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MOLLY TUTTLE & THE GOLDEN HIGHWAY – Crooked Tree

di Paolo Crazy Carnevale

1 novembre 2022

Molly Tuttle - Crooked Tree (1)

Molly Tuttle & The Golden Highway – Crooked Tree (Nonesuch 2022)

Che bel disco! E dire che quando era uscito il suo predecessore, un album di cover realizzato in solitaria in piena era covid, avevo storto la bocca, non riuscendo a capire che utilità avesse al di là del mantenere alto l’interesse nei confronti di un’artista che aveva appena debuttato e che aveva già riscosso consensi abbondanti.

Non esito a definire Crooked Tree una delle cose migliori ascoltate negli ultimi anni, e non solo in ambito di musica acustica, perché si tratta di un signor disco a tutto tondo, al di là degli ospiti che vi appaiono, tutti per altro in modo mai invadente, lasciando alla titolare buona parte della gloria: non per nulla è stata la prima donna a vincere il premio come miglior chitarrista assegnato dall’international Bluegrass Music Association.

Per comporre le canzoni di questo album, la Tuttle – cantante e chitarrista eccezionale – si è fatta aiutare da Ketch Secor degli Old Crow Medicine Show e da Melody Walker, mentre per la parte artistica ha prodotto lei stessa il disco in tandem con il grande Jerry Douglass, presente in buona parte delle tracce col suo dobro.

Il risultato è un LP pieno di suoni acustici bellissimi, con ben tredici canzoni nuove di zecca che traboccano freschezza: non è propriamente bluegrass, e non è country in senso stretto, anche se la base è quella.

La Tuttle è californiana, fin da piccola ha respirato l’aria degli ambienti freak del Golden State e la cosa si sente, in particolar modo in alcuni testi, si è fatta poi le ossa a Boston ed ora ha naturalmente stabilito il quartier generale a Nashville, dove ci sono i musicisti giusti per la sua musica.

Voci brillanti, break strumentali mai sbavati o esagerati, tutti i bravi strumentisti a disposizione non esagerano negli interventi lasciando alla chitarra acustica di Molly la giusta visibilità che spetta di diritto a una stella di prima grandezza.
È già festa col primo brano del disco, She’ll Change, e con la seguente Flatland Girl (con la seconda voce della prezzemolina Margo Price) emerge già tutta la capacità della Tuttle nel saper raccontare delle storie, la struttura musicale è impeccabile e il brano è già tra le cose migliori del disco.

In Dooley’s Farm c’è Billy String con la sua acustica, la struttura è differente, quasi la Tuttle avesse voluto mettere insieme una struttura musicale adatta all’ospite e al suo stile jam, e la cosa riesce appieno, Strings è un protagonista assoluto del panorama bluegrass jam attuale, i suoi concerti in rete sono da urlo, peccato non abbia ancora trovato il giusto equilibrio nelle sue pochissime produzioni in studio. Big Backyard è un bel brano in cui la Tuttle dimostra tutta la sua apertura mentale, il suo essere cosmopolita, ad accompagnarla qui ci sono gli Old Crow Medicine Show al completo con i violini in evidenza ovviamente. La title track è un altro brano di grande effetto, con un bell’attacco strumentale, la seguente Castilleja è una bellissima composizione d’ispirazione western, un’altra storia cantata con intensità e suonata al top.

Chiude la prima parte del disco The River Knows, lunga composizione dalla struttura strumentale più essenziale, vagamente folkie, ricorda la classica Little Sadie.

Attacco decisamente bluegrass per Over The Line, c’è sempre il violino in evidenza, ma l’ospite d’onore è il mandolino di Sierra Hull che si divide i break più belli con l’acustica di Molly, un autentico tripudio che eleva ulteriormente il livello qualitativo di un disco che tra un ascolto e l’altro cresce spropositatamente. L’atmosfera festosa si mantiene alta con Nashville Mess Around, con tanto di yodel e un passaggio di chitarra da strapparsi i capelli.

San Francisco Blues è un lento valzer più che un blues, un omaggio alla città d’elezione di Molly, non il suo luogo di nascita ma il centro culturale di riferimento a lei più vicino: c’è Dan Tyminski a cantare con lei in sottofondo, Dominick Leslie suona un delicato mandolino mentre Molly ricorda nel testo la summer of love, i forty-niners e tutto quanto faccia pensare alla città della Bay Area.

