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MARTY STUART & HIS FABULOUS SUPERLATIVES – Altitude

di Paolo Crazy Carnevale

7 novembre 2023

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Marty Stuart & His Fabulous Superlatives – Altitude (Snakefarm 2023)

C’è voluto qualche anno per avere il seguito dell’ottimo Way Out West, inciso da Stuart e soci sotto la guida di Mike Campbell: finalmente però il nuovo disco può girare nei nostri apparecchi stereofonici, giradischi o lettori CD che siano, ed è un degno seguito del disco prodotto dall’ex Heartbreaker.

Nel frattempo, Stuart i Superlativi favolosi non hanno certo dormito, hanno suonato molto in giro, Europa (ma non Italia) inclusa, hanno fatto un tour insieme a Roger McGuinn e Chris Hillman per celebrare i 50 anni del byrdsiano Sweeteheart Of The Rodeo e altrove hanno anche ospitato sul palco Gene Parsons, costruttore del primo prototipo di Stringbender, posseduto ora proprio da Marty Stuart.

E proprio attorno alla storica Fender Telecaster già di Clarence White ed ora di Stuart gira il nuovo disco, attorno a quella chitarra e alla musica dei Byrds che Marty ascoltava da ragazzo e che fondamentale è stata per la sua formazione musicale a cavallo tra rock e country.

Marty è un chitarrista e mandolinista straordinario, ma nel suo gruppo c’è anche un altro chitarrista ancor più straordinario, Kenny Vaughn, e i due insieme riescono a far uscire scintille e lampi dai loro amplificatori. Aggiungiamoci poi un batterista essenziale e preciso come Harry Stinson e un bassista con un pedigree da favola come Chris Scruggs, senza dimenticare che sono tutti abili armonizzatori in fase cantata…

Altitude, come dicevamo, gira intorno ai suoni del country spaziale basato sugli intrecci delle chitarre, Scruggs è qui anche in veste di chitarrista di pedal steel e provoca nell’ascoltatore un’autentica sbornia sonora irrinunciabile.

Fin dalla copertina è evidente la volontà di omaggiare i Byrds, il titolo del disco sembra poi un richiamo alle mitiche otto miglia di altezza: Lost Byrd Space Train (Scene 1). lo strumentale che apre il disco è da solo un capolavoro, un paio di minuti di pura poesia chitarristica in cui lo stile, il sound, la tecnica, la creatività fanno quasi pensare che ci sia ancora Clarence White a toccare le corde di quella Telecaster “truccata”. Si sfocia poi in Country Star, quasi una prosecuzione del brano strumentale in cui Stuart canta le sue aspirazioni ispirate dalla musica dei Byrds, e non da meno è la solida Sittin’ Alone con un bel lavoro di dodici corde elettrica (guarda caso). A Friend of Mine ha un’andatura sixties, molto surf con chitarra e tamburi come si deve e echi che riportano alla mente i temi principali dei Bond Movies, come curiosamente avevamo riscontrato anche nel recente album di Rhiannon Giddens; Space dice tutto fin dal titolo, Stuart è impegnato al sitar, il cui suono si intreccia con le chitarre di Vaughn e sembra di ritrovarsi in un disco dei Byrds del 1966 (non sarà un caso che in occasione del tour del 2022, Stuart e soci si fossero fatti ritrarre su sfondo nero a bordo di un tappeto volante!).
La bellezza del disco sta però nel fatto che al di là di tutte le volute citazioni sonore e iconografiche, si tratta di un disco originale in tutto e per tutto, probabilmente da tenere presente nel fare le classifiche del meglio a fine anno: la title track è country rock del più classico, uno dei pochi brani con ospiti, vale a dire Gary Carter alla pedal steel, Pig Robbins al piano e Aubrey Hayne al violino. Per il resto il quartetto fa quasi tutto da solo, con i risultati che vi abbiamo detto.

Ancora country rock nella seguente Vegas con un interessante stacco nel bridge e assolo di chitarra micidiale; la breve The Sun Is Quietly Sleeping sembra far riferimento alla psichedelia colta di scuola britannica, armonie vocali accurate e quartetto d’archi ad accompagnare un arrangiamento in punta di piedi, segue a ruota lo strumentale che riprende il titolo del brano iniziale, in versione virata leggermente verso la latin music, con le percussioni in primo piano e gli archi usati in coda in maniera sperimentale.

La ritmica di Nightridin’ sembra quasi un boogie blues di John Lee Hooker, le chitarre fanno però la differenza con sonorità quasi garage e echi surf. Tomahawk ha il testo concepito come un talking blues adattato ad un ritmo veloce sorretto da Stinson e Scruggs su cui le chitarre, ritmiche e soliste, si rincorrono. Rock duro e puro è invece, fin dal riff, la successiva Time To Dance, forse il brano che si stacca maggiormente a livello musicale dal concept byrdsiano: le parti di chitarra sono comunque sempre a livello strepitoso, l’affiatamento tra il leader e Vaughn è davvero fantastico, la loro bravura non è virtuosismo fine a sé stesso, in ogni nota che suonano ci sono anima e cuore, come direbbero a Napoli.

The Angels Came Down ha qualcosa del tardo Johnny Cash (non dimentichiamo che Stuart è stato per anni al servizio dell’uomo in nero): sicuramente molto è dovuto allo scarno arrangiamento tutto costruito su un arpeggio di chitarra acustica, solo sull’ultimo minuto si innestano le fantastiche armonie vocali dei Superlatives; poi i trenta secondi di Lost Byrd Space Traine (Epilogue) chiudono elegiacamente il disco.

