’Orange County in cui abitava con la sua famiglia. Golden State è un disco elegante e diretto, spumeggiante nella sua semplicità, con una produzione essenziale che lascia spazio alla bella voce di Penny e alle armonie vocali che intesse di volta in volta con gli amici che la assistono nella registrazione, una sezione ritmica leggera, quasi in punta di piedi, chitarre acustiche ed elettriche, un mandolino che fa capolino di tanto in tanto.

Un disco che piace fin dal digipack della copertina con tenui colori pastello che rispecchiano alla perfezione quanto troviamo all’interno della confezione. Dodici canzoni, quasi tutte autografe e per la maggior parte composte in tempi recenti, salvo qualche ripescaggio, come apprendiamo dalle date incluse nei credits riguardanti i copyright dei brani. Si inizia subito alla grande con Charlie Bad Boy, grande canzone che lascia subito intendere di che pasta siano il songwriting e la voce di questa signora, con il valore aggiunto di una bella chitarra slide suonata da Glen Roethel (musicista in proprio) a rafforzare il risultato finale. Di certo uno dei punti forti del disco, al pari della successiva Guadalupe, dalle forti atmosfere messicane, dedicata dalla Nichols a quattro donne ispano-americane che si prendevano cura di lei da bambina quando la madre era altrimenti affaccendata. Atmosfere che ritroviamo poi in Poco al Poco un brano quasi recitato, forse un po’ al di sotto della media del disco. Leanin’ Back & Laughing è il ripescaggio della canzone di uno dei suoi amici dei vecchi tempi, Steve Noonan; mi sembra però migliore il brano autografo che la segue, Kick The Can, oppure la delicata Winter Fires (firmata da Jonita Beede, presente a duettare con la Nichols) che nel break strumentale riprende il tema del traditional The Water IS Wide (per altro già saccheggiato da Neil Young per la sua Mother Earth). E poi arriva un altro dei capolavori del disco, Stevie Wonder, una canzone nuova di zecca ispirata ad un incontro con la “meraviglia” risalente al 1968, cantata con ispirazione incredibile e con un arrangiamento azzeccatissimo in cui Vito Petrocitto (responsabile di quasi tutte le chitarre del disco) ricama a suon di wah-wah conferendo al risultato un’atmosfera molto Motown. Meno immediate sono That’s You Jim e One & Only Life (che però cresce dopo ripetuti ascolti), quindi il disco si avvia verso il finale con l’ottima Carbon Canyon guidata da un bel mandolino, seguita dal fiume di ricordi in punta di piedi della delicata LA Man (scritta però da Nina Jo Smith, presente al canto) che comincia rievocando un concerto di Janis Joplin all’Hollywood Bowl. Chiusura con Mr. Sad Eyes, forte di un cantato in odor di Joni Mitchell, di nuovo con la slide di Roethel, che stavolta provvede anche ai cori.

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