Il brio torna con Goodbye Girl sembra fare riferimento al passato della titolare, al suo trasferimento dalla West Coast a Boston, belle armonie vocali e break brevi ma efficaci per mandolino, banjo, dobro e, ovviamente, per l’acustica.

Side Saddle è la storia di una cowgirl che vuole una sella come quelle dei maschi, non la classica sella da signore di una volta, una cowgirl che vuole cavalcare a gambe arcuate, per così dire, guidando lei il cavallo e non facendosi semplicemente trasportare: la gran parte di dobro per il coproduttore e la voce di Gillian Welch nei ritornelli definiscono splendidamente un brano il cui testo va letto tra le righe.

Il disco si chiude con i delicati ricordi di Grass Valley, altra canzone in cui i ricordi dell’infanzia californiana di Molly emergono prepotentemente, una California freakettona, dalle tonalità tie-dye, deadhead – anche se anagraficamente Molly non può aver ricordi personali diretti dei Grateful Dead, il riferimento del brano è abbastanza evidente – un viaggio col padre per andare ad un raduno musicale pieno di hippies.

Inutile dire che quando il disco finisce prevale la tentazione di ricominciare ad ascoltarlo da capo.

Paolo Crazy Carnevale

MOLLY TUTTLE – …But I’d Rather Be With You

di Paolo Crazy Carnevale

1 gennaio 2021

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Molly Tuttle – …But I’d Rather Be With You (Compass 2020)

Terzo disco per la chitarrista e cantante Molly Tuttle, disco registrato ed uscito nel corso delle restrizioni dovute alla pandemia che ha messo in ginocchio un po’ ovunque le attività musicali, soprattutto quelle di chi non ha grosse rendite (vedi royalties e dischi d’oro) e deve fare i conti con una quotidianità in cui, senza i concerti e i dischi che ai concerti si vendono, andare aventi è assai difficile.

La Tuttle, californiana ma di stanza da tempo a Nashville, si è messa quindi al lavoro in casa, assemblando un disco in solitudine, facendosi guidare a distanza dal produttore Tony Berg (che sta a Los Angeles), e con l’aiuto di proTools e di pochi ospiti ha registrato una manciata di canzoni pescate tra le sue favorite di sempre.

Il disco in verità è gradevolissimo, molto curato nella creazione di equilibri tra la bella voce folk-pop di Molly e il suono della sua chitarra. Alcuni brani rendono molto bene, altri lasciano un po’ il tempo che trovano, come spesso accade nei dischi di questo genere, che ad un genere vero e proprio non appartengono visto che il fil rouge è costituito dall’interprete che non sempre riesce a tracciarlo.

Ad esempio, la cover di Fake Empire dei National che apre il disco non ha mordente e soccombe al cospetto della successiva Ruby Tuesday di rollingstoniana memoria, brano di tutt’altra pasta in cui Molly piazza una notevole chitarra acustica: è chiaro che i National stessi soccombono al cospetto di Jagger e soci, ma qui è proprio il brano ad essere in tono minore. Buona invece A Littel Lost di Arthur Russell, molto intime Something On Your Mind di Karen Dalton, con un violino malinconico suonato da Ketch Secor degli Old Corw Medicine Show, e la minimale Mirrored Heart.

Più coinvolgenti senza dubbio la rilettura di Olympia, WA dal repertorio dei Rancid con la voce di Secor a fare il controcanto, e Standing On The Moon, rubata al repertorio tardivo dei Grateful Dead e resa in una bella versione molto suggestiva, sempre con Secor ospite e proprio da un verso di questo brano è preso il titolo del disco, che metaforicamente fa riferimento alla situazione pandemica: come dire, sono qui, ma preferirei essere con te.

Tra gli altri ospiti ci sono – rigorosamente ognuno da casa propria – il chitarrista dei Dawes Taylor Goldsmith, il tastierista Patrick Warren e alla batteria Matt Chamberlain.

Il disco procede con l’energica ma non memorabile Zero degli Yeah Yeah Yeahs, con la più rilassata Sunflower di Harry Styles, quasi tutta giocata su voce e chitarra acustica, e si chiude con la riuscita How Can I Tell You di Cat Stevens, sorretta da voce, chitarra e violino (sempre Secor), cantata dalla Tuttle con grande sentimento, nel solco delle grandi cantanti californiane degli anni settanta.