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BUDDY GUY – The Blues Don’t Lie

di Paolo Baiotti

1 novembre 2022

buddy

BUDDY GUY
THE BLUES DON’T LIE
Silvertone 2022

A 86 anni compiuti Buddy Guy, forse l’ultimo esponente del periodo d’oro del blues elettrico di Chicago, continua a pubblicare con una certa regolarità e, soprattutto, con una notevole qualità. Lo superano per età John Mayall (88 anni) e Willie Nelson (89 anni), gli altri due grandi vecchi del blues e del country che non ne vogliono sapere di passare gli ultimi anni della loro vita lontani dagli studi di registrazione.
Tornando a Buddy questo dovrebbe essere il suo 19° disco in studio di una carriera solista avviata negli anni sessanta, ma che ha preso vigore da quando ha firmato per la Silvertone nei primi anni novanta. Se è vero che in concerto da un po’ di tempo tende a gigioneggiare alternando momenti esaltanti ad altri di routine, in studio non ha mai deluso, soprattutto da quando nel 2008 in Skin Deep si è unito al produttore e batterista Tom Hambridge (Susan Tedeschi, George Thorogood, James Cotton, Devon Allman, Kingfish Ingram) che lo ha affiancato anche nella scrittura riuscendo a tirare fuori dalla sua voce, ancora potente ed espressiva e dalla sua chitarra quanto di meglio il blues contemporaneo possa offrire.
Come nei precedenti album in studio Buddy si circonda di amici di prestigio che affiancano l’impeccabile band che lo accompagna formata da Michael Rhodes e Glenn Worf al basso, Rob McNelley alla seconda chitarra, Reese Wynans alle tastiere, Kevin McKendree al piano e Hambridge alla batteria, ma per la riuscita del disco nessuno è indispensabile quanto la voce e la chitarra del grande bluesman della Louisiana.
La ritmata I Let The Guitar Do The Talking e il mid-tempo The Blues Don’t Lie aprono le danze con l’apporto corroborante di una sezione fiati, ma il disco sale veramente di tono con l’esemplare slow The World Needs Love in cui l’aspra e distorta chitarra è affiancata dal piano. E cosa si può dire del gospel-blues We Go Back in cui Buddy duetta con Mavis Staples ricordando nel testo il blues degli anni sessanta? Una vera goduria per le orecchie! Non convince la robusta e pompata Symptons Of Love con Elvis Costello ai cori, ma l’elettroacustica Follow The Money riprende il cammino con sicurezza, con l’inserimento della seconda voce di James Taylor. Nulla da dire anche sull’energico funky-blues Well Enough Alone e sulla saltellante What’s Wrong With That con l’armonica e la voce di Bobby Rush, altro vispo bluesman coetaneo di Guy e neppure sulla ballata dalle tonalità gospel Gunsmoke Blues in cui si distinguono la voce calda di Jason Isbell e la chitarra sofferta di Buddy. Il livello non scende neppure con la vigorosa House Party, duetto con la cantante country/jazz Wendy Moten e con lo slow Sweet Thing di B.B. King che avrebbe meritato un assolo più sviluppato. Il rock-blues Backdoor Scratching è ravvivato (e salvato) da un’elettrica potente, mentre la cover bluesata della beatlesiana I’ve Got A Feeling fa la sua figura, anche se queste due tracce mi sembrano le meno significative del disco che si chiude con tre brani di notevole qualità: il lento Rabbit Blood con il rilevante piano di McKendree che affianca la voce di Buddy prima del vibrante assolo, la swingata Last Call e una preziosa versione acustica di King Bee eseguita in solitaria.

Paolo Baiotti

BUDDY GUY – The Blues Is Alive And Well

di Paolo Baiotti

1 agosto 2018

Buddy-Guy[880]

BUDDY GUY
THE BLUES IS ALIVE AND WELL
Silvertone/Rca 2018

Sulla copertina del suo nuovo album, Buddy Guy si fa fotografare sorridente in tuta da agricoltore, ma con la chitarra al posto della vanga, al fianco del cartello stradale di Lettsworth, Louisiana, il paesino nel quale è nato 82 anni fa. Sebbene si sia spostato da adolescente a Baton Rouge e poco più che ventenne a Chicago, l’artista sembra volere riaffermare le sue origini nel momento in cui si avvicina alla fine della sua carriera. E lo fa con una classe immensa, con un disco di qualità che ribadisce la sua statura iconica di ultimo grande chitarrista del blues di Chicago, lui che arrivò in città mettendosi in competizione con i contemporanei Magic Sam e Otis Rush, che lo aiutò a ottenere il primo contratto con la Cobra Records. In seguito, pur avendo difficoltà con la Chess Records per il suo stile influenzato dal rock, ha inciso dischi importanti con Junior Wells (Hoodoo Man Blues è un classico), emergendo come solista negli anni ottanta, aiutato dall’appoggio di amici importanti come Eric Clapton e i Rolling Stones, che ne hanno sempre riconosciuto l’influenza. In studio Buddy ha mantenuto una continuità sorprendente, mentre dal vivo negli ultimi anni tende un po’ troppo a gigioneggiare, alternando momenti esaltanti ad altri dimenticabili. Da Skin Deep (Silvertone 2008) ha iniziato a collaborare con il produttore e batterista Tom Hambridge, autore di gran parte del materiale degli cinque dischi più recenti. Il doppio Rhythm And Blues (Rca 2013) ha debuttato al n.27 nella classifica americana, confermando la sua notevole popolarità, non solo nella ristretta cerchia di appassionati di blues, mentre Born To Play Guitar (Rca 2015) ha vinto un Grammy come miglior album di blues. Con The Blues Is Alive And Well il chitarrista realizza un altro disco significativo, il diciottesimo da solista in studio, destinato probabilmente ad aggiungere un nuovo Grammy alla collezione, vista la qualità dei brani e delle interpretazioni. Qualcuno si soffermerà sulla presenza di ospiti famosi ma, per quanto l’armonica di Mick Jagger sia funzionale allo splendido slow You Did The Crime e le chitarre di Jeff Beck e Keith Richards abbelliscano un altro lento da antologia come Cognac, non sono presenze indispensabili, perché il mid-tempo della title track, la vitale Old Fashioned irrorata dai Muscle Shoals Horns, la riflessiva When My Day Comes con le tastiere calde di Kevin McKendree e la magistrale cover dello slow Nine Below Zero (puro Chicago Blues) non sono meno efficaci. La voce di Buddy sembra avere l’energia e la vitalità di un trentenne, quanto alla chitarra c’è poco da dire, è un maestro e lo conferma per l’ennesima volta. Un disco da quattro stelle, che sarebbe stato perfetto con un paio di brani in meno.