Paolo Crazy Carnevale

MARTY STUART AND HIS FABULOUS SUPERLATIVES – Way out West

di Paolo Crazy Carnevale

28 dicembre 2017

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MARTY STUART AND HIS FABULOUS SUPERLATIVES – Way out West (Superlatone Records 2017)

È stato un anno prolifico di bei dischi il 2017. Spesso anche di dischi molto belli, oltre che di ritorni inattesi e di notevoli conferme. Credo però che la mia palma di disco più bello sia da consegnare a questo elaborato disco di Marty Stuart. Il non più giovanissimo chitarrista di fiducia del Johnny Cash pre Rick Rubin ha un gruppo che è letteralmente da strapparsi i capelli tanto i musicisti sono bravi (il nome della formazione non è sicuramente scelto a caso); Stuart poi è sempre stato un chitarrista con i controfiocchi, ma mai come in questo disco ce lo aveva dimostrato. Avrebbe potuto fare uno dei tipici stanchi dischi nashvilliani, senza troppa fatica, di quelli d’effetto, ben suonati e con gran poca anima, invece ecco il colpo di genio: un affresco western di grande spessore, con una cura dei suoni ineccepibile (e con Mike Campbell alla consolle era difficile aspettarsi di meno) ed un’ispirazione davvero da competizione.

Potrebbe essere considerato quasi un concept questo disco, un omaggio alla musica americana senza essere dichiaratamente “americana” (il gioco di parole è una tentazione troppo grande e irresistibile): Stuart scrive quasi tutti i brani da solo o in compagnia dei suoi superlativi favolosi e il risultato è degno del nome del gruppo, sia nei brani strumentali che in quelli cantati: si parte con l’assaggio brevissimo di Desert Prayer in cui emergono ancestrali richiami alle popolazioni native, e poi via con uno strumentale dagli echi twang, Mojave, una sorta di bisnipote dell’Apache di shadowsiana memoria anche se credo che il riferimento sia più al deserto omonimo che alla tribù indiana che diede il titolo ad un vecchio albo di Tex Willer.
A questo punto la statura del disco è già chiara, poi arriva l’unica cover, Lost On The Desert, già affrontata da Johnny Cash nei primi anni sessanta, come se Marty volesse gettare un ponte tra la sua musica e quella del suo vecchio datore di lavoro. Con la title track siamo al cospetto invece di un brano quasi parlato, con echi della storica Ode To Billy Joe, ma qui ci sono dei lavori di chitarra degni di un gruppo superlativo, lavori di chitarra snocciolati con un equilibrio sonoro che colpisce cuore e orecchie.

Marty Stuart si divide le parti chitarristiche (acustiche ed elettriche) con Kenny Vaughan, mentre Harry Stinson si occupa dei tamburi e Chris Scruggs (figlio d’arte di antica e nobile stirpe) suona il basso: e a proposito di chitarre, va ricordato che Stuart è anche il possessore della Telecaster che fu di Clarence White, quella su cui Gene Parsons installò il primo stringbender della storia del chitarrismo e dell’umanità. Non stupitevi dunque se qua e là, in maniera felicissima vi sembrerà di cogliere echi stilistici del chitarrista dei Byrds.

El Fantasma Del Toro (firmata dal batterista) è di nuovo strumentale una sorta di via di mezzo tra un tango e la musica d’oltre Rio Bravo, altra bella composizione, seguita da Old Mexico il cui titolo la dice lunga su cosa ci si debba aspettare ascoltandola. Il lato A del disco si chiude con la riuscita Time Don’t Wait, in odore di jingle jangle visto che Vaughan si dedica alla 12 corde, e ospita il producer in qualità di terzo chitarrista e tastierista.

La facciata B si apre con un altro strumentale, Quicksand, di nuovo con echi twang che preludono ad Air Mail Special, brano molto spedito in cui le chitarre sviluppano una serie di belle intuizioni che richiamano lo stile di Clarence White. Torpedo, ancora strumentale, è puro surf western, non è difficile immaginare di vedere scorrere le immagini di un film di Tarantino sulle note di questo brano; il disco procede con l’epicità di Don’t Say Goodbye in cui gli elementi fin qui ascoltati si mescolano con un arrangiamento affidato ad una sezione d’archi che a tratti ricorda quello usato per i temi principali delle pellicole dedicate a James Bond, sicuramente un altro grande brano. Whole Lotta Highway ospita tra i suoi solchi il produttore Campbell e la pedal steel di Gary Carter, col risultato di un autentico trionfo chitarristico che ancora una volta emana echi byrdsiani post 1968. Per riportare un po’ di tranquillità c’è una breve ripresa a cappella del brano che aveva aperto il disco, poi la dolente ballata Wait For The Morning, sempre all’insegna di un’atmosfera e di una ricerca sonora ineccepibili: non escluderei che nel (superlativo) solo centrale, per il quale s’impongono applausi e scappellamenti, Marty stia suonando davvero la chitarra con lo stringbender che fu di Clarence White.

L’atto di chiusura è la ripresa della title track, in versione arrangiata con gli archi e con chitarre morriconiane che suggeriscono un tema western da titoli di coda in cui possiamo immaginare un galoppo di cavalieri tra cui non è difficile, a questo punto distinguere Johnny Cash, con ai lati Clarence White, Duane Eddy e Quentin Tarantino.

E scusate se è troppo!